Cuba, il rebus

 della successione

 

 

| 2 agosto 2006 | M.Chierici |

 

 
 

Dovevano essere 80 anni «in famiglia», compleanno del 13 agosto. In questi giorni nostalgia politica e risentimento si stavano attrezzando per celebrare un evento ormai senza trepidazioni. Il mondo ha la testa girata verso i fuochi del Libano e la vecchia storia di chi governa da 47 anni la rivoluzione invecchiata, sembrava destinata al ricordo delle fanfare di un passato che continua. Ancora una volta (come ripete sorridendo Garcia Marquez) Castro ruba la scena con un colpo di mano inatteso.

Dopo 47 anni dà le dimissioni da tutto: da comandante in capo, primo segretario del Partito Comunista, presidente del Consiglio di Stato, ministro della repubblica di Cuba. Insomma, apre le mani e lascia il potere assoluto, sia pure «per qualche settimana»,

parole del comunicato ufficiale. Dire senza nascondere ma senza allargare la notizia: operazione all'intestino e lunga convalescenza. Castro firma la lettera che attribuisce ogni potere al fratello Raul, vice di tutto. Il suo lungo impero sembra concluso ore 6 del pomeriggio, 31 luglio. «La battaglia delle idee continuerà», autografo del comandante.

Per capire quanto è lunga la battaglia, nel 1953 mentre l'avvocato Castro dava l'assalto alla caserma Moncada nell'illusione di rovesciare il dittatore Batista, re Faruk scappava dall'Egitto travolto dal colpo di stato del generale Nasser. Charles De Gaulle, umiliato alle elezioni dopo aver liberato la Francia dai tedeschi, masticava cattivi pensieri. L'altra metà del secolo si preparava a cambiare il mondo. Uno alla volta si succedono i presidenti americani: Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, due volte Reagan, Bush padre, due volte Clinton, due volte il Bush che ha pacificato l'Iraq.

Gli slogan del patriottismo inseguono otto milioni cubani di nati sotto il ritratto del Fidel già al potere. Poco più di due milioni lo hanno visto arrivare quando erano ancora ragazzi. Insomma, icona scomoda, ossessionante, esaltante, trascinante. Per 47 anni è riuscita a suscitare sentimenti radicali e contrastanti nelle due americhe. Ma Cuba è solo un'isola e nessun altro paese del continente ha avuto il permesso di ripeterne l'avventura. La forza di Castro è cresciuta e si è mantenuta anche sulla stupidità di chi lontano-vicino ne ha insidiato l'egemonia. Rafforzandola, mitizzandola mentre il comandante manteneva lo stesso filo nazionalista con la disposizione a compromessi a volte imbarazzanti ma senza cambiare l'impostazione del primo momento: ogni decisione doveva restare nelle sue mani. A nessuno ha concesso di dubitare. 47 anni dopo slogan e contro slogan continuano ad incrociarsi tra l'Avana e Miami con la stessa inutilità, mentre la concretezza degli affari nasconde aperture commerciali dirette che Stati Uniti e Castro con qualche imbarazzo mantengono nell'ombra. Ne è simbolo lo zucchero: a Cuba non c'è più e tre volte la settimana sbarca dal Texas, pagamento in contanti. Nessuno ha mai cercato una soluzione ragionevole contro embargo e autocrazia. Solo negli ultimi mesi della presidenza, Jimmy Carter aveva approvato il compromesso che riavvicinava Cuba a Washigton: doveva essere firmato nella solennità di una «cerimonia storica» dopo la riconferma di Carter alla presidenza. Ma ha vinto Reagan ed è ricominciata la stagione dei lunghi coltelli. E dei lunghi discorsi. Castro ha segnato il record del palazzo di vetro delle Nazioni Unite. Era il 1960, primo intervento del giovane rivoluzionario: 4 ore e 29 minuti. Prova generale dei lunghi monologhi Tv che i cubani hanno ascoltato fino a notte fonda. È stato anche il leader più bersagliato dagli attentati. Solo la Cia ne ammette 640.

Ma quando il muro di Berlino si è rotto è cominciato un «periodo speciale» non solo per la sparizione del petrolio russo, soprattutto per lo smarrimento di un paese isolato dai grandi disegni dei grandi vicini. E allora Castro ha riaperto l'isola al mondo. Al turismo, agli investitori stranieri. Le strategie cubane hanno cucito dialoghi inattesi. Con la Chiesa, visita di Giovanni Paolo II, momento di emozione sincera dell'ex ragazzo allevato dai gesuiti. Ogni porta che si apriva, andava bene. Il dogmatismo del partito comunista ammette, primo al mondo, buoni rapporti con la massoneria: palazzo di 8 piani e museo-attrazione per i fratelli d'Europa e dell'altra America.

Adesso il primo compleanno senza Fidel. Manifesti di evviva malinconici. La torta di pasta di coca che Morales ha già spedito dalla Bolivia e il regalo che Chavez ha promesso di ritorno dal Vietnam. Una certa America Latina non si rassegna. Per il momento.

Raul, il fratello, ministro della difesa, è l'erede designato da una costituzione tante volte riconfermata da Fidel. 75 anni, nessuno charme, vita privata con qualche ombra. Da settimane voci e giornali Usa anticipavano «l'aggravarsi della malattia» del leader maximo. Ma lo ripetono da anni e nessuno dava retta. L'allarme ha preso consistenza quando lo stesso Castro, per la prima volta, ha parlato in pubblico della successione, tabù anche per i dissidenti.

Nel 2001 Castro sviene sul palco di un lungo discorso. Nel 2004 inciampa a Santa Clara mentre abbandona il microfono: cade, spalla e braccio fratturati. Mormorii su modeste ischemie cerebrali. Lunghi mesi di riabilitazione. Ma torna in pista, più affilato, più rigido, eppure la passione non si spegne. E i suoi viaggi ne continuano il trionfo popolare. A sorpresa lo scorso novembre, università dell'Avana, parlando ai giovani ammonisce sulla «non reversibilità del socialismo anche quando i veterani spariranno» lasciando il posto «ad una nuova generazione di leaders». E Raul rincalza: l'insegnamento di Fidel, fa sapere, non si può trasmettere con un pezzo di carta senza coinvolgere coloro che già occupano i posti chiave del paese. «Il Partito Comunista che riunisce l'avanguardia rivoluzionaria è la sola istituzione in grado di raccoglierne l'eredità», dice. Il Comitato Centrale del partito dopo due anni di silenzio, a metà luglio conferma in seduta plenaria la «successione istituzionale». Ed è a questo punto che Washington annuncia un fondo speciale di 80 milioni di dollari per favorire la transizione democratica di Cuba dopo la scomparsa di Castro.

Si apre un problema generazionale. Fino al 2005 Castro aveva favorito l'emergere dei trenta-quarantenni. Felipe Perez Roque, per 17 anni segretario del comandante nelle lunghe notti che il comandante dedica al lavoro, era diventato cancelliere, ma non solo: punto di riferimento interno e internazionale per capire dove voleva andare Fidel. Adesso il partito dei sessantenni ha ripreso forza anche se Perez Roque continua ad apparire erede designato a dirigere il collettivo. Qualche somiglianza con il collettivo dei presidenti regionali del dopo Tito im Jugoslavia. Il disegno non è improvvisato. Per evitare «corruzione e ridare slancio rivoluzionario alle strutture del paese» due anni fa l'economia era stata ricentralizzata, le aperture verso imprese straniere filtrate e a volte respinte. Un modo - lo si è capito nel tempo - per attribuire al Pcc il potere di governare con autorità i problemi della transizione. Con tre ipotesi: ritorno al vecchio modello socialista. Improbabile. Modello cinese alla cubana. Possibile. Autogestione cooperativa, con associazioni sindacali e corporazioni chiamate a gestire industrie e servizi al posto dello stato. Già i militari di Raul Castro, quasi disarmati, stanno sperimentando l'ipotesi occupandosi soprattutto di alberghi, villaggi vacanze, taxi e altre organizzazioni turistiche. Payà, dissidente cattolico, e Morùa, intellettuale socialdemocratico, leader di movimenti non riconosciuti, non sarebbero d'accordo: chiunque gestisca il potere centralizzato e nega l'esistenza di altri partiti continua a sdegnare una normale democrazia. E Cuba resta congelata mentre il mondo cambia.

«Io sono un coniglio, mio fratello, un elefante». Raul cerca di sdrammatizzare, ma la verità è proprio questa. A Miami, dall'altra parte del mare, cominciano i giochi. Fra tre mesi elezioni di mezzo mandato e il Bush governatore della Florida e il Bush presidente, possono giocare con emozioni che fanno un po' dimenticare i disastri del Medio Oriente. Battaglia per il momento mediatica, ma non indolore.