Cuba e la guerra mediatica
 

 

 

 

 

Raul Antonio Capote,
un comunista nella CIA

 

 

21.08.2013 - GERALDINA COLOTTI Le Monde diplomatique il manifesto

 

 

 

 

Cosa spinge la CIA a reclutare un noto intellettuale cubano, professore universitario, scrittore e critico letterario?


I lettori che riusciranno a procurarsi il libro di Raul Antonio Capote, Enemigo, Editorial José Marti (editjosemarti@ceniai.inf.cu) lo scopriranno dalla viva voce dell’autore. Gli altri dovranno attendere che qualche editore interessato lo pubblichi in italiano: magari facendo il paio con un altro libro di Capote, l’avvincente romanzo El adversario (Editorial Plaza Mayor, San Juan, Portorico), che dà il nome al suo blog. Raul è un comunista, amante della sua isola e della rivoluzione che il 26 luglio ha festeggiato le sue origini, sessant’anni fa: l’assalto alla caserma del Moncada da parte dell’M 26-7 e la cacciata del dittatore Fulgencio Batista.


Ha condiviso i tanti periodi difficili del suo paese sottoposto a un feroce blocco economico da parte degli USA, che si rinnova di anno in anno. E da qualche mese – ha denunciato il governo cubano – con particolare virulenza. Come tutti gli artisti veri, Raul non ama blindature e steccati e non rifugge le domande. Ha cominciato a scrivere fin da giovanissimo (ora ha 52 anni), il suo è stato definito uno stile «innovativo» della letteratura cubana. Per questo gli infaticabili occhiuti dell’intelligence nordamericana hanno pensato che fosse un potenziale «oppositore». Lo hanno contattato. E lui ha accettato... per conto dei servizi segreti del suo paese.

 

Per loro era l’agente Daniel, per la CIA l’agente Pablo. Un’infiltrazione durata molti anni, finché il governo cubano non ha deciso di «bruciare» lui e altri compagni per far conoscere al mondo la natura delle aggressioni che subisce dagli USA fin dai primi anni della rivoluzione (1° gennaio del ’59). Un’attitudine che Cuba ha mantenuto negli anni per rompere l’accerchiamento e contrastare le menzogne dei grandi media. Capote ci ha raccontato la sua storia nel corso di un recente viaggio in Italia, invitato dall’Associazione nazionale di amicizia Italia-Cuba.


Com’è cominciata?
Stavo lavorando nella provincia cubana di Cienfuegos, che era in pieno sviluppo industriale e artistico, frequentata da giovani ingegneri, tecnici, intellettuali. Nonostante il bloqueo, ci eravamo ripresi dal «periodo especial», seguito alla caduta dell’Unione sovietica con cui avevamo scambi economici fondamentali. Nel ’96 mi hanno eletto vicepresidente di un’associazione indipendente di giovani artisti, che si chiama Hermanos Saiz, dal nome di un martire della rivoluzione. Avevo già pubblicato con un certo successo alcuni libri: 2 di racconti, Para divagar mientras llueve, e Juego de illuminaciones, e il romanzo El caballero illustrado, molto ben accolto dal pubblico e dalla critica. Nella sede dell’associazione passavano almeno 100 giovani ogni giorno, studenti universitari, lavoratori, si faceva molto cinema e teatro. Fin da quando avevo vent’anni ho visto arrivare a più riprese rappresentanti di ONG dietro le quali c’era la
USAID, l’Agenzia per lo sviluppo internazionale con sede a Washington. Una volta venne un certo Denis, giornalista di Paris Match. Ci proponevano di creare un movimento letterario con la promessa di contratti milionari all’estero, a condizione che scrivessimo quel che volevano sulla realtà di Cuba costruendo «nuove linee», ovvero la propaganda più grossolana contro il nostro paese. Facevano leva sulla vanità, sulle difficoltà e sull’irruenza giovanile. Li abbiamo
mandati via. Allora mi hanno offerto 10.000 dollari per influire sul gruppo, promettendomi molto altro denaro. A quel punto la sicurezza cubana mi chiama e mi chiede cosa voglio fare: denunciare quelle manovre pubblicamente o lavorare per infiltrarmi nella Cia. Ho scelto la seconda via. Per uno della mia generazione era il massimo dell’onore, il lavoro della sicurezza cubana faceva parte del nostro immaginario eroico per la resistenza allo scontro con gli USA. Io da bambino volevo seguire le orme del Che, prepararmi alla guerriglia che non sono riuscito a fare. Non sapevo però quanto sarebbe stato difficile.


E com’è andata, com’è stato l’addestramento?


Un processo lento e prudente perché alla CIA sono molto professionali e basta poco per farsi scoprire. A volte passava anche un anno senza che avessi un contatto, poi ne avevo uno quasi quotidiano. Ho accettato di creare un’agenzia letteraria e una fondazione per la libertà per influire sugli scrittori, come volevano. Per mia fortuna, non mi chiedevano di mostrarmi diverso, né di frequentare gli «oppositori», di cui peraltro non mostravano alcuna stima. Li consideravano inetti e profittatori. A loro conveniva qualcuno che restasse all’interno, conquistasse la fiducia di artisti e studenti, e costruisse «nuovi leader» instillando veleno, magari offrendo profumate borse di studi in qualche paese l’Europa o negli Usa a giovani preferibilmente mediocri e manipolabili perché diffondessero menzogne all’estero. Io ero professore in scienza dell’educazione. All’Avana ero diventato segretario del sindacato dei lavoratori della cultura, quarantamila lavoratori, grafici, artisti, tutto il mondo della cultura, per loro era molto importante. Gli interessava vi fosse un gruppo di pensiero favorevole alla Cia negli spazi informali, come La hora del trobador, che noi usiamo molto. A fianco della sovversione armata, costruiscono quella ideologica. Noi vogliamo costruire l’uomo nuovo, loro quello capitalista. Portano la guerra sul terreno delle idee su cui pensano di vincere nel mondo. Quando li scopriamo, cerchiamo di controllarli e utilizzarli.

 

Che figure sono gli emissari CIA?


Con la sicurezza avevamo messo le cose in modo che fosse normale, in quanto scrittore, accettare gli inviti pubblici dell’ambasciata nordamericana e frequentare giornalisti stranieri. Uno dei miei contatti è stato Anthony Boadle, ex capo dei corrispondenti della Reuters, poi l’ufficiale di intelligence Mark Sullivan, altri meno assidui come una studentessa universitaria o esponenti di ONG. La più capace mi è parsa Kelly Keiderling, prima segretaria di stampa e cultura della SINA, la sezione d’interesse degli USA all’Avana, un ruolo quasi sempre ricoperto a agenti di intelligence. Proveniva da una famiglia di CIA. Ha creduto di manipolarmi frequentando la mia famiglia, facendo regali ai miei figli. Ci siamo frequentati molto.


E che effetto fa vivere a lungo su un doppio binario psicologico?


Ho conosciuto dei veri fascisti, altri che sembravano sinceri democratici, uno ammirava persino il Che. Tutti, però, ferocemente anticomunisti. Non sono abituato a tagliare le cose con l’accetta, penso che l’essere umano possa cambiare e con alcuni di loro forse avrei potuto avere buone relazioni in un altro contesto. Con altri decisamente no, e dovevo pensare al mio paese. Il primo segretario politico-economico della diplomazia all’Avana, James Benson, nell’aprile 2008 venne a casa mia per consegnarmi del materiale importante, noto come Bgan, che permette la connessione a internet per via satellitare, impossibile da intercettare. Come quello sequestrato alla spia
Alan Gross, ancora nelle nostre mani. Per quella via dovevo trasmettere informazioni cifrate sulla società cubana. Quello era l’apice del progetto Genesis, che mi avevano dato da dirigere. Dovevo capire qual era il momento adatto per preparare azioni concrete.


Altri attentati?


In questo caso «rivolte popolari» nel centro dell’Avana che, con adeguata copertura mediatica, avrebbero dovuto motivare un intervento esterno «in difesa della libertà». Nell’agosto del 2006, durante la malattia di Fidel, credevano ci fossero le condizioni. Solo che il loro valoroso «combattente per la libertà» che avrebbe dovuto dirigere la protesta, Darsi Ferrer, ha preferito rifugiarsi in casa di un diplomatico nordamericano il giorno prima. Una precedente delusione l’hanno avuta quando hanno creato una simulazione di «elezioni democratiche» facendo votare gli oppositori in cambio di pacchi e regali. E mettendogli un timbro sulla mano per evitare che tornassero a prenderli due volte. Solo che avevano messo sulle schede anche il partito socialista e comunista, che sono risultati i più votati. Ragionano per stereotipi, credono che Cuba sia chiusa e arretrata e che non vi sia consenso, e regolarmente vengono respinti.

 

E così il governo ha deciso di «bruciarla».


Prima me lo hanno chiesto, la scelta è sempre volontaria. Con me sono stati «bruciati» altri compagni infiltrati. Dopo è stato difficile ritrovare gli amici che avevo dovuto allontanare, ma ho ricevuto una grande solidarietà e gratitudine. Nel documentario Las razones de Cuba abbiamo mostrato le prove raccolte circa i diversi piani di ingerenza e sovversione. Oggi per loro è prioritario lavorare sul consenso. Distribuiscono in modo clandestino le tv satellitari: programmate però solo su alcuni canali che si vedono negli USA, i più tossici. Vogliono costruire a Cuba una massa critica di giovani, magari anche simpaticamente «indignados», ma convinti che la soluzione sia il capitalismo e non il socialismo. Di fronte hanno però un paese che ha potuto resistere per tutti questi anni, affrontare una guerra economica, vivere senza niente e continuare a lavorare: perché crede nelle proprie capacità e in quello che ha costruito.