Fidel tra due infanzie

Silvio Rodríguez http://www.cubadebate.cu

Ascoltai parlare di Fidel per la prima volta nella mia infanzia, ben prima del 1 gennaio 1959. A quel tempo il suo nome si diceva a bassa voce e, a volte, si percepiva nei mormorii degli anziani. Una notte lo sentii menzione alla radio, anch’essa a basso volume, in casa di alcuni parenti che avevano onde corte. Lì ascoltammo un’emittente clandestina che trasmetteva dalle montagne della Sierra Maestra, dove quel nome proibito ed i suoi amici combattevano, sparando, l’ esercito.

Così la prima cosa che appresi di Fidel è che, a volte, bisognava essere discreti: non si poteva pronunciare il suo nome, non si poteva dire che ascoltavamo quella emittente, come neppure si poteva dire che nella panetteria di fronte si vendevano bonus del 26 luglio. Per lo stesso motivo fu anche un segreto che, dei miei soldatini giocattolo, i miei affini erano i ribelli e che i loro nemici erano gli stessi nemici dei ribelli della realtà.

Appena due anni dopo del trionfo rivoluzionario, Fidel, per me, fu quel giovane uomo, energico e barbuto che pochi metri sopra la mia testa, sulla spiaggia di Varadero, salutava un esercito di insegnanti che all’alba sarebbe partito per i campi e le montagne di Cuba, armati di lanterne e libretti di alfabetizzazione.

Quello fu il primo discorso in diretta che gli ascoltai, e mi rimase il piacere, perché da allora spesso tornai ad essere vicino a dove Fidel si fermava per fare la storia. Anche durante il mio servizio militare, se qualcuno dei miei pochi permessi coincideva con un evento pubblico, lì c’ero io, il più vicino possibile alla tribuna. Posso dirvi che ero allo stadio in cui quel giovane colombiano, armato con la sua fisarmonica, ci fece conoscere ‘Cuba sì, yankee no’. Ed anche quella volta della scalinata universitaria, quando qualcuno omise la parola Dio in uno scritto di José Antonio Echeverría, e Fidel s’indignò e fece il memorabile discorso in cui nominò quelli di strette vedute come “monchi mentali”.

Confesso che quando Fidel parlò dei “elvispreslianos” mi sentii in conflitto, perché a me, da ragazzino, mi piacevano le canzoni e la chitarra di Elvis Presley. Pensai che le sue parole, più che alla musica, si riferivano a giovani inconsistenti, alieni alle urgenze del paese. Fu un punto scomodo, ma che mai mi mise in dubbio, perché le mie gerarchie sentimentali furono sempre mature.

La prima volta che stetti un po’ più vicino a Fidel, era tramite terzi. Mi riferisco a quando qualcuno vicino ebbe un incontro diretto con lui e potei ascoltarlo raccontare. Questo accadde la notte più difficile della Crisi d’Ottobre, quando il Capo della Rivoluzione incontrò alcuni dirigenti, tra cui i responsabili del settimanale Mella, dove lavoravo. Quella riunione era per informare in merito alla possibilità che, all’alba, Cuba soffrisse due impatti nucleari. L’idea di tale attacco -che secondo quanto lessi dopo fu di Robert Kennedy-, era dividere la nostra lunga isola in tre pezzi per facilitare un successivo sbarco. Un consiglio che si diede in quella riunione era che, quando si verificasse l’attacco, cercassimo di guardare verso ovest, per non essere accecati dal riverbero e poter resistere all’invasione nel terzo del paese che sarebbe rimasto.

Avevo 15 anni. Dopo aver ascoltato che il mondo sarebbe finito al mattino, quando i miei colleghi uscirono e rimasi solo, mi rifugiai sulla luna. Guardandola, qualcosa mi diceva che tutto quello era troppo perché fosse vero. Può essere che mi aiutasse a pensare così una conga demenziale che andava da Belascoain verso il basso, a due isolati da dove mi trovavo con il mio fuciletto. Ma la verità è che, mentre alcuni rimuginavano sul destino del mondo e altri celebravano che eravamo socialisti, Fidel era sveglio, organizzando la resistenza dopo l’ecatombe nucleare. Era lo stesso Fidel che in quel luogo, chiamato Cuatro Palmas, dopo l’arduo sbarco dallo yacht e della sconfitta di Alegria de Pio, disse ai pochi rimasti che ora avrebbero fatto la Rivoluzione. Lo stesso uomo che alcuni dei suoi compagni pensarono che fosse impazzito. Per questo credo che una delle cose che fece di Fidel essere Fidel fu la sua straordinaria lungimiranza, e la sua certezza che sempre c’è un dopo per continuare a lottare.

E forse perché io sono lontano dall’essere così -in quanto manco di tale grandezza- perché a me la realtà può giungere a schiacciarmi e anche a persuadermi, devo dire che questo presunto pazzo, tale incallito anticonformista, tale ribelle con causa mi reclutò sin dall’infanzia.

Ci sono altri angoli di Fidel, meno pubblici, che non smettono di essere molto seducenti: come quando confessa che ciò che più gli piacerebbe sarebbe fermarsi in un angolo o quando accetta la sfida di chi fa la migliore paella e si mette un grembiule o quando dice che gli sarebbe piaciuto essere poeta.

Sicuramente c’è una moltitudine di Fidel(es) che abitano lo stesso scheletro e plasmando l’uomo che ebbe l’energia e la fortuna di portare avanti una vita impegnativa, difficilmente comparabile, tanto autentica che trascinò con sé i suoi contemporanei e che, ancora oggi, convoca e somma pensieri. Perciò non dubito che c’è Fidel per molto tempo.

A meno che venga un altro periodo buio in cui altri ingiusti ottengano restituirlo ad un’altra montagna, ad un altro silenzio come quello di quando sentii il suo nome là, nella mia infanzia. Se questo velo cadesse, non ho alcun dubbio che Fidel torni a rompere il mutismo imposto e che un altro giorno, con un altro nome luminoso come quello di quel gennaio, tornerà ad ottenere la vittoria.

(tratto dal blog Segunda Cita)


Fidel entre dos infancias

Por: Silvio Rodríguez

Escuché hablar de Fidel por primera vez en mi infancia, bastante antes del primero de enero de 1959. Por entonces su nombre se decía en voz baja y a veces se percibía en los murmullos de los mayores. Una noche lo escuché mencionar en la radio, también a bajo volumen, en casa de unos parientes que tenían onda corta. Allí escuchábamos una emisora clandestina que trasmitía desde las montañas de la Sierra Maestra, donde aquel nombre prohibido y sus amigos se peleaban a tiros con el ejército.

Así que lo primero que aprendí de Fidel es que a veces había que ser discreto: no se podía decir su nombre, no se podía decir que escuchábamos aquella emisora, como tampoco se podía decir que en la panadería de enfrente se vendían bonos del 26 de julio. Por lo mismo también fue secreto que, de mis soldaditos de juguete, mis afines eran los rebeldes, y que sus enemigos eran los mismos enemigos de los rebeldes de la realidad.

Apenas dos años después del triunfo revolucionario, Fidel, para mí, fue aquel hombre joven, enérgico y barbudo que a unos metros por encima de mi cabeza, en la playa de Varadero, despedía a un ejército de la enseñanza que al amanecer partiría a los campos y montañas de Cuba, armados de faroles y cartillas de alfabetización.

Aquel fue el primer discurso en directo que le escuché, y se me quedó el gusto, porque desde entonces muchas veces volví a estar cerca de donde Fidel se paraba a hacer historia. Incluso cuando mi servicio militar, si alguno de mis escasos permisos coincidía con un acto público, ahí estaba yo, lo más cerca posible de la tribuna. Puedo contar que estuve en el estadio en que aquel joven colombiano, armado de su acordeón, nos dio a conocer Cuba sí, yanquis no. Y también aquella vez de la escalinata universitaria, cuando alguien omitió la palabra Dios de un escrito de José Antonio Echeverría, y Fidel se indignó e hizo el memorable discurso donde nombró a los estrechos de miras como “mancos mentales”.

Confieso que cuando Fidel habló de los “elvispreslianos” me sentí en conflicto, porque a mí, desde chiquito, me gustaban las canciones y la guitarra de Elvis Presley. Pensé que sus palabras, más que a la música, se referían a jóvenes que se la pasaban en la ingravidez, ajenos a las urgencias del país. Fue un punto incómodo, pero que nunca me puso en tres y dos, porque mis jerarquías sentimentales siempre fueron maduras.

La primera vez que estuve un poco más cerca de Fidel, fue a través de terceros. Me refiero a cuando alguien cercano tuvo un encuentro directo con él y pude escuchárselo contar. Esto pasó la noche más difícil de la Crisis de Octubre, cuando el Jefe de la Revolución se reunió con algunos dirigentes, entre ellos los responsables del semanario Mella, donde yo trabajaba. Aquella reunión fue para informar sobre la posibilidad de que, al amanecer, Cuba sufriera dos impactos nucleares. La idea de ese ataque –que según leí después fue de Robert Kennedy—, era dividir nuestra alargada isla en tres pedazos, para facilitar un desembarco posterior. Un consejo que se dio en aquella reunión fue que, cuando el ataque ocurriera, procuráramos mirar hacia el oeste, para no quedar ciegos por el resplandor y poder resistir la invasión en el tercio de país que quedaríamos.

Yo tenía 15 años. Después de escuchar que el mundo se acabaría por la mañana, cuando mis compañeros subieron y me quedé solo, me refugié en la luna. Mirándola, algo me dijo que todo aquello era demasiado para que fuera cierto. Puede que me ayudara a pensar así una conga demencial que iba Belascoaín abajo, a dos cuadras de donde yo estaba con mi fusilito. Pero lo cierto es que mientras unos cavilaban sobre la suerte del mundo y otros rumbeaban que éramos socialistas, Fidel estaba despierto, organizando la resistencia después de la hecatombe nuclear. Era el mismo Fidel que en aquel lugar llamado Cuatro Palmas, después del arduo desembarco del yate y de la derrota de Alegría de Pío, dijo a los pocos que quedaban que ahora sí iban a hacer la Revolución. El mismo hombre del que algunos de sus compañeros pensaron que se había vuelto loco. Por eso creo que una de las cosas que hizo a Fidel ser Fidel fue su extraordinaria capacidad de previsión, y su certeza de que siempre va haber un después para seguir luchando.

Y quizá porque yo disto de ser así –ya que carezco de esa grandeza–, porque a mí la realidad puede llegar a abrumarme e incluso a persuadirme, debo decir que ese supuesto loco, ese inconforme impenitente, ese rebelde con causa me reclutó desde la infancia.

Hay otros ángulos de Fidel, menos públicos, que no dejan de ser muy seductores: como cuando confiesa que lo que más le gustaría sería pararse en una esquina, o cuando acepta el reto de quién hace la mejor paella y se pone un delantal, o cuando dice que le hubiera gustado ser poeta.

Seguramente hay una multitud de Fideles habitando el mismo esqueleto y conformando al hombre que tuvo la energía y la suerte de llevar adelante una vida exigente, difícilmente comparable, tan auténtica que arrastró consigo a sus contemporáneos y que todavía hoy convoca y suma pensamientos. Por eso no dudo de que hay Fidel para muy largo rato.

A menos que venga otro período oscuro en el que otros injustos logren devolverlo a otra montaña, a otro silencio como el de cuando escuché su nombre allá, en mi infancia. Si ese velo cayera, no dudo que Fidel vuelva a romper el mutismo impuesto y que otro día, con otro nombre luminoso como el de aquel enero, volverá a obtener la victoria.

(Tomado del blog Segunda Cita)

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