Il sabotaggio silenzioso, che Cuba non dimentica

Alejandra García http://www.granma.cu

Fu un incubo. Ai corpi di guardia cominciarono ad arrivare, ad ondate, bambini e poi adulti, con gli stessi sintomi che sembravano un comune raffreddore e che peggioravano quando la malattia era trattata come tale. In pochi giorni, alla fine di maggio del 1981, tutti gli ospedali e policlinici dell’isola stavano assistendo alla più letale delle epidemie fino a quel momento vissute, negli anni della Rivoluzione, senza neppure sapere da dove venisse quella malattia né come fermarla.

Il municipio della capitale, Boyeros, nella zona vicino all’aeroporto “José Martí”, registrò i primi casi. Da allora, nel corso dei mesi successivi, la febbre del dengue emorragico, introdotta a Cuba dalla Central Intelligence Agency (CIA) USA, avrebbe colpito 344203 persone in tutto il paese.

Subito dopo i primi casi di Boyeros, nella capitale si stava diffondendo il virus in forma quasi esplosiva, dice a Granma José González Valdés, professore titolare consulente dell’Università di Scienze Mediche della capitale che, nel 1981, era direttore dell’ospedale pediatrico di Centro Habana.

“I sintomi del dengue tipo 2, trasmessa dalla zanzara Aedes aegypti, stavano diventando comuni tra i bambini nella zona di Centro Avana e comuni limitrofi: sindrome febbrile, dolori retro-orbitali addominali e muscolari, eruzioni cutanee, mal di testa e astenia spesso accompagnati da multiple emorragie con vari gradi di gravità. Abbiamo subito avvisato i massimi livelli di Igiene ed Epidemiologia”, dice il dottore.

L’ospedale pediatrico di Centro Avana dai primi di giugno 1981 “si convertì, per così dire, nella sala di controllo per monitorare l’epidemia e per coordinare le azioni per affrontarla. Qui ebbero luogo le prime riunioni con partecipanti del Ministero della Salute Pubblica e Igiene ed Epidemiologia, microbiologi, ricercatori dell’Istituto di Medicina Tropicale “Pedro Kourí” e altri direttori e professori di ospedali pediatrici dell’Avana”, spiega.

Giornalmente, il Pediatrico riceveva tra i 400 e 500 pazienti, circa, “ma a volte raggiungevano i 1200 e 1300”, dice José González. In quei mesi, l’ospedale dovette organizzarsi in tre gruppi che lavoravano giornalmente fino alle 05:00 pm, e ogni gruppo rimaneva di guardia una volta ogni due giorni.

“Molti di noi rimanevamo in modo permanente”, dice a Granma Barbara Cristina Viñet Morales, allora infermiera del corpo di guardia dell’Ospedale Pediatrico di Centro Habana, attuale vice capo infermeria e una delle poche che ancora permane nel centro da quell’epoca.

Nei suoi 47 anni di esperienza come infermiera, Barbara non è mai tornata a vivere una situazione epidemiologica così drammatica come quella del 1981. “In quel momento, ad appena 22 anni, l’ospedale era la mia casa. Come madre, di due piccoli, non sopportavo vedere un bambino malato e non essere lì per aiutarlo, insieme con le loro famiglie”, ricorda l’infermiera.

Secondo il dottore, “tutto il personale medico del nostro ospedale si mantenne disponibile nella cura dei bambini malati e delle loro famiglie, per lo più molto umili. Il primo a mostrare preoccupazione fu il Comandante in Capo. Visitò, inaspettatamente, l’ospedale in nove occasioni. Era a conoscenza di tutto e sempre andava a vedere i bambini, per chiedere loro come si sentivano e che cosa avrebbero voluto studiare quando erano grandi. Loro rispondevano, ridevano e le famiglie si sentivano al sicuro, che potevano aver fiducia in lui e nei medici che curavano i loro piccoli”.

Per Bárbara Viñet, “questa fu la migliore esperienza di quei giorni, essere stata così vicino a Fidel. Una volta, mentre infermieri e medici facevano un giro dell’ospedale con il Comandante, siamo entrati in una sala di circa 40 letti. Lì tutti i bambini uscirono dalle tende ad ossigeno che utilizzavamo, all’epoca, e corsero ad abbracciarlo. Uno di loro gridò: “Pionieri per il comunismo” ed il resto spontaneamente rispose in coro: “Saremo come il Che” Fu molto emozionante”.

Nell’ospedale pediatrico si registrò il minor numero di morti della capitale durante l’epidemia (da fine maggio ai primi di settembre), con solo due morti. Ma secondo il medico e professore José González, “furono giorni molto difficile per tutti. Anche se si salvarono molte vite, perdemmo un bimbo di due anni e una bimba di sette”, aggiunge.

Barbara spiega a Granma che “uno dei miei più grandi traumi fu veder morire la bambina. Lei era di Santiago de Cuba ed era venuta a l’Avana in vacanza per visitare la zia, anch’ella infermiere presso l’ospedale. Non abbiamo potuto fare molto per la bambina. Il virus aveva indebolito troppo il suo sistema immunitario. Ricordarlo, ancora mi riempe di impotenza e di dolore “, aggiunge.

Questi fatti non furono isolati. Cuba da diversi anni affrontava attacchi biologici, destinati a danneggiare la salute del popolo e assestare un duro colpo all’economia nazionale. Il 1 giugno 1964, il Comandante in Capo Fidel Castro Ruz denunciò, per la prima volta, l’uso della guerra batteriologica contro il paese. Pochi giorni prima della dichiarazione, una grande quantità di oggetti luminosi, che scendevano dall’aria, allarmò la provincia di Sancti Spiritus.

Nella sua denuncia, pubblicata il 2 giugno 1964 sulla copertina del periodico Rivoluzione, il Comandante in Capo affermava che “testimoni oculari, tra cui membri delle Forze Armate Rivoluzionarie dimostrarono che si trattava di palloni di varie dimensioni (…) che si dissolvevano al contatto con il terreno, lasciando una sostanza gelatinosa (…) simile a quella che si usa nei brodi di coltura di batteri”.

Questo fu solo l’inizio di quello che si sarebbe convertita nella guerra “più brutale e disumana”, che sarebbe costata vittime e danni economici incalcolabili. “La mancanza di scrupoli dell’imperialismo (…) e la sua impotenza di fronte al consolidamento e al progresso della nostra Rivoluzione, lo possono portare a concepire le azioni più mostruose contro il nostro paese (…)”, diceva il leader storico nella sua dichiarazione.

Nel corso dei successivi anni colpirono il territorio nazionale la febbre porcina, la pseudo-dermatosi nodulare, la brucellosi del bestiame, il carbone e la ruggine di canna, la muffa blu del tabacco, la ruggine del caffè, il new castle e la bronchite infettiva del pollame di recinto, la congiuntivite emorragica, la dissenteria ed il dengue tipo 2.

Le indagini ed i minuziosi studi realizzati nel corso degli anni hanno dimostrato che ognuna delle epidemie fu volutamente introdotta nel paese.

Il dengue emorragico fu, di tutti i focolai, il più letale. Pochissime famiglie cubane sfuggirono all’epidemia che lasciò 344203 persone colpite, in tutto il paese, di cui 158 morirono -di loro 101 erano bambini sotto i 15 anni-.

Né il Dr. Gonzalez e né l’infermiera Barbara mai dimenticheranno quell’anno in cui videro il viso della peggiore delle guerre vissute da Cuba: quella biologica. “Difficilmente c’è una guerra più disumanizzante di questa”, conclude il Dr. González.


El sabotaje silencioso que Cuba no olvida

Alejandra García

Fue una pesadilla. A los cuerpos de guardia comenzaron a llegar en oleadas los niños y luego los adultos, con los mismos síntomas que parecían de un resfriado común y que se agravaban cuando la enfermedad era tratada como tal. En unos pocos días a fines del mes de mayo de 1981 todos los hospitales y policlínicos de la Isla estaban asistiendo a la más mortal de las epidemias hasta entonces vividas en los años de Revolución, sin que se supiera tampoco de dónde venía aquella enfermedad ni cómo detenerla.

El municipio capitalino de Boyeros, en la zona cercana al aeropuerto «José Martí» reportó los primeros casos. Desde entonces, y a lo largo de los próximos meses, la fiebre del dengue hemorrágico, introducido en Cuba por la Agencia Central de Inteligencia (CIA) de los Estados Unidos, afectaría a 344 203 personas a lo largo del país.

Inmediatamente después de los primeros casos de Boyeros, en la capital se fue propagando el virus de forma casi explosiva, cuenta a Granma José González Valdés, profesor titular consultante de la Universidad de Ciencias Médicas de la capital, quien en el año 1981 fungía como director del hospital pediátrico de Centro Habana.

«Los síntomas del dengue tipo 2, transmitido por el mosquito Aedes aegypti, se fueron volviendo común entre los niños de la zona de Centro Habana y los municipios aledaños: síndrome febril, dolores retroorbitarios, abdominales y musculares, rash, cefalea y astenia, frecuentemente acompañados de múltiples hemorragias con diferentes niveles de gravedad. Avisamos al momento a las máximas instancias de Higiene y Epidemiología», comenta el doctor.

El hospital pediátrico de Centro Habana desde los primeros días de junio del año 1981, «se convirtió, por decirlo de algún modo, en el puesto de mando para darle seguimiento a la epidemia y coordinar las acciones para enfrentarla. Aquí tuvieron lugar las primeras reuniones con participantes del Ministerio de Salud Pública e Higiene y Epidemiología, microbiólogos, investigadores del Instituto de Medicina Tropical “Pedro Kourí” y otros directores y profesores de hospitales pediátricos de la Ciudad de La Habana», explica.

Diariamente, el Pediátrico recibía entre 400 y 500 enfermos, aproximadamente, «pero en ocasiones llegaban a 1 200 y 1 300», asegura José González. En aquellos meses el hospital tuvo que organizarse en tres grupos que trabajaban diariamente hasta las 5:00 p.m., y cada grupo se quedaba de guardia una vez cada dos días.

«Muchos nos quedábamos permanentemente », cuenta a Granma Bárbara Cristina Viñet Morales, en aquel entonces enfermera del cuerpo de guardia del Hospital Pediátrico de Centro Habana, actual subjefa de enfermería y una de las pocas que aún permanecen en el centro desde aquella época.

En sus 47 años de experiencia como enfermera, Bárbara jamás ha vuelto a vivir una situación epidemiológica tan dramática como aquella de 1981. «En ese momento, con apenas 22 años, el hospital era mi casa. Como madre que era, de dos pequeñas, no soportaba ver a un niño enfermo y no estar ahí para ayudarlo, junto a sus familias», recuerda la enfermera.

Según el doctor, «todo el personal médico de nuestro hospital se mantuvo pendiente al cuidado de los niños enfermos y de sus familias, en su mayoría muy humildes. El primero en mostrar preocupación fue el Comandante en Jefe. Visitó sorpresivamente el hospital en nueve ocasiones. Estaba pendiente de todo y siempre iba a ver a los niños, a preguntarles cómo se sentían y qué les gustaría estudiar cuando fueran grandes. Ellos contestaban, se reían y las familias se sentían seguras, que podían confiar en él y en los médicos que atendían a sus pequeños».

Para Bárbara Viñet, «esa fue la mejor experiencia en esos días, haber estado tan cerca de Fidel. Una vez, mientras enfermeros y doctores le dábamos al Comandante un recorrido por el hospital, entramos a una sala de aproximadamente 40 capacidades. Allí todos los niños salieron de las lonas de oxígeno que utilizábamos en esa época y corrieron a abrazarlo. Uno de ellos gritó: “Pioneros por el Comunismo” y el resto, espontáneamente, respondió a coro: “Seremos como el Che”. Fue muy emotivo».

En el hospital pediátrico se registró la cifra más baja de muertes de la capital durante la epidemia (de finales de mayo a principios de septiembre), con solo dos fallecidos. Pero, según el médico y profesor José González, «fueron días muy duros para todos. A pesar de que se salvaron muchas vidas, perdimos a un bebé de dos años y a una niña de siete», añade.

Bárbara explica a Granma que «uno de mis más grandes traumas fue ver morir a la niña. Ella era de Santiago de Cuba y había venido a La Habana de vacaciones a visitar a su tía, también enfermera del hospital. No pudimos hacer mucho por la pequeña. El virus había debilitado demasiado su sistema inmunológico. Recordarlo aún me llena de impotencia y dolor», añade.

Estos hechos no fueron aislados. Cuba llevaba varios años enfrentando ataques biológicos, destinados a afectar la salud del pueblo y asestar un duro golpe a la economía nacional. El 1ro. de junio de 1964, el Comandante en Jefe Fidel Castro Ruz denunció por primera vez el empleo de la guerra bacteriológica contra el país. Pocos días antes de la declaración, una gran cantidad de objetos brillantes que descendían por el aire alarmó a la provincia de Sancti Spíritus.

En su denuncia, publicada el 2 de junio de 1964 en la portada del periódico Revolución, el Comandante en Jefe aseguraba que «testigos presenciales, entre ellos miembros de la Fuerzas Armadas Revolucionarias, probaron que se trataba de globos de diversos tamaños (…), los cuales se disolvían al contacto con la tierra, dejando una substancia gelatinosa (…) similar a la que se usa en caldos de cultivo de bacterias».

Este fue solo el comienzo de lo que se convertiría en la guerra «más brutal e inhumana», que costaría víctimas y daños económicos incalculables. «La falta de escrúpulos del imperialismo (…) y su impotencia ante la consolidación y avance de nuestra Revolución, lo pueden llevar a concebir las acciones más monstruosas contra nuestro país (…)», decía el líder histórico en su declaración.

Durante los próximos años azotaron el territorio nacional la fiebre porcina, la seudodermatosis nodular bovina, la brucelosis del ganado, el carbón y la roya de la caña, el moho azul del tabaco, la roya del café, el new castle y la bronquitis infecciosa de las aves de corral, la conjuntivitis hemorrágica, la disentería y el dengue tipo 2.

Las investigaciones y los estudios minuciosos realizados a lo largo de esos años, demostraron que cada una de las epidemias fue introducida deliberadamente en el territorio nacional.

El dengue hemorrágico fue de todos los brotes el más mortal. Muy pocas familias cubanas se libraron de la epidemia que dejó a 344 203 personas afectadas en todo el país, de las cuales 158 fallecieron –de ellos 101 eran niños menores de 15 años–.

Ni el doctor González y ni la enfermera Bárbara olvidarán jamás aquel año en el que vieron el rostro a la peor de las guerras vividas por Cuba, la biológica. «Difícilmente haya una guerra más deshumanizada que esta», concluye el Dr. González.

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