Quando il Condor indossa la toga

di Geraldina Colotti

Aprile di scadenze e ricorrenze per l’America Latina. I colombiani hanno ricordato il Bogotazo del 9 aprile 1948. Allora, tre spari posero fine alla vita del popolare leader liberale Gaitan. Un omicidio deciso dall’oligarchia per stoppare un cambiamento politico nel paese. Nella rivolta seguita all’omicidio, durante la quale le forze di repressione spararono a più riprese sulla folla, vi furono circa 2500 morti. Un episodio che chiuse gli spazi di agibilità politica per l’opposizione in Colombia.


Una situazione che da allora perdura, tutti i tentativi di cambiare le cose da parte dei settori popolari organizzati sono finiti nel sangue. Tutti i tentativi di portare a soluzione politica una lotta armata durata oltre cinquant’anni e incarnata dalle due principali guerriglie – quella marxista delle Farc e quella guevarista dell’Eln – sono finiti nel sangue.

Sta succedendo così anche ora, dopo gli ultimi accordi di pace firmati dal presidente colombiano Manuel Santos con le Farc. Gli ex guerriglieri hanno mantenuto i patti, si sono trasformati in partito politico e contano di partecipare alle prossime elezioni. L’establishment, però, sta facendo di tutto per toglierli di mezzo. Ogni giorno aumenta il numero dei leader sociali, degli ex guerriglieri e dei loro familiari ammazzati.

Lunedì è stato arrestato Jesus Santrich, uno dei leader più importanti de la Fuerza Alternativa Revolucionaria del Comun, il partito delle Farc. Santrich, che è stato mediatore nelle trattative con il governo, è anche candidato al parlamento. Ma gli Stati uniti hanno deciso di toglierlo dalla competizione spiccandogli un mandato di cattura per narcotraffico. E la magistratura colombiana non si è fatta sfuggire l’occasione. Altri ordini di cattura stanno per essere spiccati. Santrich ha iniziato subito uno sciopero della fame.

Il nuovo Piano Condor, deciso da Washington per l’America latina, si serve oggi del killeraggio finanziario e anche di quello giudiziario. Lo ha denunciato nuovamente il presidente boliviano Evo Morales, ricordando gli attacchi attuati in questo modo contro quei presidenti o ex presidenti che, intorno all’asse Cuba-Venezuela, hanno cambiato il volto del continente, sottraendolo alle mire coloniali degli Usa e dell’Europa: Dilma Rousseff, Cristina Kirchner, Rafael Correa, Lula da Silva. E più che mai, ora, il Venezuela.

Lula, il più titolato candidato alla prossima presidenza del Brasile, è stato accompagnato in carcere da una moltitudine di persone che gli chiedeva di non consegnarsi. In molti hanno ricordato i giorni di Gaitan in Colombia. Ma il Pt, il Partito dei Lavoratori a cui appartiene Lula, non ha fatto ricorso all’insurrezione di piazza, ha scelto di affidare le sorti di Lula agli improbabili ricorsi legali. E intanto cresce l’arroganza delle destre e delle Forze armate brasiliane, ancora pesantemente intrise dell’eredità dell’ultima dittatura.

Ne ha dato prova anche un audio filtrato dall’aereo che ha portato in carcere Lula: “Butta giù questa spazzatura, che non torni più indietro”, si è sentito dire da un caposcorta.

Anche a Maduro sono arrivate minacce analoghe. Il suo aereo – si è detto – potrebbe essere abbattuto in volo, qualora decidesse di partecipare al Vertice delle Americhe che inizia il 13 a Lima. I paesi vassalli degli Usa hanno arbitrariamente deciso di espellere dal summit il presidente bolivariano. Intanto, golpisti venezuelani in fuga o in “missione” corrono dall’Europa agli Usa per chiedere ulteriori sanzioni e l’invasione del proprio paese. Si prefigura, minaccioso, il “modello siriano”: un simulacro di governo fuori dal paese con tanto di tribunale illegittimo pronto a “processare” il presidente in carica, la costruzione di una “crisi umanitaria” per invadere un paese sfinito dalle sanzioni economico-finanziarie che Trump e l’Europa vorrebbero ulteriormente acuire. Peccato, però, che in Venezuela, le Forze Armate sono al servizio del popolo e non dell’oligarchia.

Riguardo al Venezuela, l’obiettivo del vertice di Lima è quello di impedire le esportazioni di petrolio, principale fonte di introito del paese bolivariano. Intanto, un’Europa che non si fa scrupolo di respingere i migranti alle frontiere, sta seguendo le orme di alcuni paesi latinoamericani. Stanzia finanziamenti e istituisce corridoi preferenziali per l’immigrazione politica proveniente dal Venezuela: istituendo leggi analoghe a quelle che hanno favorito gli anticastristi fuoriusciti da Cuba. Il governo peruviano ha vietato l’ingresso a Maduro ma ha spalancato le porte agli oltre 500 militari Usa che accompagnano Trump nel suo primo viaggio in America latina. La sua seconda tappa, sarà la Colombia, che nel continente svolge un ruolo analogo a quello di Israele in Medioriente.

In ballo, c’è l’egemonia del dollaro, fortemente messa in causa dall’azione congiunta di Cina, Russia e Venezuela che hanno istituito monete alternative per la vendita del petrolio e di altri preziosi minerali.

“Si comunica all’Interpol che Maduro è stato sequestrato dai venezuelani che hanno deciso di tenerselo come presidente per altri sei anni”, scherzano i compagni sulle reti sociali per ricordare le elezioni del prossimo 20 maggio in Venezuela. Una scadenza che i poteri forti vogliono a tutti costi impedire, annunciando in pompa magna che, in ogni modo, non riconosceranno i risultati del voto.

Il 13, quando inizia il vertice di Lima, in Venezuela si ricorderà che il popolo ha riportato in sella il proprio presidente dopo il golpe contro Chavez dell’11 aprile 2002. A differenza di quanto accade in Brasile, la direzione del Partito socialista unito del Venezuela conta soprattutto sul potere popolare. E sulla solidarietà internazionale. Non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo fare la nostra parte.

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