Una risposta a chi da sinistra sostiene i roghi in Venezuela

di Geraldina Colotti*

Sul Venezuela, ormai, si legge di tutto. Spuntano “esperti” di ogni bordo a straparlare di “dittature caraibiche” anche per un paese che il dittatore – Marco Pérez Jimenez – l’ha cacciato nel 1958.

Si dimentica che, proprio durante l’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra, durata da allora e fino alla vittoria elettorale di Chavez (1998) e con l’esclusione dei comunisti dal governo, quelle “democrazie” molto lodate da Washington e dall’Europa buttavano gli oppositori giù dall’aereo: prima che Videla e soci lo facessero in Argentina. Si dimentica che lì c’è stata una lotta armata di sinistra proprio contro quelle democrazie nate dal Patto di Punto Fijo. Si dimentica che l’irruzione del blocco sociale che ha portato alla vittoria Hugo Chavez ha scompaginato anche il modo d’intendere la sinistra e la rappresentanza istituzionale tradizionale, basata sulla “democrazia rappresentativa”.

Se in Italia noi abbiamo avuto il Movimento 5 Stelle, che del grande Novecento e dell’anticapitalismo non vuole sapere, lì è successo il contrario: sinistra diffusa e guerrigliera, “moltitudini” organizzate, partiti comunisti e di sinistra variamente modulati, associazionismo, vecchi e nuovi movimenti, si sono fusi in un’alchimia di nuovo tipo, ma di antiche basi (le cosmogonie indigene, il cristianesimo primitivo, il marxismo, soprattutto gramsciano…).

Per intendere “l’istituito” bolivariano, le sue mediazioni e i suoi limiti, non servono metafisiche, non servono “pruderie” neocoloniali. A ogni latitudine, il marximo insegna che il fenomeno è sempre più ricco della legge: anche per chi pontifica dal proprio cellulare, incendiando le chat. Bisogna saper guardare attraverso i roghi. Se brucia un autobus in Brasile, non è lo stesso che brucia in Venezuela: non sono gli stessi attori ad accendere i fiammiferi, diversa è la molla (e la mano) che li spinge, diverse le finalità e i progetti. In Brasile, si lotta contro i grandi poteri e anche contro quella parte di “sinistra perbene” che li ha lasciati fare. In Venezuela, i dati sono capovolti. A bruciare i trasporti pubblici e le istituzioni pubbliche (gratuite) e anche chi è di pelle scura, non sono ribelli delle classi popolari, insofferenti delle burocrazie bolivariane, sono i poteri forti che vogliono riprendersi tutta la torta.

Sovente, la legittima critica al “potere costituito” e a chi, dalle nostre parti, vi si accomoda e lo difende per mantenere interessi obliqui, caste o burocrazie, fa perdere di vista la realtà e il contesto.

E contribuisce a mettere una pietra tombale proprio su quelle esperienze innovative, autogestionarie e prospettiche che sono l’ossatura vera del laboratorio bolivariano: e che si suppone debbano muovere anche la “critica-critica” rivolta al socialismo venezuelano da certe componenti europee. E così, per esempio, si arriva a paragonare le “zone economiche speciali” ad altissimo sfruttamento capitalista dell’Honduras e di altri sud del mondo con la proposta, sostanzialmente diversa, presentata in questi ultimi due anni dal governo Maduro. Ci si informi, per favore. Per chi non è andato sul posto, il sito del ministero del Lavoro offre dati e mappature. Ci si informi, per favore, sul controllo del “potere popolare” – indigeno, associativo, ecc – sullo sfruttamento dell’arco minerario, dove pullula l’estrattivismo illegale e paramilitare. Ci si informi dai collettivi, dalle comunas, dai movimenti – anche critici – verso quella parte di “borghesia bolivariana”, che probabilmente si accomoderebbe anche nel ritorno del neoliberismo più bieco.

L’intero “esperimento bolivariano” si basa sulla scommessa di coniugare “elementi di socialismo” (anche avanzati) con la realtà di un capitalismo che si prova a controllare o a contenere: con azzardi ed errori, certo, ma in una dinamica di incursioni e sottrazioni che mira a depotenziare dall’interno la struttura dello Stato borghese. Piaccia o meno, è questa la scommessa. E il dato più interessante è la volontà di voler “risolvere” in questa nuova sperimentazione grandi temi rimasti in sospeso nella storia del movimento operaio internazionale: il rapporto tra municipalismo e statalismo, tra comunas e nazionalizzazioni, quello tra conflitto e consenso fortemente accentato dal pensiero di Gramsci.

Avete mai visto un presidente e un vicepresidente occupare le fabbriche insieme agli operai quando i padroni fuggono con la cassa e lasciano senza lavoro e stipendio migliaia di lavoratori? In Venezuela succede. Che poi quelle occupazioni non producano per incanto tutti i risultati sperati, è un altro paio di maniche. Avete mai pensato a cosa significhi per un paese con tante risorse ma dipendente dall’esterno per l’alta tecnologia formare dei quadri competenti all’altezza del livello esistente nel capitalismo mondiale? Persino l’adesione convinta alla teoria del “capitalismo cognitivo” dovrebbe portare a riflettere. E invece no.

Perché quando il potere costituente diventa potere costituito e una volta tanto a sinistra, bisogna subito sparare a zero, anche se il Venezuela non è la Francia, né l’Italia, non è la Russia di Lenin né la Cuba di Fidel Castro? Tutto pur di consolarsi nella propria assenza di incisività sui rapporti di forza tra le classi? Non contro i popoli che hanno cercato una propria strada nella completa assenza di proposta nei nostri paesi bisognerebbe sparare a zero, ma contro i governi occidentali, contro “l’unità nazionale” che si rinnova per attaccare il Venezuela bolivariano: con la stessa logica con cui si perpetua nei decreti Minniti l’emergenza contro gli anni ’70.

Dietro l’autobus (con i passeggeri dentro), dietro l’ambulatorio pubblico (con i medici cubani dentro) che brucia in Venezuela c’è la necessità imperialista di distruggere il “cattivo esempio”: quello che si può ancora far pagare un prezzo a quelle 60 famiglie che governano il mondo. E che hanno nomi e cognomi, interessi occulti e palesi anche in Italia e in Europa. Provate a chiedervi perché vi piacciano le Damas en blanco del Venezuela, con le loro pelli bianche e truccate, amiche di Trump e di Casini e del Pd che difende i costruttori. Per loro, che interpretano il sentimento rabbioso delle oligarchie latinoamericane, “le chaviste sono tutte brutte, sporche e malvestite”, ed è insopportabile vedere le indigene in cattedra e non  a pulire il sottoscala.

Perché le “femministe” di Se non ora quando – interclassiste e bipartisan – plaudono alle Damas en blanco venezuelane, mentre le compagne di Ni una Menos del Venezuela stanno dall’altra parte? Le manifestazioni femministe, ambientaliste, operaie, studentesche, quelle dei movimenti Lgbtqi che si vedono quotidianamente in Venezuela in difesa dell’Assemblea costituente e del governo Maduro sono composte tutte da burocrati interessati?

La strategia della confusione fa parte delle guerre di nuovo tipo, che agitano i conflitti del post-novecento. Frullare il senso critico, sviarlo e paralizzarlo è di certo una grande vittoria del capitalismo: la più efficace azione di “pompieraggio” restaurativa, diretta proprio contro il più benintenzionato e antisistemico degli “incendiari” nostrani.

*Post facebook del 29 maggio 2017

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