CUBA: UNO SGUARDO AL SUO

MODELLO DI BENESSERE

 

 

18.05.2013 - di Patricia Arés Muzio http://eladversariocubano.wordpress.com

 

 

In molte occasioni, ho domandato ai miei studenti quali fossero le principali ragioni per dire che a Cuba si vive bene. La maggior parte delle volte le loro risposte erano relative all'accesso alla salute, all'educazione e alla previdenza sociale ed effettivamente questi sono i pilastri del nostro modello socialista, ma per le persone giovani costituiscono delle realtà tanto normali nella quotidianità che sono diventate abituali oppure rimangono congelate in un discorso che, a forza di ripeterlo, diventa irrilevante.
 


A CUBA GLI SPAZI DI SOCIALIZZAZIONE

SONO MOLTO IMPORTANTI NELLA VITA.
 


Io mi azzarderei a dire che esiste un modello cubano di benessere che è stato assorbito con tanta acritica familiarità che è rimasto invisibile ai nostri occhi o paradossalmente inserito nelle voci dei molti di coloro che non ci sono più, dopo averlo perso, o di visitatori che vivono altre realtà nei loro paesi di origine. Sulla vita quotidiana a Cuba, in generale si parla delle difficoltà, soprattutto di indole economica, ma poche volte si sente parlare dei nostri vantaggi e dei nostri punti di forza.

Alcune esperienze professionali vissute mi hanno fatto pensare molto al nostro socialismo, visto come cultura e civiltà alternativa. Quando noi psicologi e altri specialisti partecipammo al processo per ottenere il ritorno del bambino Elián González, è emerso con molta forza questo tema. Più recentemente, conversando con alcuni anziani rimpatriati, con bambini che per decisione dei loro genitori dovevano andare a risiedere in altri paesi o con giovani che sono ritornati dalla Spagna dopo aver vissuto l'esperienza di essere finiti sulla strada per non avere lavoro né denaro per pagare l’affitto, mi ritorna in mente, a partire dalle loro esperienze, l'idea del modello cubano di benessere.

Ricordo quando Elián si trovava negli Stati Uniti che il nonno Juanito gli diceva al telefono che stava facendogli un carrettino con le ruote per il suo ritorno e il giorno seguente appariva sullo schermo della televisione che gli avevano regalato un’auto elettrica che sembrava vera, se i nonni o il padre gli dicevano che il suo cagnolino lo rimpiangeva, il giorno seguente appariva Elián con un cucciolo di labrador che gli avevano regalato, se gli dicevano che gli avevano comprato un libretto di Elpidio Valdés, appariva Elián vestito da Batman. Tuttavia, l'affetto della sua famiglia, l'amore di quanti lo stavano aspettando, la solidarietà dei suoi compagni di scuola, delle sue maestre, hanno potuto di più di tutte le cose materiali del mondo.

Conversando recentemente con un anziano che ha preso la decisione di non tornare negli Stati Uniti dopo aver vissuto 19 anni in quel paese, mi diceva: È reale dottoressa, lì si vive molto comodamente, ma quello non è tutto nella vita, “là non sei nessuno”, non esisti per nessuno. Mi raccontava che passava lunghe ore da solo in casa, aspettando che i figli e nipoti ritornassero dal lavoro e dalla scuola, che rimaneva rinchiuso perché non poteva uscire, perché secondo loro era vecchio e non lo lasciavano guidare, e che di giorno il quartiere in cui viveva sembrava un plastico, non si vedeva nessuna persona, né nessuno aveva tempo di dedicarti un momento per conversare.

In una visita che fece all'altra figlia che vive a Cuba, decise di non ritornare. Mi racconta che sta facendo esercizi nel parco, che gioca a domino nei pomeriggi, che passa a trovarlo l'altro nipote con due amichetti, che ha recuperato alcuni amici della “vecchia guardia” e che con i soldini che gli inviano da là e con l'aiuto della sua famiglia qui, ne ha d’avanzo per coprire le sue spese. Usando le sue parole testuali mi diceva: “Alcuni conoscenti mi dicevano che andavo a finire all'inferno, ma in realtà dottoressa, mi sento nel paradiso”. Evidentemente, il modo di vita che ora conduce non sarà il paradiso, ma gli fa sentire maggior benessere.

Un giorno mi hanno portato un bambino figlio di due diplomatici che era venuto in ferie e non voleva ritornare con i genitori alla missione dove stavano lavorando, era “nervoso”, in piena lotta, diceva di lasciarlo con la nonna, che lui non voleva andare via di nuovo, che non gli piaceva stare là. Quando domandai ai genitori che cosa accadeva al bambino, mi raccontarono che là doveva vivere rinchiuso per ragioni di sicurezza, non aveva neppure amici con cui trascorrere il tempo dopo la scuola, e non c’erano i cugini, che adorava.

Da quando è arrivato qui è come se gli avessero dato il via libera - mi dicevano i genitori - se ne va al parco dell'angolo con gli amici del quartiere, esce a passeggiare con i cugini, gioca a baseball e al calcio in piena strada, passa il giorno circondato dai nonni, dagli zii e dai vicini. Nell'intervista con il bambino mi raccontava che i cugini gli dicevano che egli era sciocco perché voleva restare a Cuba avendo l'opportunità di stare in un altro paese e il bambino mi diceva: “Io rimpiango molto quando sono qui la pizza ai peperoni, ma non vale un milione di pizze poter restare a vivere a Cuba”.

Un giovane ritornato dalla Spagna, mi ha raccontato che era rimasto senza lavoro e ovviamente non aveva denaro per pagare l’affitto, che la padrona gli ha dato tre mesi di tempo e non avendo i soldi lo ha messo in strada, ma la cosa più triste del caso è che nessuno, neppure i suoi amici, gli hanno teso una mano, dato che gli dicevano che data la crisi ognuno “avrebbe dovuto sistemarsi come poteva” e ha dovuto ritornare perché l'opzione che aveva era o dormire nel metro o tornare nella casa dei suoi genitori a Cuba. Alla fine, mi diceva, quelli che sono pronti ad accoglierti sono i tuoi.

Sono rimasta a pensare a queste testimonianze che potrebbero servire benissimo per tanti giovani che non trovano alcun benessere di vivere a Cuba e che immaginano solo una vita “di progresso” all’estero o che hanno sopravvalutato la vita di fuori come una vita di successo e di opportunità, ma io mi domando: che cosa abbiamo qui che manca in altri posti? Che cosa hanno scoperto il bambino, l'anziano e il giovane che è venuto dalla Spagna, a partire dalle sue esperienze là che noi non vediamo qui? Realmente il modello di vita che propongono le società capitaliste contemporanee costituisce attualmente un modello di benessere, nonostante sia spacciato dai mezzi di comunicazione come “il sogno del progresso promesso?”. Parliamo oggi di buona vita o del buon vivere, di vita piena? Necessariamente lo sviluppo economico e tecnologico è l’unica cosa che garantisce il benessere personale e sociale?

Faccio un sforzo di sintesi a partire da queste esperienze professionali in cui considero radichino alcune delle basi del nostro modello cubano di benessere.

 

In primo luogo l’assenza di sentimento di esclusione, il non vivere un “anonimato sociale”.

Questo è un tema con profonde connotazioni spirituali ed etiche. Quando uno arriva in un quartiere a Cuba e chiede di una persona, in generale ti dicono: “Vive in quella casa”. Noi cubani tutti abbiamo un nome e una biografia perché tutti abbiamo spazi di appartenenza (famiglia, scuola, comunità, centro di lavoro) e di partecipazione sociale, tutti nella nostra vita abbiamo assunto responsabilità, partecipiamo nel quartiere alle riunioni, al nostro ambulatorio del medico, votiamo nella stessa urna, compriamo i prodotti controllati al mercato o abbiamo lo stesso messaggero. Di sicuro in qualche momento abbiamo detto: “Le stesse facce tutti i giorni”, ma proprio su questo si basa uno scenario vitale di grandi dimensioni umane e di solidarietà.


L’anonimato sociale, o con le parole del nonno che ho intervistato, il “Tu non esisti”, risulta un’esperienza contraria a quella che viviamo a Cuba, è l’esperienza di vivere senza avere un luogo, senza essere riconosciuto o notato, e non si tratta di un luogo fisico, ma di un luogo simbolico, un luogo di appartenenza e partecipazione, un luogo che dà senso alla vita. Vivere nel “non luogo” è sentirsi isolato, in solitudine esistenziale, è sentirsi estraneo e questo è uno dei problemi del mondo attuale. Perfino i luoghi dove oggi coesistono molte persone, più che luoghi d’incontro sono soprattutto “non luoghi”.


Risulta incredibile che in un metro possano andare quotidianamente centinaia di persone che non scambiano neanche una parola e che hanno un maggiore contatto con i mezzi tecnologici in una specie di autismo tecnico, che tra persona a persona. Un altro “non luogo” sono gli aeroporti e i centri commerciali (cattedrali del consumo): molta gente intorno a te e assolutamente nessun contatto. Se cadi nessuno ti tira su, perché, per di più, esistono tante leggi sui “diritti cittadini” che ipoteticamente proteggono le persone da un punto di vista individualistico, che nessuno ti tocchi ché magari capita che ti accusino di molestie sessuali. Sono legiferati il “non contatto” e l’indifferenza.


Oggigiorno la realtà sociale in altri paesi fa sì che ogni volta siamo più esclusi che compresi. A parte le disuguaglianze sociali a causa delle attuali realtà economiche, a Cuba le nostre politiche promuovono l’inclusione sociale che porta a cancellare la distanza di genere, il colore della pelle, le capacità fisiche, l’orientamento sessuale. Cuba, come sistema sociale, nonostante tutte le difficoltà e le contraddizioni, cerca di costruire un mondo dove ci stiamo tutti, e dove la reciprocità umana spontanea si verifica da queste condizioni.


Nell’ “altra geografia”, nella mappa della globalizzazione neoliberale, divisa in classi, legami interpersonali danneggiati da differenze dissimili e gli uni rimangono lontani dagli altri per frontiere invisibili, che ledono l’integrazione e la partecipazione.

 

 

I diversi spazi di socializzazione

 

 

Gli spazi di socializzazione sono molto importanti nella vita, il tessuto sociale è la risorsa, il sostegno per ogni individuo, perché è chiaro che certamente è in esso che una persona può sviluppare pienamente il suo potenziale. In molte parti del mondo le famiglie vivono attualmente in isolamento e più alto è il livello di vita, maggiore è il modo di vita isolato.


Nessuno conosce il vicino che vive a fianco, nessuno sa chi è, dentro le case i membri non hanno molti spazi per parlare faccia a faccia, perché l’invasione della tecnologia è tale che un padre può stare a chattare con un collega in Giappone e non ha la minima idea di ciò che succede al figlio nella stanza attigua. In studi che sono stati realizzati in diverse parti del mondo, il tempo di conversazione guardandosi negli occhi che un genitore (specialmente il papà) dedica ai suoi figli, non supera i 15 minuti al giorno.


Uno dei grandi impatti del modello capitalista egemonico attuale è il poco tempo per la famiglia o per altri spazi comuni, nei giorni infrasettimanali la famiglia come gruppo “non esiste”, gli orari di lavoro lunghi e intensi, il doppio lavoro dei genitori per potere soddisfare le sempre maggiori esigenze del consumo, fanno sì che quei vecchi rituali e tradizioni familiari siano stati banditi dalla vita quotidiana.


Gli psicologi e sociologi di molti paesi rilevano che il maggiore impatto di questa realtà è la solitudine infantile e l’assenza di legami nell’anziano. Molti bambini della classe media o medio-alta arrivano dalla scuola senza che in casa compaia una faccia adulta fino a ore avanzate o rimangono con una tata che dà loro il cibo, ma non può compensare l’affetto e l’attenzione dei genitori.


I mezzi tecnologici appaiono come l’antidoto alla solitudine ma, senza nessuna restrizione degli adulti, quello che possono produrre è assuefazione ai videogiochi, incrementare la violenza e favorire l’erotizzazione precoce. È poco frequente nel mondo di oggi che i bambini o gli adolescenti dispongano di piazze pubbliche, di strade e parchi all’aperto come luoghi d’incontro perché non c’è sicurezza delle città per questo. Gli universi spazio-temporali della rete urbana destinati alla gioventù, sono visti dagli adulti come luoghi di minaccia e pericolo più che di svago e costruzione di legami sociali. A Cuba i parchi e le piazze continuano a essere luoghi di socializzazione di diverse generazioni.


La famiglia cubana è tessuta in reti sociali di scambio, con i vicini, con le organizzazioni, con la scuola, con i parenti, compresi gli emigrati. La cosa caratteristica del modo di vita dei cubani sono gli spazi di socializzazione, il tessuto sociale che non esclude e non lascia senza nome nessuno. Io direi che la cellula basilare della società a Cuba, oltre alla famiglia come ambiente domestico, è costituta dalla rete di scambio sociale familiare e vicinale, quel tessuto sociale in reti rappresenta una delle forze invisibili più grandi che ha il modello cubano di benessere, è lì dove radica il maggiore risultato del nostro processo sociale, la solidarietà sociale, il contenimento sociale, lo scambio sociale permanente. Quel capitale è percepibile solo da chi lo perde e comincia a vivere un’altra vita fuori dal paese.


Malgrado abbiamo difficoltà economiche e problemi non risolti, la famiglia a Cuba esiste. La famiglia cubana comincia a vivere intensamente dopo che i bambini escono dalla scuola e i bambini, giovani e adolescenti fanno vita familiare-comunitaria a partire dalla loro uscita dai centri scolastici. La vita familiare a Cuba non si svolge con la porta chiusa. La porta di una casa cubana può essere bussata molte volte, dagli agenti della fumigazione, dai vicini, dall’infermiera, dai dirigenti di base, dai “porta-propistas”. Bisogna uscire tutti i giorni per andare al mercato, a casa dei vicini per raccogliere mandati, a buttare la spazzatura, andare in farmacia, prendere i bambini dalla scuola.


La vita familiare a Cuba è multi generazionale, dove tutte le età continuano a interagire, la maggioranza degli adulti anziani non vivono in ospizi, il loro vero spazio di solito è la comunità.