“Tieni duro”
Questa è la risposta che Olga Salanueva riceve da René dopo ogni rifiuto del visto da parte del Governo degli Stati Uniti. Il 22 novembre si compiranno 5 anni della sua espulsione dagli USA e rimpatrio a Cuba


 

A.M.González - 17 nov.'05

 

In casa regnano la pace e le risate. La bambina disegna la figura immaginata di suo padre mentre la sorella maggiore, diventata già una donna, mette in ordine la sua stanza.

 

Olga Salanueva e le sue figlie preparano una festa di compleanno ed è quasi impercettibile il dolore che avvolge la vita di queste persone, che continuano a venire ingiustamente separate dal padre e marito che vorrebbe amorosamente riscaldare questi momenti.

 

La famiglia di René González Sehwerert ha vissuto momenti difficili. Proprio questo 22 novembre si compiono 5 anni da uno dei più abominevoli fatti: l’espulsione di Olga dagli Stati Uniti ed il suo rimpatrio a Cuba.

 

“Mi intristii molto. Ero preparata per essere presente a tutte le sessioni del processo. René ed io ci eravamo messi d’accordo che, se lui fosse stato sanzionato e inviato in un altro luogo, io mi sarei trasferita lì e che se fosse stato nuovamente trasferito le sarei andata dietro di città in città, perché la cosa più importante era mantenere la famiglia il più unita possibile. Questa intenzione venne vanificata dalla mia espulsione. Non ho mai pensato che tutto ciò sarebbe durato così  tanto. Pensavamo che si sarebbe fatta giustizia più rapidamente”.

 

Perché ti espulsero?

 

“Il motivo praticamente lo inventarono. Dissero che ero entrata negli Stati Uniti falsificando un visto. Non è vero. René, come cittadino nordamericano, mi reclamò; mi concessero un visto nell’Ufficio d’Interesse all’Avana e viaggiai legalmente su un aereo. Quando arrivai negli USA mi dettero la residenza permanente. Non ci furono inganni. Io stetti lì 4 anni, due dei quali dopo l’arresto di René e non ci furono problemi”.

 

“Quando si stava avvicinando l’inizio del processo contro i Cinque, videro l’opportunità di ricattare René mettendo sua moglie in prigione e lasciando le bambine quasi senza focolare. Secondo loro ciò doveva spingerlo a tradire e a testimoniare per l’Accusa contro i suoi compagni”.

 

“E’ stato veramente il pretesto che li portò loro a venirmi a prendere in casa il 16 agosto 2000, separarmi dalle mie figlie, mettermi in prigione e mantenermi lì per 3 mesi”.

“René non riceveva le mie lettere. Non potetti mai parlare con lui durante la mia prigionia e potevo soltanto comunicare per telefono tramite la bisnonna di Ivette. Chiesi di vederlo per salutarlo prima di tornare a Cuba, ma non mi dettero il permesso”.

 

Quando lo vedesti per l’ultima volta?

 

Il 16 agosto. Lo stesso giorno che mi arrestarono. Nel tragitto verso il carcere mi chiesero se lo volevo vedere, che avevo l’opportunità di cooperare con loro. Gli ho detto che non avevo niente da dire ma che sì lo volevo vedere.

 

Immediatamente organizzarono tutto e con un indumento da detenuta, abbastanza sporco, il più sporco di tutti e appena alzata dal letto così come mi avevano tirata fuori dalla mia casa, mi portarono di fronte a lui”.

“Vari agenti dell’FBI portarono René. Alcuni avevano partecipato al suo arresto e al mio. Fu molto rapido. René mi chiese chi mi aveva arrestata e io gli risposi che era stata l’Immigrazione. Si sentì sollevato e disse: ‘Ti vogliono espellere, dobbiamo prepararci per questo’. Addirittura ironizzò e mi disse ‘ti sta bene l’arancione’. Mai pensai che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto. Sono già passati più di 5 anni...”

 

Come fu quell’incontro?

 

“Per noi gli incontri erano sempre una cosa meravigliosa. Io era abituata a vederlo con la divisa da detenuto che indossava con eleganza. E’ molto elegante, è molto snello e immagino che nello stesso modo egli abbia visto me. Nell’incontro e nel saluto ci baciamo e abbracciamo.

 

“René si rese conto che da quel momento in poi ci aspettavano molti brutti momenti. Disponevamo di segnali d’avvertimento perché il 13 agosto, il giorno del suo compleanno, lo visitai e menzionò le lettere della Procura che gli proponevano di fare alcuni cambiamenti nelle sue accuse. Uno degli ultimi paragrafi diceva: ‘Tenga presente che sua moglie è qui con un permesso migratorio che può venire revocato”.

 

Qual è l’ultima cosa che ricorda di quell’incontro?

 

“La sua forma, il suo ottimismo, la sua nobiltà, l’affetto con il quale mi trattò. Si rendeva conto della situazione, tentava di incoraggiarmi”.

 

Olga Salanueva non può trattenere le lacrime. Nella terrazza dove conversiamo i suoi occhi si sono inumiditi varie volte, ma non aveva mai pianto fino a questo punto. Approfitta per commentarmi che è molto piagnucolosa, che negli ultimi giorni di tanto trattenere il pianto patisce forti mal di testa, che glielo ha detto a René e lui le ha risposto: «Perché lo trattieni. Piangi, questo non è male, male è avere mal di testa».

 

Perché i suoi occhi sono così importanti per te?

 

“Tutta la sua nobiltà si esprime nei suoi occhi. E’ molto espressivo, molto estroverso, molto affettuoso, soprattutto con le persone vicine. In quell’incontro tentò di fare in modo che non ci vedessero tristi... Non ne ebbe proprio voglia”.

 

Piangesti?

 

“No. Non so di che cosa si armano le persone in momenti così, ma quando sei di fronte al nemico, non piangi. Quando vidi René per la prima volta nel “buco”, dopo che stavamo da tempo l’uno di fronte all’altra ma separati dal vetro, cominciai a piangere. Ma quando sei davanti a loro non piangi, nonostante le cose che ti dicono per ferirti, come quelle che mi dissero il giorno seguente all’arresto di René.

 

Agenti dell’FBI vennero a casa mia e mi assicurarono di sapere che io ero al corrente di tutto. Mi chiesero che per favore parlassi con loro, di tenere presenti le mie due figlie, una delle quali era cittadina nordamericana – si trattava di Ivette che aveva 4 mesi – e che come Governo la potevano inviare in un’istituzione. Furono molto ingiusti con me. Cose che facevano molto male, ma non mostrai una lacrima.”

 

Com’erano le condizioni in prigione?

 

“Mi rinchiusero sola in una cella, senza comunicazioni con il mondo esterno, con un cibo orribile e quando arrivai nel carcere di Krome per le udienze della Corte seppi che lì le condizioni erano migliori, che la popolazione penale era suddivisa in gruppi, che usciva a prendere il sole, poteva comprare il cibo nelle macchinette che c’erano e vedere la TV. Per me affittarono una cella nella prigione di Fort Lauderdale, era una punizione addizionale.”

 

“Quasi alla fine del mio soggiorno ebbi due compagne e una di loro avvisò la famiglia di René a Sarazota affinché sapessero che sarei tornata a Cuba”.

 

“Non essendo riusciti a piegare René, nè me, nè la mia famiglia, adesso si stanno accanendo e Ivette sta pagando il prezzo di non conoscere suo padre”.

 

Hai un’idea di cosa possa accadere in questa fase del processo?

 

“Quel che ha fatto il Governo USA è prolungare il processo. Una volta che i tre giudici della Corte di Atlanta hanno emesso la sentenza, si sa che tecnicamente è impossibile annullarla e vogliono utilizzare tutti i passi giuridici possibili per continuare a prolungare il soggiorno in carcere dei Cinque. Penso che i dodici emetteranno lo stesso verdetto e la Procura continuerà a tentare di prolungare la detenzione. Forse arriveranno perfino al Tribunale Supremo. Il fatto è che politicamente, moralmente e tecnicamente hanno perso”.

“Essendo questo un caso politico lo vinceremo col sostegno dell’opinione pubblica internazionale  e ciò avverrà prima che René sconti la sua condanna a 15 anni”.

 

Nutri la speranza di poterlo vedere?

 

“Ogni volta che vado nell’Ufficio d’Interesse, ho la speranza che provino un po’ di umanità e mi diano il permesso di visitarlo, ma  poi mi rendo conto della realtà, che sono troppo buona a pensarla così. Ci penso e mi rendo conto di com’è il nemico, della sua crudeltà. Quando commento a René il rifiuto, mi dice: Tieni duro”.