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Nuestra America - Messico

 

Quattro giornalisti uccisi in un mese

 

22 giugno 2011 - www.granma.cu

 

Miguel Angel Lopez e suo figlio Misael, due giornalisti del quotidiano Notiver, di Veracruz, sono stati uccisi portando a quattro il numero dei comunicatori ammazzati in meno di 30 giorni in Messico.

 

Miguel Angel, editorialista, sua moglie Agustina Solana e Misael, fotografo, sono stati assassinati a colpi di armi da fuoco nella loro casa, in Veracruz.

 

L'editorialista, ex vicedirettore generale del quotidiano Notiver, il più diffuso nello Stato, era specializzato nei temi della sicurezza e del narcotraffico.

 

Pochi giorno fa sono stati uccisi i giornalisti Noel Lopez, anche lui di Veracruz, e Paul Ruelas, di Sonora.

 

Il 10 giugno, il capo redattore del quotidiano Novedades de Acapulco, Marco Antonio Lopez, è stato rapito e non ci sono notizie su lui.

 

Uno studio della Commissione Nazionale per i Diritti Umani ha informato che dal 2000 al 2011 sono stati 68 i giornalisti uccisi in Messico e 13 sono scomparsi.

 

Attualmente, il Messico è considerato come il paese più pericoloso in America per l’esercizio del giornalismo.

 

 

Messico: da quando Calderón è

presidente 5397 desaparecidos

 

7.04.2011 - Gennaro Carotenuto   www.giannimina-latinoamerica.it    

 

Scoperti 59 cadaveri in una fattoria

del nordest del Messico

 

7.4 www.granma.cu - Almeno 59 cadaveri sono stati scoperti in una fattoria dello Stato di Tamaulipas, a nordest del Messico e alla frontiera con  gli Stati Uniti, in un’operazione nella quale 11 persone sono state detenute e cinque sequestrati sono stati liberati, ha informato mercoledì 6 la Procura di Tamaulipas, che ha dichiarato che in totale sono state trovate otto fosse clandestine a La Joya, nella giurisdizione del villaggio di San Fernando, lo stesso dove in agosto si trovarono  72 cadaveri di emigranti del Centro  e del Sudamerica, assassinati  dai narcotrafficanti, secondo le autorità.

La Procura ha detto che l’operazione, realizzata dalla polizia e da militari, è iniziata dopo la denuncia del 25 marzo del sequestro dei passeggeri di vari autobus nella zona.

“Le investigazioni in processo ci permetteranno di stabilire se i corpi incontrati nelle fosse clandestine corrispondono ai passeggeri riferiti”, segnala il comunicato,  ma si teme che il numero delle vittime aumenti, perchè su un totale di otto fosse, è stato realizzato il conteggio dei cadaveri di tre solamente”, ha segnalato un funzionario della stessa  istituzione  che ha chiesto l’anonimato ed ha rivelato all’agenzia di stampa AFP che si stanno svolgendo investigazioni sui corpi.

Lo Stato di Tamaulipas, che confina con il Texas, è una delle rotte più frequentate dai migranti che tentano di entrare negli Stati Uniti.

Vicino a San Fernando, le autorità messicane l’anno scorso trovarono i cadaveri di 72 migranti del Centro e del Sudamerica, assassinati, secondo le autorità, e dopo la testimonianza di un sopravvissuto, dai membri di un gruppo di narcotrafficanti:

gli Zetas.

Secondo il Governo messicano, gli Zetas, un gruppo formato negli anni novanta da militari che disertarono,  utilizzano il sequestro dei migranti come una forma per finanziarsi, e in altri casi reclutano  i migranti per far passare i carichi di droga alla frontiera, o in altre attività criminali.

Gli Zetas si scontrano abitualmente nel nordest del Messico con i loro antichi capi del Cartello del Golfo, per il controllo delle rotte del traffico di droghe e questo ha provocato la morte di 1600 persone negli ultimi due anni, rivela un conteggio ufficiale.

Dan Jeremeel Fernández era un ragioniere di 35 anni, senza alcun precedente penale né problemi particolari. Il 19 dicembre 2008 partì in macchina per raggiungere la madre per le feste di Natale a Torreón, nello stato di Coahuila, nel Nord del paese. Non arrivò mai. Da allora sua madre, Yolanda Morán, lo sta cercando. Nella ricerca ha dovuto passare una trafila nota a tutte le madri di desaparecidos del Continente: alzate di spalle, spiegazioni insultanti, estorsioni.
 

Come Yolanda si trovano, senza alcun interesse da parte dei media internazionali, migliaia di madri in Messico. Secondo il CNDH (Comisión Nacional de Derechos Humanos), l’organizzazione pubblica e finanziata dallo stato che si occupa di violazioni dei diritti umani, a volte criticata per collateralismo con la politica ma comunque un passo avanti importante, dal 2006 ad oggi, ovvero da quando la presidenza di Felipe Calderón ha impostato la lotta al narcotraffico come una vera guerra, e nella quale secondo la maggior parte degli osservatori l’esercito si comporta come una delle parti in conflitto, sarebbero 5397 le persone svanite nel nulla in Messico. Si aggiungono ai circa 35000 morti ammazzati da quando il governo ha deciso di usare l’esercito. 40000 vittime di una delle guerre negate nei nostri anni.


Per i desaparecidos messicani, per due terzi uomini, quasi sempre giovani, e per un terzo donne, nessuno ha mai chiesto un riscatto. Sono persone sparite nel nulla in una serie di circostanze diverse ma riconducibili a poche categorie tipiche. Una parte di loro furono sequestrati in strada. Alcuni, ma certo non tutti, probabilmente avevano un ruolo minore in qualche cartello. Altri semplicemente sono spariti e il numero di giovani lavoratori senza alcun collegamento noto con organizzazioni criminali dei quali non si sa più nulla è in forte aumento. La sorte di quasi tutti è purtroppo stata la morte ma ai loro familiari non è permesso elaborare il lutto: Yolanda, e come lei chissà quante altre madri, fantastica perfino che suo figlio possa lavorare per i cartelli, piuttosto che essere stato semplicemente fatto svanire nel nulla. Nel 2009 un membro del cartello dei fratelli Arellano Félix confessò di aver sciolto nell’acido almeno 300 persone. In altri casi si sono trovate fosse comuni, come quella scoperta a Taxco, nel Guerrero, con 55 corpi di assassinati dai cartelli. In un paese dove far trovare il corpo del nemico ucciso, spesso orribilmente seviziato, è parte di una politica di potenza dei cartelli, la sparizione di persone è una variante sul tema.


La loro sparizione ha comunque la funzione codificata fin dal Piano Condor: tortura permanente verso i familiari, monito, terrore. È un monito che però si estende alla società civile tutta: il terrorismo nel quale si identifica con difficoltà la linea di separazione, se pure esiste, tra quello delle organizzazioni criminali e il terrorismo di Stato vero e proprio. Sono soprattutto le Nazioni Unite, che supportano le stime di varie ONG, nel considerare che un numero in grande crescita di desaparecidos si deve all’esercito federale. Con 50.000 uomini che occupano militarmente molti stati del paese, e che quasi sempre partecipano attivamente nel traffico di stupefacenti ma anche taglieggiano, stuprano, delinquono, è facile pagare con la vita una parola sbagliata ad un posto di blocco, una tangente non pagata, l’aver visto qualcosa di sbagliato. La CNDH avrebbe il potere di investigare su tutti quei casi dove si teme che corpi dello Stato, comprese polizia ed esercito, siano coinvolte in violazioni dei diritti umani. La mancanza di fondi, la paura e la mancanza o sparizione di indizi, rendono tale potere solo virtuale.

 

 

Il sangue dei narcos

 

La “guerra della droga” ha già

 

provocato 30mila morti in 4 anni

 

 

7.04.2011 - da Al Revés di Andrea Necciai resistenze.org

 

Nel 2001, il Segretario di Stato USA, Colin Powell, a proposito della lotta al narcotraffico in America latina dovette riconoscere che il problema della droga, che da decenni affligge la regione, non è endemico, bensì “dipende da ciò che succede nelle strade di New York e nelle vie di tutte le nostre grandi città”. In altre parole, il narcotraffico nell’area latinoamericana cresce e si alimenta grazie alla domanda di stupefacenti che proviene, prevalentemente, dagli Stati Uniti.

 

In Messico dopo l’adozione del Plan Mérida, che prevede aiuti economici per 350 milioni di dollari all’anno, il governo panista di Felipe Calderón aveva cominciato una vera e propria guerra contro i cartelli della droga, mobilitando migliaia di soldati tra effettivi dell’esercito, della marina militare e della polizia federale. A distanza di qualche anno, i “risultati” raggiunti sono ora sotto gli occhi di tutti: i massacri all’ordine del giorno, le operazioni di polizia anticrimine degenerate in guerra civile e il Paese trasformato in un gigantesco, orrendo, mattatoio.

 

In teoria, e secondo gli accordi presi con i vicini nordamericani, la guerra ai narcotrafficanti avrebbe dovuto impedire alla droga proveniente dal Sudamerica di fare il suo ingresso in Messico, attraverso la frontiera con Guatemala e Belize, per poi essere smistata verso gli Stati Uniti. Ma nei fatti, l’offensiva poliziesco-militare non ha prodotto alcun effetto positivo. Anzi, nel sud del Messico regna incontrastata la famigerata banda dei “Los Zetas” che si arricchisce, oltre che con la droga, anche con il traffico dei migranti centroamericani, in cerca di fortuna al nord, sfruttando questo enorme serbatoio di mano d’opera a buon mercato nella prostituzione e nella schiavitù del lavoro nei campi.

 

Secondo molti analisti, i fautori di questa guerra inutile, il presidente Calderón e i suoi mèntori nordamericani, continuano ad ignorare - o forse fanno finta di non sapere - che per affrontare opportunamente la questione narcotraffico si dovrebbe tener conto, anzitutto, di tre fattori fondamentali. E tutti e tre riconducibili alla medesima matrice.

 

In primo luogo, la maggiore richiesta di stupefacenti proviene dalla stessa nazione che più si impegna a combattere la proliferazione del narcotraffico in tutta l’America latina. Negli Stati Uniti, infatti, vivono milioni di consumatori di droga che si servono di un terzo di tutta la cocaina prodotta nel mondo: un giro d’affari gigantesco che fa gola un po’ a tutti, coinvolgendo anche le banche statunitensi. Dalla XII Conferenza Internazionale sul Riciclaggio è emerso che gli istituti di credito Usa, solo nell’ultimo decennio, avrebbero accolto nei loro caveaux tra i 2,5 ed i 5 trilioni di dollari, frutto di attività illecite come - appunto - il narcotraffico.

 

Dunque, meglio farebbero le autorità statunitensi a concentrarsi di più sugli aspetti legati alla prevenzione del fenomeno (magari investendo più risorse in programmi sociali per limitare il consumo di droghe nella popolazione), anziché insistere unicamente sul versante della repressione manu militari.

 

In secondo luogo, dagli Stati Uniti arrivano anche le armi per i cartelli messicani, grazie ad una fitta rete di “collaboratori”, tra funzionari di frontiera compiacenti e poliziotti corrotti, e alle protezioni a livello politico-imprenditoriale di cui godono gli stessi narcos.

 

Ed infine, andrebbero esaminate più a fondo alcune tra le più disastrose conseguenze del NAFTA, lo sciagurato accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, entrato in vigore a fine anni ’90. Il NAFTA, oltre a provocare l’impoverimento progressivo di intere masse di popolazione, ha costretto milioni di contadini svantaggiati ad abbandonare per sempre le loro terre, oppure a dedicarsi a coltivazioni più redditizie, passando dal mais all’oppio (e/o alla marijuana). Ciò risulta pure da un recente dossier pubblicato dal periodico “La Jornada”, che denuncia la presenza nel nord del Messico di grandi latifondi coltivati ad oppiacei, molti dei quali sono addirittura sorvegliati dai militari. Secondo le stime più ottimistiche, un quarto di tutta l’economia messicana sarebbe già nelle mani dei narcos.

 

Per molti Paesi dell’America latina, decidere di adottare la strategia nordamericana di contrasto al narcotraffico, con i suoi metodi repressivi, significa esporsi sempre di più all’ingerenza della Casa Bianca nei propri affari interni, con il rischio di cadere - o ricadere - sotto il suo controllo militare, economico e politico. Come nel caso messicano, in cui la sovranità del Paese è stata consegnata agli Stati Uniti in cambio dell’adozione di una politica antidroga cinica e spietata. Ed è ovvio che dietro il paravento della lotta al crimine organizzato si nascondono soprattutto ingenti interessi economici. Così, mentre il sangue di tanti messicani scorre a fiotti nelle strade, pochi privilegiati si ingrassano con i lauti profitti della “narcoguerra”.