| 4 gennaio 2007 | tratto da www.comeDonChisciotte.org |

HUGO CHÁVEZ, UOMO DELL'

ANNO PER CARMILLA


 

 


Quest’anno, alla rivista Time, è capitato un curioso incidente. Ha pensato di affidare ai suoi lettori on line la scelta dell’ “uomo dell’anno”, cui consacrare la prima copertina del 2007. Pessima decisione, visto che il personaggio più votato è stato il presidente del Venezuela Hugo Chávez, seguito dal capo del governo iraniano, Mahmoud Ahmadinejad.

Di fronte a due nomi imbarazzanti, Time ha scelto una via degna di Ponzio Pilato. Ha cioè deciso di conferire il titolo di “uomo dell’anno” ai votanti stessi. La copertina è andata a un generico “popolo di Internet”.

Ebbene, Carmilla non sta al gioco e conferisce il titolo proprio al personaggio indicato dai lettori di Time. Seguono le motivazioni.

Sono tre anni che su Carmilla non mi occupo dell’Iraq. L’ultima volta che lo feci fu con un articolo intitolato L’Iraq è un severo maestro. A ciò che scrissi allora non ho trovato, in seguito, altro da aggiungere. Gli esiti catastrofici dell’intervento presunto “umanitario” sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso governo degli Stati Uniti ha finito per ammettere la propria sconfitta. Saddam Hussein è stato impiccato, ma la fine della sua dittatura lascia un paese in piena guerra civile e sull’orlo della divisione, governato da un esecutivo fantoccio che in realtà non controlla nulla, e retto (si fa per dire) da una Costituzione che altri hanno scritto per suo conto.

Tutti – dico tutti – i precedenti interventi armati “umanitari”, “democratici”, “preventivi”, sono finiti allo stesso modo: con pure bruciature sulla carta geografica. La situazione nel Kosovo, di cui non parla più nessuno, è semplicemente ingestibile. La Somalia è un inferno in cui si combattono bande islamiste, poteri feudali e un’Etiopia mossa da poco celate intenzioni imperiali sulla regione. L’Afghanistan, dotato a forza di un presidente-marionetta che non controlla nemmeno la periferia della capitale, pare ripiombato in pieno feudalesimo.

Ricordo un dialogo telefonico che ebbi all’epoca dei bombardamenti sull’Afghanistan, nella trasmissione Fahrenheit di Radio Rai Tre, con due “opinionisti” fra i più ambigui: Gianni Riotta e – udite, udite – Maria Giovanna Maglie. Il primo, appena capì (ci mise un po’ a farlo: è meno sveglio di quanto si creda) che ritenevo l’invasione dell’Afghanistan, in quelle forme efferate, qualcosa di controproducente, mise giù il telefono. La seconda, femminista a scoppio ritardato, mi strillò nelle orecchie che finalmente le donne afgane si erano liberate dell’odioso bourkha. Mi dispiace per lei, ma non è vero per niente. Le afgane indossano il bourkha come prima. La sua abolizione non era nei programmi né dell’attuale presidente-copertina, l’ex ristoratore Kanzai potente quanto Romolo Augustolo, né della cosiddetta Armata del Nord, coalizione tumultuosa di feroci capitribù (qualcuno ricorderà il parlamento arabo del film Lawrence d’Arabia), né, mi dispiace per i fan, del mitico Massud. Integralista musulmano, in apparenza filo-occidentale, che tra i suoi bersagli ebbe sempre le scuole afgane aperte anche alle donne.

Il suo ideale, in certa misura, è stato conseguito. Non ci sono più i Talebani al potere, ma l’Afghanistan “liberale” e liberato somiglia molto al precedente. A pochi, tra i governanti del mondo e tra gli operatori dei media al loro servizio, sorge il dubbio che “guerre umanitarie”, stragi di civili (altrimenti detti “vittime collaterali”), occupazioni armate servano a poco o a nulla.

Le uniche invasioni statunitensi pienamente riuscite, nell’ultimo ventennio, sono state quelle di Grenada e di Panama. Un’isoletta con vocazione turistica e una città, peraltro bruciata per un terzo (con gli abitanti dentro). Splendidi esempi di strategia politico-militare.

Le minacce del basso impero americano, invasato dalla sua vocazione protestante di esportare modelli di società e stili di vita, si sono spostate sempre più a Est. Qui hanno trovato controparti più rigide di ciò che si attendevano. Una di queste è la Cina, che nelle settimane scorse ha deciso, dopo anni di tentennamenti, di sostituire l’euro al dollaro nelle transazioni internazionali. Sulla traccia di ciò che hanno promesso di fare, in tempi appena un poco più lunghi, Russia, Iran e India (quest’ultima più propensa a usare l’oro, invece che la moneta europea). Brasile e Argentina, mi informa il giornalista italiano residente in Venezuela Tito Pulsinelli (presto pubblicheremo un suo articolo, primo di una serie), hanno deciso di usare negli scambi la moneta nazionale, in attesa della moneta unica del Mercosur, il mercato comune latinoamericano.

Una delegazione americana, capeggiata dai senatori Paulsen e Bernanke, si è precipitata in Cina, ma è tornata a mani vuote. I cinesi, negli ultimi anni, hanno perso troppo, dagli scambi in dollari, per un ripensamento. La decisione è irreversibile.

Quando Emmanuel Todd pubblicò il suo Dopo l’impero, ed. Net, 2005 (“Après l’Empire”, Gallimard, 2002), pochi presero sul serio la tesi centrale del saggio: l’aggressività dell’amministrazione Bush sarebbe stata dovuta non alla forza, bensì alla debolezza crescente degli Stati Uniti. Debolezza di natura prevalentemente economica, e legata all’enorme debito estero della superpotenza, finora coperto dall’essere il dollaro la moneta internazionale di scambio.

La perdita di quest’ultima prerogativa del dollaro porrebbe allo scoperto la fragilità dell’economia americana, con conseguenze facili da prevedere. Forse anche per evitare questo Bush ha attaccato due paesi, Afghanistan e Iraq, strategici nel campo degli approvvigionamenti energetici, uno dei quali – l’Iraq – era stato il primo a minacciare il passaggio all’euro quale moneta di scambio. Se c’è una cosa chiara a tutti, è che la “lotta al terrorismo” era, almeno nel caso iracheno, puro pretesto, e che la battaglia per la democrazia nel mondo costituiva il più inconsistente degli alibi. Bush era interessato al bourkha delle donne afgane quanto alla vita sessuale dei formichieri.

Purtroppo per lui Cina e Russia non sono passibili di invasione armata e, oggi, non lo è nemmeno un’America Latina quasi completamente ribelle. Restano, all’amministrazione statunitense, labili possibilità di ricatto per interposta persona. Così, la fedele Arabia Saudita (un bel modello di democrazia!), ha annunciato alla Cina, assetata di risorse energetiche a causa di uno sviluppo economico travolgente, che non le fornirà petrolio se non in cambio di dollari.

La Cina ha risposto alla minaccia stringendo accordi con altri paesi fornitori di petrolio: Iran, Nigeria ecc., fino al Venezuela. Ha risorse energetiche assicurate per trent’anni.

Parlando di Venezuela torna in ballo Hugo Chávez, l’uomo dell’anno.

Non è tanto facile accusare Chávez di essere un “dittatore”. Le sue conferme, alla presidenza del Venezuela (l’ultima col 67% dei suffragi), sono avvenute attraverso elezioni assolutamente limpide, monitorate da una folla di osservatori internazionali. In cambio, Chávez ha patito, dai tristi sostenitori del “liberalismo occidentale”, attentati da cui pochi sarebbero usciti indenni, senza un enorme consenso popolare alle spalle. Tali furono, nel 2002, lo sciopero dell’industria petrolifera, di cui lui auspicava una gestione con finalità sociali, e nello stesso anno un colpo di Stato apertamente appoggiato dagli Usa, condito da notizie totalmente false provenienti dai media privati (se oggi sappiamo la verità lo si deve al coraggio di alcuni documentaristi inglesi, che filmarono quanto accadeva).

Chávez rimase prigioniero due giorni e fu liberato grazie a un’incontenibile pressione popolare a suo sostegno.

Chávez si sottopose anche a un referendum concepito per abbatterlo, e che invece lo riconfermò. Poi agì in piena coerenza con quelle che erano state le sue promesse. Riportò le risorse petrolifere sotto il controllo dello Stato, e fece sì che le eccedenze andassero a beneficio dei meno abbienti, sotto forma di servizi d’ogni tipo (cosa gravissima agli occhi del corrispondente dal Venezuela di Repubblica, pronto a denunciare lo scandalo di plebi affidate a un’assistenza pubblica omnipervasiva). Instaurò scambi internazionali in cui il petrolio era pagato non in dollari, bensì in beni e servizi. Avviò ripartizioni di terre incolte, progetti urbanistici, sostegno alle cooperative, protezioni per la pesca.

Peggio ancora, Chávez ha allacciato rapporti fraterni di scambio con l’Iran (alla faccia della “guerra di civiltà”: cattolici da una parte, musulmani dall’altra), con la Cina, con buona parte dell’America Latina. Ha relazioni strettissime, oltre che con Cuba, con Bolivia ed Ecuador. Coltiva amicizia con Brasile, Argentina, Uruguay ecc., e spesso si propone quale mediatore nei conflitti che ancora dividono questi paesi. Ma il peggio del peggio è stato il chiudere la propria ambasciata in Israele, dopo i bombardamenti sul Libano, con la laconica motivazione che intrattenere rapporti diplomatici con un “paese così” non gli interessava, e non interessava al Venezuela.

Il crimine capitale di Chávez, agli occhi dei nostri maggiori quotidiani, è stato proclamare l’attualità di un “socialismo del XXI secolo”. Tale socialismo non è in realtà tanto più estremo della socialdemocrazia cui il nostro “centrosinistra”, qualche volta, si richiama, eppure basta a suscitare orrore. Vediamo, molto in breve, di cosa si tratti, e perché le reazioni siano feroci a tal punto (cioè fino ad avallare, nel 2002, un colpo di Stato contro Chávez, spacciandolo come un ritorno a una non meglio precisata “democrazia”, mentre Chávez stesso, la vittima, sarebbe un golpista).

In Spagna è uscito nel 2005 un libro così reazionario e codino da mettere i brividi, ma quanto mai interessante, di tale Jesús Trillo-Figueroa, intitolato La ideología invisible. El pensamiento de la nueva izquierda radical (ed. Libroslibres, Madrid). Per quanto ne so, si tratta della prima opera in Europa che cerca di dare organicità e sistematicità alle tesi di quella che, ormai universalmente, viene definita “sinistra radicale” e che, in apparenza, si direbbe poggiare sul puro pragmatismo.

Il merito di Trillo-Figueroa, pur nell’ambito di un’avversione persino viscerale, è di avere individuato il femminismo, e le modificazioni che ha indotto nel movimento operaio tradizionale, quale componente di un socialismo di nuovo conio, non esclusivamente marxista. Un socialismo, cioè, in cui la tematica della proprietà dei mezzi di produzione non è più l’unico perno, mentre lo sono anche le condizioni individuali di vita e la loro rispondenza a bisogni umani elementari, tra cui la libertà (sia personale che sociale). Una tesi che, agitata con forza dalle femministe, si è poi trasmessa a buona parte dell’ “ultrasinistra” europea e, oserei dire, mondiale, fino a caratterizzare i momenti migliori del movimento no global.
Accettare il punto di vista femminista conduce, secondo un emulo di Pio IX come Trillo-Figueroa (con tutto il rispetto per la felicità delle sue intuizioni, di cui sembra incapace la “sinistra storica”), alla distruzione della famiglia e alla negazione dei ruoli sessuali. Ammesso che ciò sia un male, la ripercussione di quel discorso incrina soprattutto alcuni presupposti del “socialismo reale”: la santificazione dello Stato-padre, l’identificazione Stato-partito, l’assunzione del partito – e dunque dello Stato, e dunque del suo governo – a giudice unico di cosa sia bene per il proletariato, ecc.

Fattori, tutti, che hanno finito col rendere la vicenda del socialismo del XX secolo una tragedia, ogni volta che il movimento delle classi subalterne si è fatto Stato (ferma restando la positività di alcune conquiste sociali che, in regime capitalista, erano solo un sogno. Per dirne una, nell’ex Germania Est, tre anni di congedo pagato dal lavoro a una partoriente. Negli Stati Uniti una donna che stia per partorire ha normalmente diritto a un congedo di una settimana).

Un’inchiesta condotta tra i giovani russi, circa tre anni fa, condusse a questo risultato. La maggioranza di loro voleva che: 1) fossero statali le industrie strategiche, dalla metallurgia pesante, all’energia, alle comunicazioni portanti; 2) fossero a base cooperativa la grande agricoltura e la media industria; 3) fossero privati il commercio, l’industria culturale, il resto dell’agricoltura, le comunicazioni su scala non monopolistica, le rimanenti attività; 4) il tutto poggiasse su meccanismi democratici di raccolta del consenso.

I giovani russi non lo sapevano, ma il Nicaragua, all’epoca del primo governo sandinista (1979-1989), aveva cercato di mettere in piedi qualcosa del genere. Lo chiamava “economia mista”. Ronald Reagan (che NON riposi in pace) diceva che si trattava di una dittatura succube di Cuba e dell’Unione Sovietica. Eppure quando i sandinisti, nel 1989, persero le elezioni, accettarono il risultato e si fecero da parte.

Grosso modo, ciò che Hugo Chávez cerca di realizzare somiglia molto a quello che desideravano i giovani russi, e a quanto tentavano i sandinisti. I suoi omaggi a Cuba (obbligati e giusti, come sa bene chiunque adotti un punto di vista latinoamericano) non hanno ricadute né di sudditanza, né di imitazione pedissequa del modello. Oltre all’apporto femminista, sembra avere accettato altri contributi provenienti dal magma ribollente della new left dagli anni 1960 al 2000: quello degli ecologisti (non è accettabile un’industria che inquini), quello dei pacifisti (il mio paese non farà mai guerra a un altro), quello dei cattolici trasgressivi (i poveri, da ultimi che sono, devono stare al primo posto), quello degli anarchici (vanno moltiplicate le forme di democrazia diretta), quello dei marxisti (tra le classi di interessi contrapposti non può esservi compromesso), quello dei “terzomondisti” (la nozione di lotta tra sfruttati e sfruttatori va trasferita su scala mondiale) ecc. Siamo mille miglia oltre il comunismo d’annata, la variante cubana inclusa.

Tutto ciò può essere letto, da chi conosca lo spagnolo, in un saggio disponibile on line, che è un poco la Bibbia del “socialismo del XXI secolo”: Haiman El Troudi, Juan Carlos Monederos, Empresas de Producción Social: Instrumento para el Socialismo del Siglo XXI.

Io non so se Chávez resisterà alle sirene del populismo (termine abusato, applicato com’è a chiunque contesti il “pensiero unico” neoliberale) o, peggio, del bonapartismo (di cui lo si accusa in quanto ex militare, salvo applaudire i militari allorché cercano di rovesciarlo con la violenza). So solo che finora ha resistito, e si è mantenuto su un cammino totalmente democratico.

Non aderisce al liberalismo trionfante in uno spicchio di mondo? La cosa, sinceramente, non mi turba. Ignora il “mercato”? Oh, che brutta cosa. Però nemmeno questo mi tocca. Sarà perché liberali e mercantili sono state le ultime, atroci guerre a cui ho assistito, con i loro menzionati "effetti collaterali".
L’antagonismo europeo – escludendo la sua variante politica, istituzionale e parlamentare, di cui non mi frega nulla – dall’esempio venezuelano avrebbe molto da apprendere.

Dunque sia Hugo Chávez “uomo dell’anno”. Nominato da Time e da Carmilla (si parva licet…). :-)

 

 

Valerio Evangelisti
Fonte: http://www.carmillaonline.com/
Link: http://www.carmillaonline.com/archives/2007/01/002091.html#002091
04.01.2007