L'«incubo» del Che
 



| mercoledì 8 febbraio 2006 | Gianni Minà |
 


E' proprio un incubo per il pensiero unico, come scriveva Manuel Vazquez Montalban, questo benedetto Ernesto Che Guevara che continuamente, con il suo bagaglio di ideali e valori viene dato per estinto e invece periodicamente resuscita, per mettere in crisi gli immorali, i paladini del mercato e dell'ipocrisia e anche tutti i pentiti della sinistra e le anime candide («ma in fondo era un guerrigliero...») che lo vivono come un fastidio ogni volta che cercano di parlare di giustizia sociale o di sviluppo.

 

Un concetto che, come sottolineava Pasolini, non sempre corrisponde a progresso. Il messaggio di Ernesto Guevara non fa a tempo a incarnarsi nella resistenza e nelle vittorie, per esempio, degli indigeni boliviani che nuove foto, recuperate dalle viscere della storia, ribadiscono quanto feroce sia stata la sua esecuzione e gli attimi successivi ad essa, dopo che, in nome della democrazia, si era deciso di levarlo dal mondo. Una scelta che, ancora una volta, mette in discussione il primato e l'etica di una civiltà, quella occidentale, che si reputa superiore a qualunque altra, ma poi non arretra di fronte ad un assassinio.

Perché la decisione di assassinare il Che ferito, catturato il giorno prima a la Quebrada del Juro (e questo nuovo corredo di immagini lo conferma) fu presa da Felix Rodriguez, allora capo stazione della Cia in Bolivia che, evidentemente, ebbe quest'ordine dal suo governo, quello di Washington, quello allora presieduto dal democratico Lyndon Baines Johnson.

I militari boliviani si adeguarono, sapendo di non essere in grado di gestire un processo al Che per la pressione mondiale che ci sarebbe stata. Così fornirono soltanto il «materiale umano» per quella incombenza. E poi sotterrarono il corpo di Guevara e dei compagni caduti il giorno prima sotto il manto di una autostrada, per paura che una qualunque tomba di quel rivoluzionario etico diventasse un luogo di culto. Eppure, fu proprio il capitano dei rangers, autori della cattura, Gary Prado, a scrivere qualche anno dopo il libro più ricco di ammirazione e rispetto che il «guerrigliero eroico», come lo chiamano in America Latina, si potesse aspettare. Gary Prado che, secondo alcuni, ha avuto anche a che fare con la restituzione a Cuba della mano mozzata al Che dopo l'esecuzione per avere la prova da mostrare che fosse proprio lui, si era fatto fotografare anche a fianco di Guevara, così come Felix Rodriguez che per il suo lavoro sporco utilizzava molti soprannomi e in quell'occasione agiva sotto la falsa identità di Felix Ramos, capitano dell'esercito boliviano.

Sull'elicottero che trasportò il guerrigliero ferito dal luogo della sua cattura alla piccola scuola de la Higueras, dove passò la sua ultima notte di vita, salirono, oltre al pilota Niño de Guzman, il colonnello Centeno Anaya, capo delle operazioni antiguerriglia nella zona dei rangers boliviani e, a conferma del suo ruolo e del suo potere decisionale, proprio Felix Rodriguez che lasciò a terra il colonnello Saucedo Parada, responsabile del servizio di intelligence boliviano dell'ottava divisione che stese poi la relazione sulle ultime ore e la morte del Che.

Saucedo Parada aveva fornito di una macchina fotografica il pilota dell'elicottero che doveva fare degli scatti al Che ancora vivo. Proprio Felix Rodriguez, però, mise fuori uso la camera aprendo al massimo l'obiettivo e sovresponendo le immagini. Gli unici documenti su quella vicenda dovevano essere, evidentemente, in mano alla Cia, de Guzman aveva però con sé una macchinetta personale. Le foto che ribadiscono la ferocia dell'assassinio del Che arrivarono così a Federico Arana, capo della G2, il servizio segreto militare boliviano. E ora, per merito dello scrittore argentino Pacho O'Donnell, sono state rese pubbliche dal Clarin e da tutti i media del mondo.

Nello sguardo del Che sporco, arruffato e pensoso non c'è né paura, né sorpresa. C'è fatalismo. In una intervista resa a Roberto Savio che per la Rai, solo cinque anni dopo, fece una memorabile ricostruzione sulla morte di Ernesto Guevara, alcuni colleghi del caporal maggiore Mario Terán (al quale, dopo una conta, era toccato in sorte il ruolo di esecutore) affermano che quest'ultimo quasi non ebbe il coraggio di eseguire l'ordine. Entrò nella stanza dove per terra stava il Che, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo e uscì. Allora gli fecero bere dell'alcol e rientrò. Sempre i compagni, in quel documentario, giurano che Terán , a quel punto, gli sparò una raffica di mitra con le spalle voltate. Ma il colpo di grazia non lo dette lui. Sarà un colpo al cuore a finire il Che e i servizi segreti militari boliviani lo attribuirono al sedicente capitano Felix Ramos, alias Felix Rodriquez che, fino a poco tempo fa, viveva a Miami dove gestiva un salone di automobili e non concedeva interviste. Mario Terán, invece, si suiciderà due anni dopo l'assassinio del Che, gettandosi da una finestra a la Paz.

Nelle nuove foto questi giovani rangers dalla faccia quasi da adolescenti, non paiono - come ha scritto paco Ignacio Taibo II - «cacciatori trionfanti con la loro preda. Semmai sembrano giustizieri timidi e sorpresi che non vogliono guardare la macchina fotografica. Sembrano spaventati».

A Mario Terán , come ha ricordato lo storico messicano in Senza perdere la tenerezza, memorabile biografia del Che, «avevano promesso un orologio e un viaggio a West Point per frequentare un corso da sottufficiali». E' inutile dire che le promesse non furono mantenute. Forse per il poco tempo a disposizione. Ma anche l'episodio legato a queste nuove foto conferma perché Ernesto Che Guevara continua a essere un incubo per il pensiero unico e per gli ipocriti.