Guantanamo:

La privazione del sonno, supplizio corrente

 

 

 

 

Corine Lesnes - Le Monde, 19 novembre 2005

 

 

 

La privazione del sonno è uno degli elementi di stress che sono stati sistematicamente utilizzati a Guantanamo. Non esiste nessuna definizione riguardo alla soglia a partire dalla quale la privazione di sonno è considerata come un equivalente della tortura, ma, secondo gli specialisti, è una dimensione fondamentale della strategia per distruggere un detenuto.

 

 "Il sonno è una delle funzioni fondamentali del corpo umano", spiega la psicologa Katherine Porterfield, del Programma per i reduci dalla tortura dell'Università di New York.

Il centro riceve reduci dalla tortura provenienti da 70 paesi. La privazione del sonno è un supplizio frequente.

 

Coloro che interrogano perturbano il ritmo cardiaco dell' individuo, risvegliandolo in ogni momento. Conseguenza: un deterioramento fisico e la perdita di orientamento cognitivo. Uno studio risalente al 2001 mostra che la privazione del sonno aumenta il dolore. A parità di pressione fisica, il dolore è più intenso. La privazione del sonno può anche condurre ad una perdita di controllo della temperatura corporea. Dunque l'esposizione al freddo o al caldo è un altro elemento della tortura cosiddetta "dolce".


Secondo le testimonianze ufficiali o raccolte dalla stampa, la privazione del sonno è largamente impiegata a Guantanamo e Abu Gharib. Le celle sono costantemente illuminate o immerse in una musica forte. Un detenuto può essere risvegliato, sottomesso a interrogatorio e poi essere riportato in una cella differente. Appena si addormenta, viene risvegliato e portato in un’altra cella ancora. La stessa scena si può ripetere cinque o sei volte per notte.

 

Per il direttore del Programma sulla tortura, il dottor Allen Keller, la tortura è efficace in un campo : “Creare un ambiente di terrore”. Lui che lavora con vittime venute dal Tibet o dall’Africa, teme che l’esempio americano “metta i civili di tutto il mondo a maggior rischio di essere torturati”.

 

 (Traduzione di Paola Mirenda)