Venezuela: dove non cercare la verità

Ernesto Pérez Castillo https://lapupilainsomne.wordpress.com

Per cominciare dall’inizio, dobbiamo stabilire per primo che il fatto che il Venezuela bolivariano sia notizia non è una notizia. Non dovrebbe esserlo.

Quando tanti media -leggasi: agenzie di disinformazione- ci schiacciano minuto per minuto con le marce e le contro marce, le proteste e la repressione, almeno dovrebbe accettarsi, che c’è un interesse molto forte, di gente molto potente, affinché noi vediamo questo, noi crediamo in questo e accettiamo questo.


E’ noto che questi mezzi di informazione non si muovono gratuitamente né tanto meno per amore della verità. Sono gli stessi che riportarono sin alla nausea l’esistenza di un arsenale chimico nelle mani di Saddam Hussein, la scusa per gli sciocchi che scatenò l’invasione dell’Iraq, che risultò devastato a base di pure bombe senza che poi nessuno abbia trovato nulla di quello (ADM ndt) né si sia tornato a parlare della questione.

Ma più da vicino sono gli stessi media che guardano altrove quando si reprime con furia gli studenti cileni che richiedono miglioramenti nel sistema di istruzione, o quando brutalmente si castiga, in Messico, i genitori dei 43 di Ayotzinapa che solo vogliono sapere dove sono i loro figli scomparsi; o prima hanno mantenuto il più obbediente, complice e colpevole dei silenzi di fronte a Stroessner, Somoza e Pinochet.

Quando si è vissuto per più di 40 anni in questa isola, sempre sotto assedio, oh coincidenza!, dagli stessi media -e su ordine dello stesso padrone- uno per natura tende a diffidare, a sospettare, a intuire che ciò che si pubblica oggi sopra il Venezuela -come quello pubblicato da sempre su Cuba- quasi mai è la verità, e che la verità di ciò che lì sta accadendo non è ciò che appare nel perfetto bianco e nero dei titoli che arrivano da tutte le parti.

Già nel lontano 1898, dopo l’esplosione mai ben chiarito della corazzata Maine all’Avana, William Randolph Hearst (magnate della stampa USA che controllava i giornali Examiner e Morning Journal) inviò a Cuba il suo vignettista Frederick Remington affinché riportasse la debacle, ma questi riuscì soltanto a riferire: “Tutto è calmo. Non ci sarà nessuna guerra. Ho voglia di tornare”. Cioè, sull’isola non accadeva niente. Allora Randolph Hearst, in un momento di ispirazione divina, gli rispose con un telegramma che gettò le basi di come si fa il giornalismo, questo giornalismo, fino ad oggi: “Tu mandami le immagini che io farò la guerra”.

Così le cose, anche in questa fase del gioco, quando all’Avana l’ “opposizione” realizza alcune delle sue camminate domenicali lungo la Quinta Avenida del molto tranquillo quartiere di Miramar, se ci si avvicina, vedrà lì più giornalisti stranieri scortandole e scattando loro foto che oppositori manifestanti.

Qualcosa del genere, dettaglio più dettaglio meno, accade in Venezuela. Molto costa accettare che tanto cocktail molotov e tanti bravacci incappucciati siano segnalati come pacifici manifestanti. Loro sono solo i subdoli attori del povero melodramma che si detta e si esige, dal nord, affinché la stampa, tale stampa, possa fare il suo lavoro.

Il resto, già si sa: i buoni sono quelli che vincono nel lungo periodo, se hanno la pazienza, la calma, la chiarezza, l’integrità e l’intelligenza per fare passo dopo passo il dovuto, con giustizia e con fermezza.


Venezuela: Dónde no buscar la verdad.

Por Ernesto Pérez Castillo

Para empezar por el principio, habría que establecer primero que el hecho de que la Venezuela Bolivariana sea noticia, no es noticia. No debería serlo. Cuando tantos medios de prensa —léase: agencias de desinformación— nos machacan minuto a minuto con las marchas y las contramarchas, las protestas y la represión, al menos tendría que aceptarse, es evidente, que hay un interés muy marcado, de gente muy poderosa, en que veamos eso, creamos en eso y aceptemos eso.

Es sabido que esos medios noticiosos no se mueven de gratis ni mucho menos por amor a la verdad. Son los mismos que reportaron hasta el cansancio la existencia de un arsenal químico en las manos de Saddam Hussein, la excusa para tontos que desató la invasión a Iraq, que resultó devastado a puras bombas aunque después nadie encontró nada de aquello ni se volvió a hablar del asunto.

Pero más de cerca, son los mismos medios que miran a otra parte cuando se reprime con furia a los estudiantes chilenos que exigen mejoras en el sistema educativo, o cuando con saña se castiga en México a los padres de los 43 de Ayotzinapa, que solo quieren saber dónde están sus hijos desaparecidos; o antes guardaron el más obediente, cómplice y culpable de los silencios ante Stroessner, Somoza o Pinochet.

Cuando se ha vivido por más de 40 años en esta Isla, siempre asediada, ¡oh casualidad!, por esos mismos medios —y por orden del mismo amo—, tiende uno por naturaleza a desconfiar, a sospechar, a intuir que lo que se publica hoy sobre Venezuela —como lo que se ha escrito desde siempre sobre Cuba—, casi nunca es la verdad, y que la verdad de lo que allí ocurre no es lo que aparece en el blanco y negro perfecto de los titulares que llegan a todas partes.

Ya en el muy lejano 1898, y tras la explosión nunca bien aclarada del acorazado Maine en La Habana, William Randolph Hearst (magnate de la prensa norteamericana que controlaba los diarios Examiner y Morning Journal) envió a Cuba a su dibujante Frederick Remington para que reportara la debacle, pero este solo consiguió informar: “Todo está en calma. No habrá guerra. Quiero volver”. O sea, en la Isla no pasaba nada. Entonces Randolph Hearst, en un rapto de inspiración divina, le contestó con un telegrama que sentó las bases de cómo se hace el periodismo, ese periodismo, hasta el sol de hoy: “Mande usted las imágenes, que yo pondré la guerra”.

Así las cosas, todavía a estas alturas del juego, cuando en La Habana la “oposición” realiza alguna de sus caminatas dominicales por la Quinta Avenida del muy tranquilo barrio de Miramar, si usted se acerca, verá allí más periodistas extranjeros escoltándoles y tomándoles fotos que opositores manifestándose.

Algo como eso, detalles más, detalles menos, sucede en Venezuela. Mucho cuesta aceptar que tanto cóctel molotov y tanto bravucón encapuchado sean reportados como manifestantes pacíficos. Ellos son apenas los actores bajo cuerda del pobre melodrama que se dicta y se exige, desde el norte, para que la prensa, esa prensa, pueda hacer su trabajo.

Lo demás, ya se sabe: los buenos son los que ganan a la larga, si tienen la paciencia, la calma, la claridad, la integridad y la inteligencia para hacer paso a paso lo debido, con justicia y con firmeza.

Share Button

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.