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Girón prima e dopo

 

19 aprile 2010 - Ángel Fernández Vila (Horacio) www.granma.cu

 

-I-

 

Credo che la mia presa di coscienza come rivoluzionario si produsse a partire dal lavoro nella Ciénaga de Zapata. Non avevo mai immaginato una miseria così terribile, uno sfruttamento tanto spietato, l’arretratezza sociale e culturale tanto barbara che vidi lì. Di fronte a un simile panorama, qualsiasi persona sensibile si ribellerebbe, e anche se non sapevo come doveva definirsi quello che bisognava fare, sì sapevo che era necessario fare qualcosa, e con la maggiore rapidità possibile.

 

Quando Fidel mi diede il compito di occuparmi della Ciénaga de Zapata, mi offrì l’opportunità di prendere coscienza come rivoluzionario. Non dimenticherò mai quel giorno in cui mi chiamò per dirmi che voleva che lavorassi in uno dei suoi progetti più ambiziosi, e nel quale la Rivoluzione avrebbe messo maggior impegno: era il progetto di recupero sociale della Penisola di Zapata. Ricordo che en suo ufficio c’era una mappa della regione. Segnalandola mi disse:

 

“Guarda, questa è la Ciénaga.”

 

Dopo di che cominciò a spiegarmi le idee che aveva rispetto al riscatto sociale di tutti quegli uomini, l’organizzazione dello sfruttamento forestale e l’integrazione della popolazione nelle attività superiori, più umane e produttive. Il mio entusiasmo era così grande, che la domanda sorse spontanea: “Fidel, mi manderai oggi alla Ciénaga?” Ma lui mi rispose di no, che mi avrebbe mandato successivamente. Poco dopo arrivai alla Penisola di Zapata come Delegato del Comandante in Capo. Più avanti fui designato Capo della Zona di Sviluppo Agrario LV-17 dell’INRA che includeva Aguada de Pasajeros e la Penisola di Zapata.

 

-II-

 

La Ciénaga, nell’ordine sociologico, era la zona più sottosviluppata di Cuba. Per quanto incredibile possa apparire oggi, era tanta la brutalità che impose la vita quasi feudale e semi-schiavista in quella zona, che lì si praticava la poliandria, cioè, la relazione maritale di più uomini con una sola moglie. In una di quelle “corti” mi sorprese una curiosa lite tra carbonai: uno reclamava la sua vacca, l’altro si rifiutava di dargliela, perché l’aveva ricevuta pochi mesi prima in cambio della sua donna. Lui non aveva la colpa del fatto che la donna poi avesse abbandonato l’arrabbiato uomo che adesso voleva in cambio la sua mucca!

 

Questo senza parlare delle particolarità di alcuni latifondi, come quello di Castellanos Dolz, avvocato, primo Capo dell’Esercito della tirannia, Tabernilla Dolz, che nei 14.000 ettari delle sue terre “San Blas”, accettava solo lavoratori single perché lui era omosessuale, e se uno dei suoi dipendenti contraeva matrimonio e andava vivere con la moglie nella fattoria, gli bruciava la casa e lo obbligava ad abbandonare le sue terre. Di “quell’Eroico”compito si incaricava la guardia rurale di Covadogna. I carbonai di San Blas ricordano ancora Vaisán, vilmente assassinato per essersi opposto ai capricci di quel signore feudale della Ciénaga di Zapata.

 

Lo sfruttamento era infernale. Un uomo di Cienagua, per cercare di uscire doveva pagare prima con carbone e legno il suo “debito” con il negozio, perché altrimenti, l’affittuario non gli permetteva l’uscita in barca, né il denaro per realizzare il viaggio. Il trasporto era terribile: ci volevano giorni, e se il carbonaio moriva durante il tragitto, il suo corpo veniva gettato nei canali.

 

Regime legale? Nessuno. I problemi si risolvevano con “la legge del più forte”. Inoltre, in quella zona, il più forte era generalmente lo sfruttatore, proprietario della corte, o il suo sbirro, “Il caposquadra”. Questa era la situazione che incontrammo quando, con i membri dell’INRA arrivammo per la prima volta nella Penisola.

 

La prima cosa che fece la Rivoluzione fu di espropriare i latifondi. Così passarono nelle mani del popolo 268.000 ettari. Dopo si organizzò in modo differente lo sfruttamento forestale: si crearono cooperative forestali, cioè, si stabilì un sistema di uso collettivo del bosco con l’aiuto economico dell’INRA. Nacquero i Negozi del Popolo, uno in ogni cooperativa. Funzionavano in strutture di cemento e mattoni e comunicavano via radio con il magazzino centrale ad Aguada de Pasajeros. Lì si rifornivano di viveri, vestiti ed utensili di lavoro i carbonai e i falegnami che selezionavano loro stessi gli amministratori delle cooperative tra quelli che godevano di più prestigio ed esperienza.

 

In quel tempo si cominciarono a costruire le strade sul pantano e nel bosco: una andava dalla Central Australia a Playa Larga, un’altra dalla Central Covadonga a Playa Girón, una terza da Yaguaramas a San Blas, e la quarta, univa Playa Larga a Playa Girón. Inoltre, attraversando la Ciénaga da Est ad Ovest si costruì la strada che andava da Buenaventura a “El Maíz”, verso La Broa.

 

 

Un fiore tra spiaggia

 

e fuoco

 

16 aprile 2010 - Yoel Suárez www.granma.cu

 

È mezzogiorno, ed un raggio di luce ha inondato la sala nella quale converso con Osnelba Sánchez Franco. L’arrivo del sole scopre con un colpo luminoso tutto ciò che l’oblio o l’umiltà negano al mio microfono. Ripasso alla mia intervistata: una dama settantenne con i capelli tinti, le mani ferme e la memoria disegnata nello sguardo. Sembra così fragile che è difficile immaginarla con il machete in mano domando un canneto, o con il fucile in spalla perseguitando banditi nell’Escambray, o forse, avanzando senza detenersi contro i mercenari di Girón.

 

Il debole

 

“Il 16 aprile, io avevo già sceso l’Escambray – in un luogo che è chiamato Hoyo de Manicaragua -. Tornava a casa mia, a Santa Clara, dopo aver passato vari giorni all’inseguimento di una banda contro-rivoluzionaria. Ma quando mi resi conto che era in atto un’aggressione a Playa Girón, cercai il modo di aiutare. Ricordo che qualcuno me disse: “Il Battaglione 315 ci andrà, ed ha bisogno di gente!”, e subito mi aggiunsi alla compagnia, che era di fanteria.

 

“In quel momento ero molto magra, avevo i capelli corti e avevo la voce bassa, così i compagni della truppa mi chiamarono “il Debole”. Tutti credevano che fossi un uomo, e che ero magrissimo! Alcuni si burlavano di me: “Bah! Ma il Debole viene con noi!”…solo il capo del battaglione, José Lavalle Echeverría, sapeva che ero una donna.

 

Una volta organizzati a Santa Clara ci spostammo in vari camion fino a Yaguaramas. Lì c’era una strada infinita – allora la stavano aggiustando. Fu da lì che entrammo in battaglia, nel mattino del 17. Arrivammo lottando!

 

“A Yaguaramas, il nemico ci oppose un po’ di resistenza; lì restammo varie ore. Loro avevano una 50 ed un lanciabombe che ci sparava addosso, ma appena ci diedero un’occasione, continuammo ad avanzare. Non potevamo fermarci.

 

“Quando arrivai a Girón incontrai ragazzini molto giovani – quasi adolescenti – ma in nessun battaglione vidi donne…beh, ce n’era una di Matanzas, che era sposata, ma credo che quando entrò la uccisero. Lì, l’unica donna che lottò direttamente, fui io.

 

“Allora, stavo per compiere 20 anni, anche se avevo già Maritza, la mia prima figlia di un anno. Quando decisi di partire, la lasciai a Santa Clara con mia sorella Julia. Mi fece male. Alcuni mi dissero: “Se vai a combattere tua figlia rimarrà orfana”, ed io risposi: “Come tanti altri”.

 

 

Non lasciarono i fucili

 

 

“Entrando a Playa Girón la prima cosa che vedemmo fu un miliziano sanguinante al lato di un carro armato. Fu una scena scioccante. Dopo alcune ore di marcia, aiutammo un camion pieno di feriti, soprattutto bimbi. Doveva uscire dal fuoco ed andare a Matanzas. Dovemmo trasportarli tutti su un altro mezzo. Vedemmo cose orribili: bimbi mutilati, anziani feriti.

 

“Più in là, entrando a San Blas, vicino a Playa Girón, cominciò una sparatoria tremenda. Improvvisamente apparve un carro armato che andava piano. Vedemmo un uomo che si lanciò per la strada al grido “Patria o Morte!”. Immediatamente gli spari cessarono. Ci mettemmo un po’ per riconoscere quella figura, finhè qualcuno gridò: “È Fidel!” Veniva dalla Centrale Australia e aveva attraversato il fuoco incrociato. Alla fine scoprimmo che la scaramuccia ebbe luogo tra il nostro battaglione ed un altro gruppo di miliziani.

 

“Vedere lì il Comandante in Capo, nella lotta con noi, sapere che non era rimasto a L’Avana per comandarci comodamente da lì, ci diede una grandissima forza!

 

“Dopo quell’evento, continuammo dritti fino al fuoco principale del combattimento. Nel cammino incontrammo un aereo che aveva mitragliato con Napalm al Battaglione 113. Anche se cercammo di raggiungerlo il più rapidamente possibile, molti compagni morirono bruciati. In quel luogo assistetti ad un’immagine che mi resterà sempre impressa nella mente: i corpi senza vita carbonizzati, non lasciarono i fucili”.

 

 

Proprio così

 

 

“Lavalle, il capo del battaglione, non ebbe per me particolari attenzioni perché ero una donna. Lui mi disse sempre: “Tu vuoi combattere? Lo farai, ma come qualsiasi altro miliziano”. E fu proprio così.

 

“Non riposavamo mai. In una battaglia non ci si riposa! Non lottavamo mai dalle trincee, avanzavamo sempre strisciando. Proseguivamo per ore e ore dietro i mercenari, con l’arma e lo zaino addosso, lì avevamo alcune cose da mangiare.

 

“Anche se la quinta compagnia – quella di rifornimento – caricava tutto il necessario, ognuno di noi consumava soprattutto quello che si portava dietro. Generalmente era latte condensata, borracce con acqua, qualche pezzo di pane. Non c’era molto cibo, ma se dovevamo condividerlo tra di noi, lo facevamo.

 

“Vari compagni si presero la malaria, ma a me non venne mai nulla! Ti assicuro che fu difficilissimo dovermi adattare a condizioni così difficili.

 

Anche se alla fine non mi spararono mai, sarò onesta: molte volte ebbi paura. Credo che tutti l’avrebbero avuta sentendosi  i proiettili sulla testa. La battaglia durò solamente 72 ore, ma fu moto dura. Affrontammo direttamente l’imperialismo. E anche se nessuno di noi pensò che sarebbe stata decisiva, riuscimmo a vincere”.

 

 

Fu difficile

 

 

“Durante gli ultimi momenti della battaglia vari gruppi si appostarono vicino al mare ed altri più vicini alla montagna, ma tutti lottarono fino in fondo. La lotta parve interminabile. Io ero tutta ammaccata di graffi, dolente per i colpi che si ricevono in una situazione come quella, ma andavo sempre avanti con la mia mitragliatrice Thompson sulle spalle.

 

“Il 19 chiamarono José Lavalle e gli comunicarono che l’attacco mercenario era stato neutralizzato.

 

“Quando ci avvisarono della vittoria cominciammo a gridare, ad abbracciarci, a saltare per la gioia…non pensavamo che sarebbe finita così velocemente! Perché in realtà eravamo svantaggiati: le armi che avevamo erano molto vecchie ed il nemico era ben preparato, e anche così, vincemmo contro l’imperialismo!

 

“Non appena la notizia cominciò a circolare, quasi tutti i battaglioni si unirono a Playa Girón. Ricordo che la gente cominciò a darmi fastidio chiamandomi “il Debole”, ed io ero stanca di tutti quegli scherzi, così, saltai su un camion e gridai “No, no, non sono affatto debole!” Mi tolsi la camicia e rimasi con una canottiera che avevo sotto. Puoi immaginarti la sorpresa. “Oh! Non è debole, è una donna!”

 

“Molti nel battaglione non si poterono spiegare come una donnina aveva potuto combattere così, come loro perché, credimi, fu duro”.

 

 

Sembrava che non mi credessero

 

 

“Con vari compagni rimanemmo a Playa Girón dopo la vittoria. Alcuni se ne andarono a catturare dei mercenari che erano scappati sulla montagna, vestiti con uniformi di miliziani. Io rimasi per 15 giorni. Quasi tutto il tempo lo passai raccogliendo le armi e curando i feriti, ce n’erano molti. In quei giorni conobbi un uomo di L’Avana che era rimasto invalido. Credo che è già morto. Conobbi anche ai combattenti del Battaglione 115, 113 e di altri gruppi.

 

“Quando tornammo a Santa Clara il popolo ci ricevette come eroi. Pensa! L’avevamo fatta in barba agli yankee!

 

Nell’aprile del 1982 mi diedero la Medaglia per il XX anniversario della vittoria. La certificazione è firmata da Fidel.

 

“Dovetti aspettare un anno per farmela inviare. Mi dissero che dovevo cercare qualcuno che testimoniasse la mia partecipazione nella battaglia. Visto che sono una donna, sembrava che non mi credessero”.

 

Il sangue numeroso

 

15 aprile 2010 - www.granma.cubaweb.cu

 

A Eduardo García Delgado, giovane miliziano che scrisse, con il suo sangue il nome di Fidel su una porta in Ciudad Libertad, poco prima di morire mitragliato dall'aviazione mercenaria yankee durante i criminali bombardamenti del 15 aprile del 1961.

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Cuando con sangre escribe
Fidel este soldado que por la Patria
muere, no digáis miserere:
esa sangre es el símbolo de la
Patria que vive.
Cuando su voz en pena,
lengua para expresarse parece que
no halla,
no digáis que se calla,
pues en la pura lengua de la Patria
resuena.
Cuando su cuerpo baja
exánime a la tierra que lo cubre
ambiciosa,
no digáis que reposa,
pues por la Patria en pie
resplandece y trabaja.
Ya nadie habrá que pueda
parar su corazón unido y repartido.
No digáis que se ha ido:
su sangre numerosa junto a la Patria queda

Nicolás Guillén

Quando con il sangue scrive

Fidel, questo soldato che per la Patria

muore, non dite miserere:

questo sangue è il simbolo della

Patria che vive.

Quando la sua voce in pena,

Sembra non abbia lingua per esprimersi,

 non dite che tace,

perché nella pura lingua della Patria

risuona.

Quando il suo corpo scende

esanime alla terra che lo copre

ambiziosa,

non dite che riposa,

perché per la Patria, in piedi,

risplende e lavora.

Nessuno già potrà

fermare il suo cuore unito e ripartito.

Non dite che se n’è andato:

il suo sangue, numeroso, qui con la Patria resta.

 Nicolás Guillén

 

"Non avevo mai visto combattere

con tanto coraggio"
 

 

12 aprile 2010 - V.De Jesus www.granma.cubaweb.cu

 

"Io non conoscevo altra cosa che il  duro lavoro nel campo e le calamità proprie del capitalismo. Fu il trionfo del 1° Gennaio che mi fece persona. Non ero disposto che mi togliessero tale diritto negato fino a quel momento".

Per questo durante l'attacco mercenario di Girón, nell'aprile 1961, Quirino Roberto Rojas non ci ha pensato due volte. Con i suoi 21 anni si recò a difendere l'unica cosa che aveva tenuto fino ad allora.

Quirino zoppica visibilmente. Molti di coloro che lo conoscono ignorano che il vecchio rivoluzionario è stato ferito negli epici eventi di Giron.

Tuttavia, dice con orgoglio che la sua prova del fuoco non fu precisamente combattere i mercenari di Girón, ma
"la pulizia dell’Escambray, dove ebbi idea di che cosa fosse realmente la guerra ed intesi perché gli Stati Uniti appoggiavano le bande controrivoluzionarie.

Appartenevo al Battaglione 217. Tra le tante battaglie ricordo una sostenuta nella finca El Datil. Qui la nostra gente si è battuta molto. Ho usato un fucile M-52, che poi mi ha accompagnato a Giron. Ma, chiaramente, lì la cosa fu differente".


Il 18 aprile Quirino partì direzione le sabbie di Playa Girón. Era fiducioso, ma vigile. Ricorda che nelle vicinanze di Covadonga sentiva i bombardamenti.
"Sapevo che il combattimento sarebbe stato differente, molto duro. Era un luogo che non conoscevo. La mitraglia delle armi nemiche illuminava il cielo".

Nei pressi di San Blas il combattimento era molto forte.
"Le nostre truppe avevano cercato invano di prendere il paese nelle mani dei mercenari. Il nemico era ben posizionato e contava su armamenti più sofisticati. Così ci suggerirono che aspettassimo la partecipazione della nostra artiglieria.

E così è stato. Entrammo di nuovo e i mercenari iniziarono a ritirarsi. Nel tragitto verso il punto che dava sulla spiaggia, un gruppo di mercenari si nascose in una curva e ci sorprese, fu un momento di intensa sparatoria. Nel mezzo di quell’imprevisto combattimento mi ferirono alla gamba destra".


Quirino ha vissuto, in Girón, una delle più importanti esperienze della sua vita, anche se ha dovuto rinviare per sempre il sogno della sua vita: essere un giocatore di baseball.

"Ma non mi lamento. Girón ha significato qualcosa di molto grande per tutti i cubani".