HOME CRONOLOGIA

 

I canti di Port-au-Prince

 

22 gennaio 2010 - Arleen Rodríguez Deriver www.granma.cu

 

“Dodo ti pitit Manman…” cantava mia madre nelle notti senza televisione della nostra infanzia. La sua voce, dolce e vitale come quella di tutte le madri quando addormentano i propri figli, diventava specialmente allegra ricordando quel canto che apprese nella tenuta della nonna, che si riempiva di haitiani durante la raccolta del caffé.

 

Dietro la canzone, il sonno ritardava ad arrivare. A mio fratello e a me piaceva che Mami ci raccontasse storie di quella gente che andava dalla raccolta dello zucchero a quella del caffé, senza riuscire a scappare dalla povertà, e che tuttavia cantava.

 

Anche nelle veglie funebri cantava.

 

Oggi non so se se lo inventarono i miei ricordi o se ce lo raccontò lei, ma sono quasi sicura di averle ascoltato dire che “gli haitiani sono un popolo molto sofferto, che quando nasce un figlio piange, e quando muore qualcuno canta”.

 

Quante grida strazianti come quelle che adesso si innalzano nelle oscure notti di Port-au-Prince si saranno intonate molte volte nelle terre orientali, dove gli haitiani furono la forza fondamentale della prosperità dei campi di caffé e la maggiore espressione del disagio sociale.

 

Ovviamente cantavano anche alla vita. Negli stessi accampamenti si spendeva ogni centesimo guadagnato, e le feste erano tanto intense quanto povere e brevi.

 

C’erano balli, e bevute, e dolci, e vestiti e racconti. E tutto quanto un popolo porta con se nell’anima, che suole essere più abbondante di quanto non si veda ad occhio nudo.

 

La dolcezza, per esempio. Quasi tutti i racconti sugli haitiani che ci narrò mia madre avevano questo in comune con quel canto “Dodo tit piti Manman”. Gli stessi che da bambina le cantavano le ninnananne in creolo, da giovane la protessero dai freddi della montagna o dalle piene dei fiumi, e quando già aveva nipoti, un vecchio abitante dell’accampamento continuava a viaggiare per kilometri fino alla città per andarla a trovare come un parente caro.

Quelle storie ci insegnarono più dei libri. Gli haitiani, mano d’opera economica dei lavori più duri nei campi cubani, furono la più vivida scuola di ingiustizia per quelli che li videro lavorare e soffrire senza nessuna ricompensa se non la sopravvivenza.

 

Si può addirittura dire che la loro sofferenza, favorì alcuni dei più profondi cambi cubani. “Al villaggio di Birán e alla sua gente, che ispirò l’ansia di una Rivoluzione” dice nella dedica il libro biografico su Fidel che scrisse Katiuska Blanco. “Tutto il tempo dei cedri”.

 

Non è casuale né fortuito che tra le prime leggi di beneficio ai lavoratori della Rivoluzione ci fosse il riconoscimento agli anni di lavoro e al diritto al pensionamento di migliaia di emigranti haitiani. Se oggi appaiono sui titoli di giornale molti cognomi con suoni francesi e radici haitiane – siano sportivi, artisti o accademici – provenienti dai paraggi più remoti della geografia della nostra isola, è perché la politica cominciò ad includere, contare, riconoscere, integrare la popolazione haitiana di Cuba in una società alla quale essa aveva apportato tutto senza compensazione alcuna.

 

Loro, e le centinaia di giovani haitiani, laureati, o in procinto di farlo, della Scuola di Medicina nelle filiali dell’ELAM a Santiago de Cuba, che proprio adesso sono disposti a salvare vite nel proprio paese, rovesciano tutti i miti sulle maledizioni e le predisposizioni di quel popolo al sottosviluppo e alla sofferenza.

 

La vera maledizione è non avere opportunità. O chi dice di venire in tuo aiuto, quando si prepara come se dovesse andare alla guerra, mettendo davanti a tutto i soldi che spenderà in se stesso, come la portaerei statunitense che già consuma due milioni di dollari al giorno e non è ancora arrivato alle coste haitiane.

 

Ricordando mia madre, che fu cullata e protetta da haitiani poveri tra i poveri, faccio mio il dolore del canto che intonano, mentre alzano le mani al cielo, i senzatetto sopravvissuti al terremoto che aspettano di essere salvati, no di essere fucilati.

 

A questo penso quando scopro un volto noto tra le dottoresse cubane che si inclinano sulle vittime in un servizio della televisione. Lei mette il suo stetoscopio sul petto infiammato di un piccolo mentre nell’altra mano lo accarezza con infinita tenerezza.

 

Chiamo a casa sua per avvisare e chi risponde è suo figlio. “Mia madre è ad Haiti”, dice con la maggiore naturalità del mondo.