Il tributo di Carlota

 

11 dicembre 2009 - Juan Morales Agüero www.granma.cu (JR)

Lo spirito di ribellione del popolo cubano è una grande lettera di presentazione che gli ha aperto dalla nascita le porte della storia.

 

Ebbe la sua premiere durante la conquista, quando i nostri pacifici aborigeni dichiararono guerra ai tentativi colonialisti che li volevano sottomettere con la spada e con la croce.

 

Alcuni fatti dimostrano tale primitiva vocazione creola di difendere la propria libertà. Come quella che guidò nella regione orientale il cacique taino Hatuey, venuto dalla sorella Quisqueya, che nel 1511 pagò sul rogo l’azzardo del confrontarsi con gli spagnoli, contro i quali aveva combattuto con la forza nel suo paese natale.

 

Secondo Bartolomé de Las Casas, il dominicano mostrò ai nostri indi una cesta piena di oro e disse loro: “Questo è il dio che adorano gli uomini bianchi. Per questo lottano e ammazzano. Per questo ci perseguono. Loro ci rubano ciò che è nostro, seducono le nostre donne, violentano le nostre figlie, usurpano le nostre terre e ci schiavizzano”.

 

L’insubordinazione traboccò dalle sue parole. Alcuni nativi si unirono a lui, e con loro si formò un picchetto, la cui strategia era quella di attaccare come nelle guerriglie, disperdersi tra le colline e riorganizzarsi di nuovo per l’azione successiva. Colpì gli spagnoli di maniera tale che li obbligò a mantenersi confinati all’interno della sua fortezza.

 

In una lotta così diseguale, solo un esiguo saldo riuscì a mandare a segno le frecce. Lo sterminio si consumò nei tristemente celebri inferni di lavoro forzato nati della perversità dei conquistatori, avidi per arricchirsi a qualsiasi costo.

 

Fu così che, persa la mano d’opera indigena sull’Isola, la Spagna cominciò a guardare verso il continente africano. Lì guardavano le prue delle navi negriere con le sue stive colme di nativi sradicati per forza dalla loro terra. Molti non poterono resistere la durezza della traversata. Quelli che poterono sopravvivere alle malattie, ai maltratti e all’ammassamento, furono obbligati a lavorare qui in condizioni di denigrante schiavitù.

 

Però la ribellione non tardò ad apparire nel cuore di quegli uomini che lavoravano sotto il sole nelle piantagioni di canna e di caffé sotto la frusta del maggiore. Non pochi scapparono verso le zone montagnose dell’Isola. Lassù, in grotte e nascondigli, fondarono gli steccati, sottospecie di comunità nelle quali si sentirono di nuovo in libertà e con le quali si ribellarono addirittura ai padroni sfruttatori. La rivista Cuba Socialista rassegna così quei fatti:

 

“Alcune battaglie contro gli oppressori furono guidati da donne.

 

Carlota, una schiava di origini lucumí, si sollevò il 5 novembre del 1843 nella fattoria di Triumvirato. Lei diresse la resistenza che riuscì ad estendersi nella provincia di Matanzas nelle fattorie Ácana, Concepción, San Lorenzo e San Miguel, e a numerose piantagioni di caffè e allevamenti. Nella fattoria San Rafael, Carlota morì combattendo nel suo tentativo di liberare altri schiavi”.

 

Sono trascorsi vari secoli da quei fatti fondamentali che cementano lo spirito di ribellione nazionale. Oggi è opportuno spolverare, anche se non si tratta si riciclare la storia. Da ciò origina la solidarietà internazionalista concepita da Martí nella frase geniale “Patria è umanità”.

 

Come omaggio a quella donna di sangue africana, la missione internazionalista di Cuba nella Repubblica Popolare di Angola, che ricoprì un ruolo così decisivo di quella nazione contro la volontà dei suoi nemici, fu battezzata con il nome di Operazione Carlota.

 

Quella schiava nera, lottatrice per la libertà, rappresenta anche il meglio di noi.