Un almendrón, due bandiere?

Messe davanti al parabrezza della macchina, rappresentano le opzioni, i simboli da scegliere

Enrique Ubieta Gomez http://www.granma.cu

boardn-almendron-23yl-1024x666Non c’è miglior luogo di lavoro per un sociologo che il sedile posteriore di un almendrón (auto USA degli anni ’50 adibita a taxi)  che ‘naviga’ per le strade di L’Avana. Schiacciato tra un’enorme signora con una bambina che hanno vestita da adulta -labbra dipinte, collana di perline e pantaloncini aderenti- e un giovane che guarda svogliato fuori dal finestrino, ma indossa un camice bianco ordinatamente piegato sulle gambe, osservo e ascolto ciò che accade.

Nel sedile anteriore si è posto comodamente un uomo che mostra i suoi muscoli e le sue catene d’oro. Tra questo e l’autista sopravvive una ragazza adolescente vestita in uniforme scolastica delle medie superiori, a cui sembra non importarle nulla fuori del suo cellulare. Sopra il cruscotto dell’auto ci sono due bandiere, una cubana ed una USA.

La signora accanto a me ringrazia il conducente per averci raccolto. Dice: “è che nessuno va verso la Vibora”. Per un attimo, il reggaeton di moda nel riproduttore dell’auto sembra annullare le sue parole. Ma il muscoloso improvvisamente sbotta in una risata: “tutti vanno per la Vibora, signora, ma dividono il viaggio in due per guadagnare di più”. Il conducente è buono, nel senso buono della parola, e aggiunge: “So che a quest’ora la gente è disperata e faccio salire tutti’. Il corpulento, che scende ribatte: “non essere sciocco, cogli il momento, sempre appare qualcuno disposto a pagare il doppio”. Il giovane medico lo guarda, ma non riesco a percepire i segnali che emettono i suoi occhi. Irrompe un silenzio imbarazzante che ci porta allo spazio etico di quel reggaeton.

Alcuni autisti, al passaggio fanno segno con la mano che arrivano vicino. Se uno risponde, si fermano. Ma non raccolgono nessuno che vada verso la Vibora o sino a Playa o al Campidoglio -a seconda dei diversi itinerari-, a meno che il passeggero proponga i 20 pesos o si trovi nella seconda metà del percorso. In questo modo è come burlano il prezzo massimo fissato dallo Stato per proteggere la popolazione. È vero che devono pagare le tasse, e meccanici (a volte senza scrupoli come loro), e la benzina o olio e pezzi di ricambio, ecc . E ciò nonostante, pulito prendono in un solo giorno, anche più di quello che quei disperati viaggiatori al mese.

Ci sono altri autisti, come quello del mio racconto, che appaiono come angeli salvatori per i meno disperati o quelli fortunati. Questo è già un uomo maturo. Sa che il suo compito quotidiano non è quello di fare soldi, ma fornire un servizio alla società per cui guadagna denaro; ha detto ad una donna anziana che salì, per un breve tratto, in macchina, al vedere che cercava, insicura, nel suo portafoglio, “non si preoccupi nonna, se non ha il denaro non importa”.

Non pretendo ridurre tutta la società al minimo spazio di un almendrón, che solo acquista rappresentatività nell’insieme dei suoi viaggi e passeggeri. Ma prenderò a modello quello scenario per la riflessione.

II

Il massimo profitto di pochi, è al di sopra della volontà e degli interessi della società?, della società socialista, voglio dire? Mi sono costruito una storia di vita per il giovane medico: può darsi che sia stato in consultorio di montagna, o in un ospedale urbano, o che si sia esposto, forse, durante il terremoto di Haiti o in uno dei paesi africani colpiti dall’epidemia dell’ ebola. Il suo stipendio è aumentato, è vero (l’autista di almendròn comunque ancora guadagna di più). Ha portato, da quei paesi, un po’ di denaro in questi paesi, che ha risparmiato come un buon padre di famiglia. Ma massimizzò i profitti?, quando gli è stato chiesto la sua disponibilità ad assistere i pazienti Ebola, pensò a massimizzare i profitti?, lo fece quando curava qualsiasi altro barcaiolo della capitale nel suo consultorio di famiglia o in un grande ospedale? Alcuni vogliono guadagnare di più a scapito dei bisogni degli altri, ma sono disposti a mettere i propri bisogni in gioco? che società vogliamo costruire?

Le due bandiere che l’autista o il padrone -non sempre sono la stessa persona- ha collocato davanti al parabrezza della vettura, rappresentano le opzioni, i simboli tra cui scegliere: due bandiere, due storie, due modi di vita. I simboli non permangono statici, con il decorrere del tempo aggiungono nuovi significati a quello che hanno avuto in origine; la bandiera dei fondatori degli USA non è l’attuale, anche se identica nelle sue forme e colori. Neppure lo è la bandiera cubana.

Quella USA, quella a stelle e strisce, ha incorporato il comportamento interno ed esterno del paese che rappresenta ed è oggi uno dei simboli mondiali più visibili dell’imperialismo. Dico questo, cosciente che la gente del popolo, da entrambe le rive, ha molto in comune. Ma in ogni bandiera, in ogni simbolo, si oggettiva una storia, al di là della volontà degli individui.

Ci sono cambi di rotta che determinano, a volte, cambi di bandiera: la Repubblica spagnola ebbe un’insegna diversa da quella che conosciamo oggi -è comune nello Stato spagnolo che i progetti di vita autonomi, si facciano rappresentare da bandiere diverse in base alla loro filiazione classista – ed alcuni simboli, come quello della svastica, raggiungono tale negatività storica che seppelliscono qualsiasi precedente contenuto.

Noi cubani non abbiamo dovuto cambiare simbolo, perché la nostra bandiera, la mambisa, esprime un concetto di Patria attuale, che aspira alla solidarietà ed alla giustizia sociale tra tutti i suoi cittadini. Ma la storia recente di Cuba ha arricchito quel simbolo. Quando uno straniero innalza la sua solidarietà con la Rivoluzione cubana e innalza, per questo, la nostra insegna appaiono in essa le aspirazioni dei rivoluzionari di tutti i tempi. A volte, alcuni latino-americano disegnano il volto del Che nella bandiera cubana; è un atto ridondante. Il Che e Fide, Mella e Guiteras, Martí e Maceo, sono già iscritti nei suoi colori e forme.

Suppongo che il proprietario o il conducente dell’almendrón non rivendichi, mettendo la bandiera a stelle e strisce, la sua essenza imperialista, ma la sua immagine seduttrice e neo-colonizzatrice: american way of life (il modo di vita americano). Confonde Hollywood con la società USA. Tuttavia, José Martí lottò affinché Nostra America potesse costruire una società diversa da quella USA. Come evidenziato da Roberto Fernandez Retamar, l’Apostolo non ebbe una visione completa, di quel paese, fino a quando si stabilì in esso: “Solo allora avrebbe saputo in che profonda misura nostra nostra America non solo è diversa da “l’America europea”, ma che non può realizzarsi che per altre vie di quelle che prenderanno gli USA'(1).

Queste bandiere simboleggiano anche due concezioni di vita in lotta: quella che privilegia il tenere e quella che privilegia l’essere. In quel sistema di valori, quello che pone un attore nella star system non sono le sue qualità istrioniche, il personaggio che ha interpretrato, se Amleto o Rambo, ma l’importo del pagamento ricevuto. L’origine della ricchezza è irrilevante: non importa se si è ereditata, o il risultato del gioco,se è rubata (in quanto non sia colto il ladro dal ‘colletto bianco’ o pistola in mano), se proviene da un matrimonio ‘fortunato’ o se è stata ammassata con talento e sforzo; in ogni caso, il “vincitore” sarà riverito per il loro denaro.

Non si supponeva che la nuova società sarebbe cominciata a costruirsi in un’isola, senza risorse naturali, povera e sotto vessazione economica e mediatica ma la scommessa è diversa: il socialismo non rifiuta il benessere materiale, ma aspira che ogni individuo abbia per ciò che è (ciò che apporta), perché il senso della vita lo determina l’essere.

Quando una persona che è, ed ha, arriva, nessuno si accorge del secondo. Di solito, quello che ha bisogno di mostrare ciò che possiede, non è sicuro di ciò che è o non se ne cura. Si tratta di un problema di priorità. Non rifiuto l’abbigliamento che è di moda, cara e di marca, se è comoda e bella per chi la usa. Per gusti, colori e abbigliamento. Il dilemma è un altro: farci servire dagli oggetti che acquistiamo, o servire gli oggetti; che essi esistano per farci la vita più comoda e bella, o vivere per essi, il che implica vivere per mostrare ciò che abbiamo.

Che un sorriso intelligente valga più che una catena d’oro, è anche parte della nostra tradizione culturale. José Martí lo spiega, in modo inseparabile, alla sua bambina María Mantilla. Se ho parlato di bandiere, simboli e concetti di vita, è perché i miei compagni di viaggio in almendrón, in qualche modo, consapevolmente o meno, si avvicinano o allontano da loro. Ricordare Marti, dopo un viaggio “a bordo” di un almendrón è compito utile:

(…) “E’ bello, affacciarsi ad una veranda, e vedere vivere il mondo; vederlo nascere, crescere, cambiare, migliorare, e d apprendere nella sua continua maestosità il piacere della verità e il disdegno della ricchezza e della superbia a cui sacrifica tutto, la gente inferiore ed inutili. E’ come l’eleganza, mia cara Maria, che sta nel buon gusto, e non nel costo. L’eleganza dell’abito; -quella grande e vera- sta nell’orgoglio e nella forza d’animo. Un’anima onesta, intelligente e libera dà al corpo più eleganza e più potere alle donne, che le mode più ricche mode dei negozi. Tanti acquisti, poca anima. Chi ha molto in sé, necessita poco fuori. Chi mostra tanto fuori, ha poco in sé e vuole nascondere questo poco. Che si sente la sua bellezza, la bellezza interiore, non cerca fuori bellezza prestata: sa di essere bella e . la bellezza emana luce (…) Lascia ad altre il mondo frivolo: tu vali di più. Sorridi, e passa”. (…) (2)

NOTE:

1. Roberto Fernandez Retamar: “La rivelazione della Nostra America” a Cuba Socialista, n ° 1, gennaio-aprile 2016, 4 °. tempo, p. 138

2. José Martí: Lettera a Maria Mantilla, 9 aprile 1895, in Opere Complete, T. 20, pag. 216-220

Un almendrón, ¿dos banderas?

Colocadas frente al parabrisas del carro, representan las opciones, los símbolos a elegir

Enrique Ubieta Gómez

No hay mejor lugar de trabajo para un sociólogo que el asiento trasero de un almendrón que «botea» por las calles de La Habana. Estrujado, entre una señora enorme con una niña a la que han vestido de adulta —labios pintados, collar de cuentas y pantaloncito ajustado—, y un joven que mira con desgano por la ventanilla, pero lleva una bata blanca cuidadosamente do­blada en las piernas, ob­servo y escucho lo que acontece. En el asiento de­lantero se ha acomodado a sus anchas un hombre que exhibe sus músculos y sus ca­denas de oro. Entre este y el chofer, so­brevive una adolescente vestida con el uniforme de secundaria, a la que parece no importarle nada fuera de su celular. Encima de la pizarra del carro hay dos banderas, una cubana y una estadounidense.

La señora a mi lado le agradece al chofer por habernos recogido. Dice: «es que nadie va para la Víbora». Por un momento, el reguetón de moda en la reproductora del carro parece anular sus palabras. Pero El Musculoso suelta de repente una carcajada: «todos van para la Víbora señora, pero dividen el viaje en dos para ganar más». El chofer es bueno, en el buen sentido de la palabra, y añade: «yo sé que a esta hora la gente está desesperada y recojo a todo el mundo». El fortachón, que se baja cerca, replica: «no seas bobo, aprovecha el momento, siempre aparece al­guien dispuesto a pagar el doble». El joven médico lo mira, pero no puedo percibir las señales que emiten sus ojos. Irrumpe un silencio incómodo que nos traslada al espacio ético de aquel reguetón.

Algunos choferes, al pasar, hacen con la mano la señal de que se quedan cerca. Si uno la reciproca, se detienen. Pero no recogen a nadie que vaya hasta la Víbora o hasta Playa o hasta el Ca­pitolio —según los diferentes itinerarios—, a no ser que el pasajero proponga los 20 pesos o se encuentre situado en la segunda mitad del trayecto. Así es como burlan el tope de precio establecido por el Estado para proteger a la po­blación. Es cierto que tienen que pagar impuestos, y mecánicos (a veces, tan inescrupulosos como ellos), y gasolina o petróleo y piezas de reposición, etc. Pese a todo, sacan en limpio en un día, tanto o más que lo que esos viajeros desesperados al mes.

Hay otros choferes, como el de mi cuento, que aparecen como ángeles salvadores para los menos desesperados o los con suerte. Este, es ya un hombre maduro. Sabe que su tarea diaria no es ganar dinero, sino prestar un servicio a la sociedad por el que gana dinero; le dijo a una anciana que se montó por un breve tramo en el carro, al ver que buscaba insegura en su cartera: «no se preocupe abuela, si no tiene el dinero no importa».

No pretendo reducir la sociedad toda al mínimo espacio de un almendrón, que solo adquiere representatividad en el conjunto de sus viajes y pasajeros. Pero tomaré de modelo ese escenario para la reflexión.

II

¿La ganancia máxima de unos po­cos, está por encima de la voluntad y de los intereses de la sociedad?, ¿de la so­ciedad socialista, quiero decir? Me construí una historia de vida para el joven médico: puede que estuviese en un consultorio de montaña, o en un policlínico urbano, o que se haya expuesto, quizá, durante el terremoto de Haití o en uno de los países africanos afectados por la epidemia del ébola. Su salario fue incrementado, es cierto (el botero, aún así, gana mucho más). Trajo de esos países algún dinero, que ahorró como buen padre de familia. Pero, ¿maximizó las ganancias?, cuando le pidieron su disposición para asistir a los enfermos de ébola, ¿pensó en maximizar las ganancias?, ¿lo hizo cuando atendía a cualquier otro botero de la capital en el consultorio de la familia o en un gran hos­pital? Algunos quieren ganar más a costa de la necesidad de los otros, pero, ¿están dispuestos a poner sus propias necesidades en juego?, ¿qué sociedad queremos construir?

Las dos banderas que el chofer o el dueño —no siempre son la misma persona—, ha colocado frente al parabrisas del carro, representan las opciones, los símbolos a elegir: dos banderas, dos historias, dos modos de vida. Los símbolos no permanecen estáticos, con el decursar del tiempo añaden nuevos significados al que les dio origen; la bandera de los fundadores de los Estados Unidos no es la actual, aunque sea idéntica en sus formas y colores. Tampoco lo es la bandera cubana.

La norteamericana, la de las barras y las estrellas, ha incorporado el comportamiento interno y externo del país que representa y es hoy uno de los símbolos mundiales más visibles del imperialismo. Digo esto, consciente de que la gente de pueblo, en ambas orillas, tiene mucho en común. Pero en cada bandera, en cada símbolo, se objetiva una historia, más allá de la voluntad de los individuos.

Hay cambios de ruta que determinan, a veces, cambios de bandera: la República española tuvo una enseña diferente a la que conocemos hoy —es común en el Estado español que los proyectos de vida autonómicos, se hagan representar por banderas diferentes según su filiación clasista—, y algunos símbolos, como el de la swástica, alcanzan tal negatividad histórica que sepultan cualquier contenido previo.

Los cubanos no tuvimos que cambiar de símbolo, porque nuestra bandera, la mambisa, expresa un concepto de Patria vigente, que aspira a la solidaridad y a la justicia social entre todos sus ciudadanos. Pero la historia reciente de Cuba ha enriquecido ese símbolo. Cuando un extranjero enarbola su solidaridad con la Revolución cubana y levanta para ello nuestra enseña, aparecen en ella las aspiraciones de los revolucionarios de todos los tiempos. A veces, algunos latinoamericanos dibujan el rostro del Che en la bandera cubana; es un acto redundante. El Che y Fidel, Mella y Guiteras, Martí y Maceo, están inscritos ya en sus colores y formas.

Supongo que el dueño o el chofer del al­mendrón no reivindica, al colocar la bandera de las barras y las estrellas, su esencia imperialista, sino su imagen seductora y neocolonizadora: el american way of life. Confunde Hollywood con la sociedad estadounidense. Sin embargo, José Martí luchó para que Nuestra América pudiese construir una sociedad diferente a la de los Es­tados Unidos. Co­mo ha destacado Ro­berto Fernández Re­ta­mar, el Apóstol no tuvo una visión completa de aquel país hasta que se asentó en él: «Solo entonces sabría en qué medida profunda nuestra América no solo es distinta de «la América europea», sino de que no puede realizarse más que por otras vías que las que tomaran los Estados Unidos» (1).

Esas banderas simbolizan también dos concepciones de vida en pugna: la que prioriza el tener y la que prioriza el ser. En aquel sistema de valores, lo que sitúa a un actor en el star system no son sus cualidades histriónicas, el personaje que ha interpretado, si Hamlet o Rambo, sino la cuantía del pago recibido. El origen de la riqueza es intrascendente: no importa si es heredada, o resultado del juego, si es robada (en tanto no sea atrapado el ladrón de «cuello blanco» o de pistola en mano), si proviene de un matrimonio «afortunado» o si fue amasada a base de talento y esfuerzo; en cualquier caso, el «triunfador» será reverenciado por su dinero.

No se suponía que la nueva sociedad empezaría a construirse en una isla sin recursos naturales, pobre y bajo hostigamiento económico y mediático, pero la apuesta es diferente: el socialismo no desestima el bienestar material, pero aspira a que cada individuo tenga según lo que es (lo que aporta), porque el sentido de la vida lo determina el ser.

Cuando una persona que es, y tiene, llega, nadie nota lo segundo. Por lo co­mún, aquel que necesita mostrar que tiene, no está seguro de lo que es o no le importa. Es un problema de prioridades. No rechazo la ropa que está de moda, cara y de marca, si es cómoda y bella para quien la usa. Para gustos, colores y prendas de vestir. El dilema es otro: hacernos servir por los objetos que adquirimos, o servir a los objetos; que ellos existan para hacernos la vida más cómoda y bella, o vivir para ellos, lo que implica vivir para mostrar lo que tenemos.

Que una sonrisa inteligente valga más que una cadena de oro, es también parte de nuestra tradición cultural. José Martí se lo explica, de manera insuperable, a su niña María Man­tilla. Si he ha­blado de banderas, de símbolos y de conceptos de vida, es porque mis compañeros de viaje en el almendrón, de alguna manera, sabiéndolo o no, se acercan o se alejan de ellos. Recordar a Martí, después de un viaje «a bordo» de un almendrón, es tarea útil:

(…) «Es hermoso, asomarse a un colgadizo, y ver vivir al mundo: verlo nacer, crecer, cambiar, mejorar, y aprender en esa majestad continua el gusto de la verdad, y el desdén de la riqueza y la soberbia a que se sacrifica, y lo sacrifica todo, la gente inferior e inútil. Es como la elegancia, mi María, que está en el buen gusto, y no en el costo. La elegancia del vestido, —la grande y verdadera—, está en la altivez y fortaleza del alma. Un alma honrada, inteligente y libre, da al cuerpo más elegancia, y más poderío a la mujer, que las modas más ricas de las tiendas. Mucha tienda, poca alma. Quien tiene mucho adentro, necesita poco afuera. Quien lleva mucho afuera, tiene poco adentro, y quiere disimular lo poco. Quien siente su belleza, la belleza interior, no busca afuera belleza prestada: se sabe hermosa, y la belleza echa luz. (…) Deja a otras el mundo frívolo: tú vales más. Sonríe, y pasa». (…) (2)

NOTAS:

1. Roberto Fernández Retamar: «La revelación de Nuestra América», en Cu­ba Socialista, No. 1, enero–abril 2016, 4ta. época, p. 138

2. José Martí: Carta a María Man­tilla, 9 de abril de 1895, en Obras Com­pletas, T. 20, p. 216-220

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