Venezuela, colpa di Maduro?

Marco Teruggi, Hastaelnocau Venezuela Info

https://aurorasito.wordpress.com

Il 19 aprile 2013, quando Nicolas Maduro giurò da presidente, sapevamo che il peggio era passato. Il tentato golpe iniziato il 14 sera fallì, causando 11 omicidi e attacchi ai locali del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) e ai Centri di Diagnosi Integrale, aggredendone i leader con una serie di violenze nere. Fu il primo di quattro tentati colpi di Stato affrontati in quattro anni.

Attualmente, subiamo l’ultimo, in pieno svolgimento. Il Venezuela di quei giorni visse un periodo complesso: lutto di dieci giorni per Chavez, con un funerale con milioni di persone, Maduro e la sua vittoria elettorale ristretta, i ricordi epici di ottobre, la resistenza agli appelli all’odio di Radonsky Capriles. Tutto restava da vedere, ai margini dell’incertezza, di rado la storia era così aperta.

Iniziarono con gli attacchi e i quattro tentati golpe in quattro anni. Il primo nell’aprile 2013, il secondo a febbraio/marzo 2014, il terzo nell’ottobre 2016, il quarto a marzo/aprile 2017. Sì, bisognava, perché come dice Rodolfo Walsh, è la reazione del nemico che misura il nostro successo. Questo nemico ha smesso di attaccare. Ma il calcolo non era preciso: quattro tentativi d’insurrezione, ma il colpo di Stato è permanente, usurando ed andando oltre, era una guerra.

– Non hanno lasciato governare Maduro, diceva una signora in una dimostrazione. Niente di più vero. Neanche per un attimo. Va sottolineato, valutando questi anni, che il fattore imperialismo è al centro: il Venezuela era ed è l’obiettivo numero uno nel continente.

L’antimperialismo dovrebbe raccordare le sinistre e i progressisti nella difesa del Venezuela. E invece no. Molti hanno mollato negli ultimi tempi, riflettendo disinformazione, purismo, opportunismo, accettazione della prognosi di una sconfitta; meglio prendere le distanze per non esservi associati. E’ nei momenti più difficili che la rivoluzione è più isolata. In particolare Nicolas Maduro, accusato da molti di aver fatto fallire il processo di trasformazione sognato da una generazione, accusato di non reggerne l’eredità. Accuse dovute, volute o meno, alla tattica della destra di scaricare i mali su Maduro per ridicolizzarlo e screditarlo nella storia. Maduro andava distrutto dal giorno della sua vittoria.

Eletto dalla maggioranza, si candidò per volere di Hugo Chavez. Indossò la fascia presidenziale del processo che condensa tutto ciò che di più avanzato c’è nell’esperienza dei cambiamenti di questi tempo, affrontando allo stesso tempo difficoltà ed errori degli anni precedenti.

Va ricercata la genesi di queste tendenze nel passo del 2006. Va notato: i numerosi problemi affrontati dal governo di Maduro sono i vecchi problemi che Chavez segnalò il 20 ottobre 2012 nel discorso del “Colpo di Timone”. Era necessario correggerli, e ciò fu sintetizzato dall’espressione “comune o niente”. Assunse la presidenza con questa direttiva strategica. Lo fece guidando l’architettura governativa ereditata, lo storico nodo economico mai risolto, più o meno la dipendenza dalle rendite petrolifere, un movimento di massa nazionale e un nemico che non vedeva l’ora di assestargli un violento colpo per farlo cadere. Ma non è caduto. E’ rimasto a capo dello Stato e l’ha affrontato.

Il problema è analizzare questi quattro anni solo dalla sua figura, come se un processo politico possa esser spiegato attraverso un uomo. È un errore di analisi, un punto di vista politico piazzato dalla destra e un errore di comunicazione della fazione chavista che voleva, e dobbiamo insistere su questo punto, costruire un epico Maduro trascurando il resto, definendolo in modo artificiale. Tali linee si unirono facendone il governante colpevole. Così passarono sullo sfondo attori popolari, mediazione politica, movimenti sociali, contraddizioni nella transizione, interessi di classe contrapposti nel chavismo, logica manovriera dell’amministrazione, dispute di potere, burocrati e traditori, geopolitica, controffensive nazionale e imperialista.

La semplificazione è riflesso della seguente equazione: la rivoluzione dipendeva da Chavez e dal prezzo del petrolio. Una volta morto il primo e in caduta libera il secondo, il processo è finito. Ecco le chiavi dell’assenza di analisi, secondo cui la partita è perduta. Non c’era niente da fare. Il problema è che non solo i dati sono imprecisi, la crisi iniziò mesi prima che i prezzi del petrolio scendessero, il motivo del loro legame non è diretto, riducendo tutti il resto a spettatore. Le classi popolari, proprio quelle che il 12 e 13 aprile 2002 furono i protagonisti del ritorno di Chavez, sono diventate passive: non hanno coscienza, organizzazione, tensione con lo Stato, sono prive di capacità politica. Invece di vedere il bene e il male in Maduro, è più corretto considerarlo una delle parti più importanti della direzione civile-militare del processo di trasformazione. Non è la vittima di un assedio che non gli permette di governare, tesi quasi mitologica, né un attore onnipotente.

Il madurismo non esiste. Maduro stesso l’ha ripetuto. Il suo volto è parte della strategia di comunicazione della destra e degli opportunisti che facevano parte del chavismo. Con tale operazione si crea una frattura accusandolo di volersi creare un proprio potere tradendo il patrimonio storico, anche se vi si riferisce. Ciò implica che degli chavisti possono rivendicare la propria identità e opporsi al tempo stesso all’attuale governo, attraendo voti dalla destra. Ciò che esiste è la rivoluzione venezuelana. Al suo interno, e nella condotta, chi so prende la maggior parte dello spazio sono coloro che hanno deciso di cedere il potere a chi attacca la rivoluzione. Questa è lotta di classe interna, un dibattito cruciale è sorto. Rientra nel tutto. Ma c’è molto altro: settori che costruiscono movimenti sociali locali e cittadini, trasferiscono risorse ad esperienze organizzate, recuperano fabbriche tentando nuove forme di produzione, consegnano più di 1,5 milioni di case in sei anni, tracciano l’accordo di risoluzione collettiva dei problemi alimentari, fa esperienza nella milizia, ecc. Una rete complessa che non può essere ridotta a Nicolas Maduro, e neanche a Chávez.

Quale sarebbe il parametro per valutare la gestione del capo dello Stato? Come notò Chavez, sarebbe in funzione, pensando in termini socialisti, delle misure adottate dal governo per consolidare una “modalità sostanzialmente democratica di controllo sociale ed autogestione generale”. Chavez citò in questo caso Istvan Meszaros. Da questo punto di vista, si può dire a favore di Maduro lo sviluppo comunale sotto il suo mandato e la costituzione dei Consigli presidenziali di governo popolare, strumenti pratici di co-governo.

Qual è la loro situazione oggi? L’analisi dovrebbe comprendere non solo la “volontà” del presidente, ma anche la maturazione, o meno, delle forze popolari-comunali, l’azione del PSUV, le politiche ministeriali, attuate secondo logica dai ministri, più in termini di quote che per linea politica, le tensioni coi governatori e altri, ecc. chiarendo la complessità al centro del progetto chavista: la costruzione della società e del governo municipale. Se non ne è avanzato abbastanza, è colpa di Maduro?

Potremmo valutarne l’amministrazione da altre prospettive.

Una è aver evitato gli scenari violenti che la destra ha cercato in ciascuna delle quattro insurrezioni. La pace è stata una lotta vittoriosa: contro tale guerra si è rimasti nei limiti democratici, e si dovrebbe discutere dei limiti della democrazia nelle guerre ibride. Maduro ha mantenuto la pace, da Presidente della Repubblica e leader del chavismo. Oggi, 19 aprile, ancora si affronta tale sfida, lui e tutto il movimento. E’ tornato a governare in situazioni peggiori. Con la rivolta controrivoluzionaria, il petrolio a basso prezzo, i rapporti di forze invertiti nel continente e i demoni irrisolti del chavismo in tensione costante.

Visto in retrospettiva, la domanda sarebbe: chi avrebbe fatto meglio? Anche se questa domanda è una trappola perché rafforza implicitamente la tesi che dipenda da una sola persona. La rivoluzione ha un proprio labirinto e difendendo Maduro si potrebbe porre un’altra domanda: ha fatto ciò che ha fatto in questi quattro anni, ma cosa ha fatto chi dovrebbe radicalizzare il processo, rafforzarne lo sviluppo socialista? Perché occupa tanto spazio chi vede la trasformazione in uno Stato forte che realizza accordi con gli imprenditori mantenendo le politiche sociali? Quattro anni dopo va approfondito integralmente la chiave per risolvere le grandi sfide, riconoscere e discutere i successi e limiti del presidente come parte della direzione di un progetto avanzato che resiste agli attacchi dei golpisti e costruisce gli strumenti della transizione al socialismo. Non dovremmo chiedere a Maduro ciò che altri dovrebbero fare.

Ancora una volta, si deve dire: è indispensabile serrare le fila intorno a lui. L’unità del chavismo è una condizione per considerare la vittoria. Questa unità significa riconoscerne la leadership attuale. Il resto porta acqua ad un altro mulino, ed ora ce ne sono solo due.

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