UNA SFIDA AL GIORNALISMO

 

 

16 settembre 2012 - Ricardo Alarcón de Quesada www.antiterrorista.cu

 

 

I

Il governo degli Stati Uniti commise una flagrante violazione della Costituzione e delle leggi per assicurare le ingiuste condanne dei Cinque patrioti cubani che presto compieranno 14 anni di carcere, arbitrario ed illegale. Non fu un evento isolato ma un impegno sistematico che durò per tutto il tempo del processo contro i Cinque ed in cui investì molti milioni di denaro pubblico. Riguardo la sua durata, le persone coinvolte, il volume di risorse utilizzate e altri aspetti importanti di questa operazione solo si ha un'informazione molto parziale.

In qualunque modo tale condotta obbligherebbe le autorità - sia i tribunali che l'Esecutivo - a disporre l'immediata liberazione dei nostri compagni; Washington ha anche cospirato per nascondere quello che ha fatto, incorrendo in un reato aggiuntivo, quello di occultamento.

Questa è l'essenza dell'Afidavit (dichiarazione giurata) che Martin Garbus, avvocato di Gerardo Hernandez Nordelo, ha appena presentato a Joan Lenard, giudice del Distretto Sud della Florida. E' un testo che supporta la sua precedente domanda che chiedeva l'annullamento della condanna di Gerardo o, in alternativa, che la giudice ordini lo scoprimento di tutte le prove che il governo nasconde e gli conceda un'udienza orale.

Anche se ci sono molte altre violazioni riferite nel processo di appello - ora nella sua ultima, straordinaria, tappa - questo documento si concentra sulla congiura del governo con i media locali di Miami per punire anticipatamente gli imputati e per rendere impossibile un processo equo.

La sostanza di questa cospirazione consistette nell'usare questi media per scatenare una campagna propagandistica di odio e ostilità senza precedenti. Usarono per fare ciò un folto gruppo di
"giornalisti" - in realtà agenti sotto copertura del governo - che pubblicarono articoli e commenti, ripetuti giorno e notte, sino a produrre una vera e propria tempesta disinformativa. Tra il 27 novembre 2000 - il giorno in cui ebbe inizio il processo - e l'8 giugno 2001 - quando furono dichiarati colpevoli - solo nel The Miami Herald e El Nuevo Herald apparvero 1111 articoli, una media di più di 5 al giorno. Qualcosa di simile avvenne con il Diario de Las Americas saturando completamente la stampa.

I "giornalisti" erano pagati da Radio e TV Martí, vale a dire, dal bilancio federale degli Stati Uniti. Questi individui facevano lavori addizionali in questi due media e li disseminavano nell'area di Miami, dove entrambi i segnali anticubani avevano allora e ancor oggi diretta diffusione, e sono inoltre riprodotti attraverso i media locali (questa è un'altra violazione della legge USA che vieta la propaganda ufficiale nel territorio degli Stati Uniti).

Non si tratta solo di Radio e TV Martí e dei giornali stampati. I cosiddetti "giornalisti" agirono anche in emittenti radio e televisive locali, in spagnolo ed in inglese, ed utilizzarono altre pubblicazioni, alcune gratuite, che circolano lì.

Era impossibile sfuggire a questa incessante propaganda in ogni angolo del sud della Florida.

Ma l'azione delittuosa dei "giornalisti"  - e del governo che li pagava - andava al di là della propaganda. Durante il processo la difesa più volte denunciò che cercavano di influenzare i giurati divulgando anche materiali che la stessa giudice aveva proibito presentare e che, ovviamente, potevano solo essere stati consegnati dall'accusa.

A peggiorare le cose i "giornalisti" si dedicarono, anche, a molestare testimoni e giurati. Questi ultimi si lamentarono con la giudice dicendo che temevano, che erano perseguitati con telecamere e microfoni, cosa ripetutamente riconosciuta dalla signora Lenard, che chiese al governo, evidentemente senza successo, di aiutarla a evitare situazioni che macchiavano l'immagine del sistema giudiziario USA (Ad esempio, trascrizione ufficiale del processo, pagine 22, 23, 111, 112, 625, 14644-14646).

Nell'
agosto 2005 i tre giudici della Corte d'Appello decisero all'unanimità di dichiarare nullo il processo di Miami perché si era svolto sotto ciò che loro descrissero come "una tempesta perfetta di pregiudizi e ostilità", creata proprio dai media locali. Quando emisero la storica sentenza i tre giudici non sapevano, non potevano saperlo né loro né nessun altro, che il responsabile di questa "tempesta perfetta" era la Procura che apertamente trasgredì, violando le sue obbligazioni costituzionali, di preservare la legalità e garantire un giusto processo.

La prima notizia della congiura tra il governo e i suoi "giornalisti" pagati emersero un anno dopo, nel settembre 2006. Da allora il governo ha resistito agli sforzi di organizzazioni della società civile USA perché mostri, in base al Freedom of Information Act (FOIA), la portata di tali pagamenti e i contratti. La Procura si è anche opposta alla richiesta contenuta nel ricorso straordinario dei nostri compatrioti e ha minacciato di ricorrere ai "privilegi esecutivi" e a ragioni di sicurezza nazionale per perpetuare l'occultamento.

Il caso dei Cinque cubani ha uno strano rapporto con la stampa e la professione giornalistica. A Miami i media furono uno strumento fondamentale per condannarli. Al di fuori di Miami li puniscono con il silenzio.

L'inconfutabile denuncia di Martin Garbus rappresenta una sfida ai professionisti del giornalismo. Un'altra volta la nasconderanno facendosi così complici di coloro che deturparono la loro nobile professione? Oppure tenteranno di salvare l'onore della loro professione richiedendo che  gli impostori siano smascherati e che la verità e la giustizia prevalgano?

 

II

 

La grande ironia del caso dei Cinque sembra essere il suo rapporto con i media.

A Miami il caso ebbe una copertura sproporzionata e "giornalisti" e i media locali furono strumenti fondamentali per creare un ambiente di odio irrazionale che avrebbe determinato un esito predeterminato dal Governo. I presunti  giornalisti distorsero i fatti, mentirono e fabbricarono un'immagine che mostrava gli accusati come minacce imminenti per la comunità. Nella loro condizione di salariati segreti del governo tali "giornalisti" fecero ciò che gli fu richiesto  da chi li pagava.

Coordinarono la loro attività con la pubblica accusa e i gruppi terroristici dalla fase di selezione della giuria e lo fecero particolarmente per introdurre, più di sette mesi dopo l'arresto, una nuova e totalmente
inventata accusa di "cospirazione per commettere assassinio". Intorno a questa infame calunnia ruotò la maggior parte del processo e dell'attenzione dei media. La giuria si vide costantemente assediata da interviste e conferenze stampa di colleghi e parenti delle vittime, realizzate davanti a loro, all'entrata e all'uscita del tribunale. Dopo li rincontravano nelle loro case alla radio e televisione. Nelle loro abitazioni potevano  inoltre vedersi perseguitati da telecamere e microfoni mentre lasciavano la sede della Corte.

Al di là di Miami il processo dei Cinque non attirò l'interesse delle grandi corporazioni dell'informazione. Del caso non si parlò nei dispacci delle agenzie di stampa, non apparve nelle pubblicazioni a stampa, né alla radio e televisione al di fuori della Florida. Non trovò una sola volta spazio neppure nei canali televisivi dedicati esclusivamente ai tribunali che trasmettono, negli USA, 24 ore su 24.

Come spiegare questo disinteresse? Era, allora, il processo più lungo della storia degli Stati Uniti; in esso comparvero, come testimoni, generali, colonnelli e alti ufficiali ed esperti militari, un ammiraglio e un consigliere del Presidente della Repubblica; sfilarono di fronte alla Corte noti terroristi, che si identificarono come tali, alcuni ostentando capi di abbigliamento militare era una causa che coinvolgeva le relazioni internazionali e le questioni connesse, reali o presunte, con la sicurezza nazionale e il terrorismo, argomenti preferiti dai grandi media. Ma nessuno disse nulla al di là della stampa locale; per il resto della gente il processo semplicemente non esistette.

Ignorarono il tema fuori da Miami, benché i loro corrispondenti e l'emittenti lì affiliate  lo riferirono tutti i giorni e parteciparono con entusiasmo alla frenesia mediatica che inondò la città.

La ferrea censura imposta a questo caso permise la sorprendente impunità con cui le autorità protesse
ro i terroristi e punirono, ingiustamente e crudelmente, i Cinque uomini che li combatterono eroicamente, disarmati, senza violenza  e senza far male a nessuno. L'accusa non nascose mai quale fosse il suo scopo. Lo disse a chiare lettere, tante volte, come riportato negli atti del processo, senza preoccupazione alcuna perché aveva fiducia nel rigoroso silenzio dei grandi media, perché sapeva che normalmente il pubblico  non legge le trascrizioni ufficiale nè assiste alle sessioni del tribunale e viene a sapere ciò che lì accade dai resoconti dei media.

I giurati, da parte loro, vedevano ogni giorno, per più di mezzo anno, come nell'aula del tribunale i pubblici ministeri chiacchieravano amichevolmente  con testimoni che si vantavano della loro militanza violenta e della loro carriera terrorista, ascoltavano le arringhe infuocate dell'uno e i minacciosi sproloqui degli altri.

Al ritorno a casa dalle loro famiglie e dai loro vicini, le stesse immagini li molestavano. Erano volti e voci conosciute.

Poco prima apparvero con gli stessi mezzi, quando rapirono un bambino di sei anni, Elián González, sfidarono il governo federale e i suoi giudici, crearono il caos in città e minacciarono di bruciarla. Ricordavano che nessuno fu punito o inviato in tribunale. I giurati erano stati testimoni di questa  insolita impunità e temevano che si ripetesse ed ora si volgesse contro di loro se non avessero consegnato il verdetto richiesto dalla turba e lo avevano confessato molte volte quando furono intervistati durante il processo di selezione della giuria. Avevano paura.

E la paura aumentò, col passare di quei lunghi mesi e cresceva, sempre più, mentre i "giornalisti" li perseguitavano con le loro luci e microfoni. Molte volte si lamentarono e la giudice diede loro ragione. Ma tutto seguiva di egual maniera.

I pubblici ministeri, da parte loro, gli ripetevano fino alla nausea che loro, i giurati, avevano una grave responsabilità, da loro dipendeva, né più e né meno, che la sopravvivenza degli Stati Uniti e della comunità che li stava guardando.

Avevano paura e si sentivano abbandonati. Non una sola voce si  levò nei media locali per difenderli e invitare alla tranquillità e alla prudenza. In particolare volevano terminare quel maledetto processo, tornare a casa ed essere dimenticati.

Gli occorse poco tempo per decidere. Il processo più lungo della storia si concluse con il verdetto più rapido. Ma questo neppure fece notizia.

 

III

 

Le petizioni di habeas corpus a favore dei Cinque cubani ingiustamente condannati negli Stati Uniti e in particolare la dichiarazione giurata di Martin Garbus, avvocato di Gerardo, hanno come focus centrale il ruolo svolto dai "giornalisti" che, pagati dal governo degli Stati Uniti, crearono un clima d'isteria e odio irrazionale che spaventò la giuria sino a dichiararli colpevoli anche se l'accusa non presentò prova alcuna e, peggio ancora, riconobbe che non poteva sostenere la sua principale accusa.

Non è, tuttavia, uno scontro dei Cinque e dei loro difensori con il giornalismo e i giornalisti. E' tutto il contrario.

L'operazione montata a Miami dalla Procura, oltre a violare la Costituzione e le regole del giusto processo, fu anche un insulto a una professione che merita rispetto. Fu un giornale di Miami - The Miami Herald - che per primo rivelò l'esistenza di questa operazione segreta a cui parteciparono alcuni dei suoi redattori che, tra l'altro, licenziò perché il suo editore la ritenne una violazione della deontologia giornalistica.

L'autore della rivelazione, Oscar Corral, pagò a caro prezzo il suo attaccamento alle norme della professione. Invece di ricevere un premio per il suo lavoro investigativo fu oggetto, secondo le sue stesse parole, di "una campagna orchestrata per intimidire, molestare e porre sotto silenzio. E fu un fuoco di artiglieria concentrato. Alcune minacce furono molto specifiche e menzionavano la mia famiglia", ciò che fece sì che i suoi editori lo trasferissero a vivere in un luogo sicuro.

Il vero giornalismo fu anche vittima della prevaricazione governativa.

Ma chi erano i "giornalisti" pagati dal governo e perché furono contrattati per fare quello che fecero?

Tutti, senza eccezione, erano membri o erano strettamente legati a organizzazioni
che a Miami coltivano la violenza e il terrorismo e alcuni sono, essi stessi, terroristi condannati e confessi; alcuni avevano, in precedenza, esercitato funzioni giornalistiche ed erano in grado di redigere, più o meno, un paio di pagine, altri non avevano superato l'esame di ammissione a nessuna scuola di giornalismo; tutti avevano una lunga esperienza come provocatori e partecipavano regolarmente a programmi radiofonici e televisivi caratterizzati dall'impudenza e stridore in cui si sostiene, apertamente, l'uso della forza contro Cuba. Tutti avevano i requisiti per essere assunti da Washington per la realizzazione di un lavoro clandestino. In altre parole, si trattava di persone affidabili e per questo gli commissionarono il lavoro e li pagarono generosamente, perché, dopo tutto, non utilizzarono denaro delle proprie tasche, ma dei contribuenti.

Tutto fu pagato a carico dei bilanci di Radio e TV Martí, che sono aziende del Governo, finanziate dal bilancio federale che si nutre delle imposte e altri contributi da parte del pubblico, ossia, i cittadini e i residenti degli Stati Uniti. Ma questi, coloro che inconsapevolmente la pagarono, non sapevano nulla di questa operazione segreta.

Per questo la dichiarazione di Garbus  sottolinea che siamo dinnanzi ad un affare d'importanza eccezionale. Primi di  tutto per i Cinque compatrioti che presto compieranno quattordici anni privati ​​della loro libertà. Ma è anche importante, e molto, per coloro che non sono in carcere.

Lo é, particolarmente, per i veri giornalisti, senza virgolette, coloro che esercitano onestamente una professione che altri prostituirono e la convertirono in strumento per sequestrare i Cinque innocenti.

Al termine della sua dichiarazione Garbus cita il Procuratore Generale, "Il Procuratore Generale Eric Holder Jr. non fu responsabile di questo caso, quando ebbe inizio. Ma lo è ora."

I professionisti del giornalismo e mezzi di comunicazione, al di là di Miami, non furono responsabili di questo crimine quando si verificò. Ma ora che sanno quello che avvenne non possono sottrarsi alle loro responsabilità.
Il silenzio ora sarebbe complicità.

 

 

UN RETO AL PERIODISMO
 

I


El Gobierno de Estados Unidos incurrió en flagrante violación de la Constitución y las leyes para asegurar las injustas condenas a los Cinco patriotas cubanos que pronto cumplirán 14 años de castigo arbitrario e ilegal. No fue un hecho aislado sino un empeño sistemático que abarcó todo el tiempo del proceso contra los Cinco y en el que invirtió muchos millones de dinero público. Acerca de su duración, las personas involucradas, el volumen de recursos utilizados y otros aspectos importantes de esta operación sólo se tiene una información muy parcial.

Comoquiera que esa conducta obligaría a las autoridades - tanto a los tribunales como al Ejecutivo - a disponer la inmediata liberación de nuestros compañeros, Washington ha conspirado también para ocultar lo que hizo, incurriendo en un delito adicional, el del encubrimiento.

Tal es la esencia del Afidávit (Declaración Jurada) que Martin Garbus, abogado de Gerardo Hernández Nordelo, acaba de presentar a Joan Lenard, jueza del Distrito Sur de la Florida. Es un texto que respalda su solicitud anterior en la que demandó la anulación de la condena de Gerardo o, como alternativa, que la jueza ordene el descubrimiento de todas las pruebas que el gobierno esconde y le conceda una audiencia oral.

Aunque hay muchas otras violaciones referidas en el proceso de apelación – ahora en su última, extraordinaria, etapa – este documento se concentra en la conjura del Gobierno con los medios locales de Miami para sancionar de antemano a los acusados y hacer imposible un juicio justo.

La sustancia de esa conspiración consistió en usar esos medios para desatar una campaña propagandística de odio y hostilidad sin precedentes. Emplearon para ello a un numeroso grupo de “periodistas”- en realidad agentes encubiertos del Gobierno- que publicaron artículos y comentarios repetidos día y noche hasta producir un auténtico vendaval desinformativo. Entre el 27 de noviembre de 2000 – día en que empezó el juicio – y el 8 de junio de 2001 – cuando fueron declarados culpables – sólo en The Miami Herald y El Nuevo Herald aparecieron 1111 artículos, un promedio de más de 5 por día. Algo semejante ocurrió con el Diario de Las Américas saturando completamente la prensa escrita.

Los “periodistas” cobraban de Radio y TV Martí, o sea, del presupuesto federal norteamericano. Dichos individuos hacían trabajos adicionales en esos dos medios y los diseminaban en el área de Miami donde ambas señales anticubanas tenían entonces y tienen todavía hoy difusión directa, por sí mismas, y son reproducidas además a través de medios locales (esta es otra violación de la ley norteamericana que prohíbe la propaganda oficial dentro del territorio estadounidense).

No se trata solamente de Radio y TV Martí y de los diarios impresos. Los llamados “periodistas” actuaron también en emisoras locales de radio y televisión, en español y en inglés, y usaron otras publicaciones, algunas gratuitas, que allá circulan.

Era imposible escapar a esa incesante propaganda en ningún rincón del sur de la Florida.

Pero la acción delictiva de los “periodistas”-y del gobierno que les pagaba- fue más allá de la propaganda. Durante el juicio la defensa denunció varias veces que buscaban influir sobre los miembros del jurado divulgando incluso materiales que la propia jueza había prohibido presentar, los cuales, obviamente, sólo pudo entregarles la Fiscalía.

Como si fuera poco, los “periodistas” se dedicaron, asimismo, a hostigar a los testigos y a los jurados. Éstos últimos se quejaron a la Jueza alegando que sentían temor, que eran perseguidos con cámaras y micrófonos, algo reconocido, varias veces, por la señora Lenard, quien pidió al gobierno, evidentemente sin éxito, la ayudase a evitar situaciones que manchaban la imagen del sistema judicial norteamericano. (Por ejemplo, Transcripción Oficial del juicio, páginas 22, 23, 111, 112, 625, 14644-14646).

En agosto de 2005 los tres jueces de la Corte de Apelaciones decidieron unánimemente declarar nulo el juicio de Miami porque se había realizado bajo lo que ellos describieron como “una tormenta perfecta de prejuicios y hostilidad” creada precisamente por los medios locales. Cuando dictaron el histórico fallo los tres jueces no sabían, no podían saberlo ellos ni nadie, que el responsable de esa “tormenta perfecta” era la Fiscalía que prevaricó abiertamente incumpliendo su obligación constitucional de preservar la legalidad y garantizar un juicio justo.

La primera noticia de la conspiración del Gobierno con sus “periodistas” pagados surgió un año después, en septiembre de 2006.Desde entonces el Gobierno ha resistido los esfuerzos de organizaciones de la sociedad civil norteamericana para que muestre el alcance de esos pagos y sus contratos en conformidad con la Ley de Libertad de Información (FOIA). La Fiscalía también se ha opuesto a la demanda incluida en las apelaciones extraordinarias de nuestros compatriotas y ha amenazado con recurrir a los “privilegios ejecutivos” y a razones de seguridad nacional para perpetuar el ocultamiento.

EL caso de los Cinco tiene una extraña relación con la prensa y la profesión periodística. En Miami los medios fueron un instrumento decisivo para condenarlos. Fuera de Miami los castigan con el silencio.

La irrefutable denuncia de Martin Garbus plantea un reto a los profesionales del periodismo. ¿La ocultarán otra vez haciéndose así cómplices de quienes mancillaron su noble oficio? ¿O tratarán de salvar la honra de su profesión reclamando que los farsantes sean desenmascarados y que la verdad y la justicia prevalezcan?

 

 

II

 

 

La gran ironía del caso de los Cinco parece ser su relación con los medios de comunicación.

En Miami el caso tuvo una cobertura desmesurada y los “periodistas” y medios locales fueron instrumentos claves para crear un ambiente de odio irracional que condicionaría un resultado preestablecido por el Gobierno. Los supuestos profesionales de la prensa distorsionaron los hechos, mintieron y fabricaron una imagen que mostraba a los acusados como amenazas inminentes para la comunidad. En su condición de asalariados encubiertos del Gobierno los tales “periodistas” cumplieron con lo que orientó quien les pagaba.

Coordinaron su actividad con la Fiscalía y con los grupos terroristas desde la fase de selección del jurado y lo hicieron especialmente para introducir, más de siete meses después del arresto, una nueva y totalmente inventada acusación de “conspiración para cometer asesinato”. Alrededor de esta infame calumnia giró la mayor parte del juicio y de la atención mediática. El jurado se vio asediado constantemente por entrevistas y conferencias de prensa de colegas y familiares de las víctimas, realizadas ante ellos a la entrada y a la salida del tribunal. Después volverían a encontrarlos en sus casas por la radio y la televisión. En sus propios hogares podían además verse a sí mismos perseguidos por cámaras y micrófonos cuando abandonaban la sede de la Corte.

Más allá de Miami el proceso de los Cinco no atrajo el interés de las grandes corporaciones de la información. Del caso no se habló en los despachos de las agencias cablegráficas, no apareció en las publicaciones impresas ni en la radio y la televisión fuera de la Florida. No encontró espacio una sola vez ni en los canales de televisión dedicados exclusivamente a los tribunales que transmiten veinticuatro horas diarias en Estados Unidos.

¿Cómo explicar ese desinterés? Era, entonces, el juicio más prolongado en la historia de Estados Unidos; en él comparecieron, como testigos, generales, coroneles y altos oficiales y expertos militares, un almirante y un asesor del Presidente de la República; desfilaron ante la Corte connotados terroristas, que se identificaron como tales, algunos ostentando indumentaria guerrera¸ se trataba de un pleito que implicaba las relaciones internacionales y cuestiones vinculadas, real o supuestamente, con la seguridad nacional y el terrorismo, tópicos predilectos de los grandes medios. Pero nadie dijo nada más allá de la prensa local, para el resto de la gente el juicio sencillamente no existió.

Ignoraron el tema fuera de Miami, aunque sus corresponsales y emisoras filiales en ese lugar lo reportaron todos los días y participaron con entusiasmo en el frenesí mediático que inundó la ciudad.

La férrea censura impuesta a este caso permitió la asombrosa impunidad con la que las autoridades protegieron a los terroristas y castigaron injusta y cruelmente a cinco hombres que los enfrentaron heroicamente, desarmados, sin emplear la violencia, sin hacer daño a nadie. La Fiscalía nunca escondió que ese era su propósito. Lo dijo con todas las letras, muchas veces, como consta en las actas del proceso, sin preocupación alguna porque confiaba en el riguroso silencio de los grandes medios, porque sabía que el público normalmente no lee las transcripciones oficiales ni asiste a las sesiones del tribunal y se entera de lo que allí ocurre por las versiones periodísticas.

Los jurados, por su parte, veían cada día, durante más de medio año, cómo en la sala del tribunal los fiscales charlaban amistosamente con testigos que alardeaban de su militancia violenta y su trayectoria terrorista, escuchaban las encendidas arengas de unos y las amenazantes peroratas de los otros.

Al regresar a casa con sus familias y sus vecinos, las mismas imágenes los acosaban. Eran rostros y voces conocidas.

Poco antes habían surgido por los mismos medios cuando secuestraron a un niño de seis años, Elián González, desafiaron al Gobierno federal y a sus jueces, crearon el caos en la ciudad y amenazaron con incendiarla. Recordaban que nadie fue castigado ni enviado ante ningún tribunal. Los jurados, habían sido testigos de aquella insólita impunidad y temían que se repitiese y se volviera ahora contra ellos si no entregaban el veredicto exigido por la turba y así lo habían confesado muchas veces cuando se les entrevistó durante el proceso de selección del jurado. Tenían miedo.

Y el miedo aumentó después, según pasaban aquellos largos meses y crecía, cada vez más, cuando los “periodistas” los perseguían con sus luces y sus micrófonos. Muchas veces se quejaron y la Jueza les dio la razón. Pero todo siguió igual.

Los fiscales, por su parte, les repetían hasta el cansancio que ellos, los jurados, tenían una grave responsabilidad, de ellos dependía, nada más y nada menos, que la supervivencia de los Estados Unidos y de esa comunidad que los estaba mirando.

Tenían miedo y se sentían abandonados. Ni una sola voz se alzó en los medios locales para defenderlos y llamar al sosiego y la prudencia. Querían sobre todo terminar con aquel maldito juicio, regresar a casa y ser olvidados.

Les tomó poco tiempo decidirse. El juicio más largo de la Historia concluyó con el veredicto más rápido. Pero eso, tampoco fue noticia.

 

 

III

 

 

Las peticiones de Habeas Corpus a favor de los Cinco cubanos condenados injustamente en Estados Unidos y especialmente la declaración jurada de Martin Garbus, abogado de Gerardo, tienen como foco central el papel desempeñado por “periodistas” que, pagados por el Gobierno norteamericano, crearon un ambiente de histeria y odio irracional que atemorizó al jurado hasta declararlos culpables pese a que la Fiscalía no presentó prueba alguna y, peor aún, reconoció que no podía sostener su principal acusación.

No se trata, sin embargo, de un enfrentamiento de los Cinco y sus defensores con el periodismo y los periodistas. Es más bien todo lo contrario.

La operación montada en Miami por la Fiscalía, además de violar la Constitución y las reglas del debido proceso, fue también un insulto a un oficio que merece respeto. Fue un diario de Miami – The Miami Herald – quien primero reveló la existencia de esa operación secreta en la que participaron algunos de sus redactores a quienes, por cierto, despidió por lo que su editor consideró una violación de la ética periodística.

El autor de la revelación, Oscar Corral, pagó caro su apego a las normas de la profesión. En vez de recibir un premio por su labor investigativa fue objeto, según sus propias palabras, de “una campaña orquestada para intimidar, hostigar y silenciar. Fue un fuego artillero concentrado. Algunas amenazas fueron muy específicas y mencionaban a mi familia” lo cual hizo que sus editores los mudaran a vivir a un lugar seguro.

El periodismo verdadero fue también víctima de la prevaricación gubernamental.

Pero ¿quiénes eran los “periodistas” pagados por el Gobierno y por qué fueron contratados para hacer lo que hicieron?

Todos, sin excepción, eran miembros o estaban estrechamente vinculados a organizaciones que en Miami cultivan la violencia y el terrorismo y algunos son, ellos mismos, terroristas convictos y confesos; algunos habían ejercido funciones periodísticas con anterioridad y son capaces de redactar, más o menos, un par de cuartillas, otros no habrían pasado el examen de admisión a ninguna escuela de periodismo; todos tienen larga experiencia como provocadores y participan asiduamente en programas radiales y televisivos caracterizados por la procacidad y la estridencia en los que se aboga, sin tapujos, por el uso de la fuerza contra Cuba. Todos reunían las cualidades para ser contratados por Washington para el cumplimiento de una labor clandestina. En otras palabras, eran gente de confianza y por eso les encargaron el trabajo y les pagaron generosamente, pues, después de todo, no usaron el dinero de sus bolsillos sino el de los contribuyentes.

Todo se pagó con cargo a los presupuestos de radio y TV Martí, que son empresas del Gobierno, financiadas por el presupuesto federal que se nutre de los impuestos y otros aportes que hace el público, o sea, los ciudadanos y los residentes en Estados Unidos. Pero estos, quienes, sin saberlo, la pagaban, nada supieron de esta operación encubierta.

Por eso la declaración de Garbus destaca que estamos ante un asunto de importancia excepcional. Ante todo para los Cinco compatriotas que pronto cumplirán catorce años privados de su libertad. Pero es importante también, y mucho, para quienes no están encarcelados.

Lo es, especialmente, para los periodistas verdaderos, sin comillas, los que ejercen honestamente una profesión que otros prostituyeron y la convirtieron en instrumento para secuestrar a cinco inocentes.

Al final de su declaración Garbus menciona al Fiscal General de Estados Unidos: “El Fiscal General Eric Holder Jr. no fue responsable por este caso cuando comenzó. Pero lo es ahora.”

Los profesionales del periodismo y los medios de prensa más allá de Miami no fueron responsables de este crimen cuando se produjo. Pero ahora que ya saben lo que ocurrió no pueden evadir su responsabilidad. El silencio ahora sería complicidad.