Venezuela: Trump va alla guerra

Le riunioni nelle quali Trump ha prospettato un’invasione militare del Venezuela

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Trump ha fatto pressione sui suoi consiglieri affinché sostengano un intervento

L’agenzia di notizie, Associated Press (AP), ha diffuso, oggi, un’informazione dove rivela che il presidente USA, Donald Trump, ha fatto pressioni sui suoi consiglieri affinché avallassero la “possibilità d’invadere il Venezuela”, secondo un alto funzionario del suo governo al corrente di questa conversazione, realizzata in agosto dell’anno scorso.

Il dialogo ha avuto luogo dopo le elezioni dell’Assemblea Nazionale Costituente, quando Trump ha consultato i suoi consiglieri sulle sanzioni contro la Repubblica Bolivariana. In questo contesto, il presidente USA ha affermato che “se il Venezuela è una minaccia per la regione, perché, semplicemente, non lo invadiamo?”

Alcuni dei presenti a questo incontro, come l’ex segretario del Dipartimento di Stato, Rex Tillerson, ed il generale Hebert Raymond McMaster, ex direttore del Consiglio di Sicurezza Nazionale, si sono opposti all’idea argomentando che “un’invasione potrebbe essere controproducente e causare la perdita del sostegno regionale all’isolamento del governo di Nicolás Maduro”, secondo il cable firmato dal corrispondente dell’AP in Colombia, Joshua Goodman.

Tuttavia, la contro-argomentazione di Trump, a sostegno dell’idea dell’invasione, era basata sugli antecedenti degli interventi militari USA a Grenada e Panama, negli anni ’80. Anche senza emettere un ordine a favore di un’invasione, l’idea ha sorvolato, per un pò, la testa di Trump che, il giorno dopo la riunione, ha prospettato, in una conferenza stampa, che per il Venezuela non era esclusa “un’opzione militare”.

Le consultazioni con quattro presidenti latinoamericani sull’invasione

 

Tempo dopo, il presidente Trump è tornato alla carica con l’idea proponendola, direttamente, al suo pari Juan Manuel Santos, come hanno confermato ad AP due alti funzionari colombiani che neppure hanno voluto rivelare la loro identità. Il rifiuto di Santos è stato reso pubblico nelle successive dichiarazioni alla riunione.

Nonostante ciò, a settembre, a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU, il presidente USA ha consultato, in una cena privata con quattro presidenti latinoamericani, tra cui Santos, sulla possibilità di portare a termine un intervento militare in Venezuela. I quattro hanno respinto la proposta ed hanno affermato di essere sicuri di questa decisione dopo che Trump ha insistito sull’idea.

Questa versione dei fatti è stata supportata dai tre funzionari citati e dal media USA ‘Politico’ in febbraio. Secondo quest’ultimo, i presenti a detta riunione erano Michel Temer del Brasile, Juan Manuel Santos della Colombia, Juan Carlos Varela di Panama e la Vice Presidente dell’Argentina, Gabriela Michetti, ed altri alti funzionari e diplomatici di altri paesi della regione .

Alla fine l’ex direttore del National Security Council, H.R. McMaster, presumibilmente ottenne che Trump desistesse dall’idea di invadere il Venezuela.

Le ripercussioni immediate della proposta di invadere

 

Immediatamente dopo che l’ “opzione militare” è stata nominata da Trump, in agosto, paesi come Argentina, Brasile, Colombia, Messico, Uruguay e Perù l’hanno rifiutata ed hanno sostenuto una “soluzione diplomatica”, secondo la Reuters. Questa dissonanza era pubblica e nota, quindi la rivelazione di AP è credibile in quanto la possibilità di un intervento militare è stato al centro del dibattito pubblico dopo che l’amministrazione Trump ha imposto dure sanzioni contro il Venezuela.

Mentre i più autorevoli think tank della politica estera USA si sono dedicati allo smantellamento di questa idea.

Uno di loro era il Council on Foreign Relations, che per mano di Shannon K. O’Neill, sua principale ricercatrice per l’America Latina, ha detto che un’invasione sarebbe controproducente per gli USA, perché costringerebbe ad occupare il paese con 150 mila soldati ed aumenterebbe il suo discredito nella regione rispetto ai suoi alleati, molto di più se il Venezuela si convertisse in una palude come Iraq ed Afghanistan.

D’altra parte, Frank Mora, vice segretario aggiunto della Difesa USA per l’America Latina, tra il 2009 e il 2013, ha messo in guardia, sulla rivista ‘Foreign Affairs’, che un intervento militare in Venezuela distrarrebbe Washington da zone più calde e strategiche del mondo, come l’Asia ed il Medio Oriente. Oltre che comporterebbe l’invio di 200 mila soldati, 20 mila in più rispetto all’Iraq, senza la certezza di essere in grado di controllare completamente il paese, e garantire l’obiettivo di cambiare il corso politico della Repubblica Bolivariana nel lungo periodo.

Al di là di queste considerazioni, che non sono state prese in considerazione solo dai settori dell’opposizione, più ottusi, a favore di un intervento, la rivelazione di AP mette in luce il poco spazio che ha l’Amministrazione Trump per imporre piani ai suoi alleati più stretti nella regione. Nemmeno paesi come la Colombia ed il Messico, fortemente dipendenti dagli USA, hanno accompagnato questo tipo di proposta.

Ciò che, inoltre, si osserva nell’attuale contesto in cui, un mese dopo le elezioni presidenziali, non ci sono maggiori misure di peso economico contro il Venezuela, oltre a quelle imposte dall’Amministrazione Trump. Questo mette a nudo che la strategia di estrema durezza degli USA ha seri problemi nel far sì che attori regionali si mobilitino attraverso canali regolari.

Addirittura, recenti rivelazioni come quelle di AP e Bloomberg, su falliti colpi di stato ed invasioni sembrano puntare a rilanciare l’attenzione sul Venezuela, mentre si proietta una presunta fragilità del Governo Bolivariano di fronte alla possibilità di una minaccia esterna o cospirazioni nel seno militare. Tuttavia, in ultima analisi, sono una precisa radiografia della prevedibile brutalità ed improvvisazione con cui agisce l’Amministrazione Trump in America Latina, per essere sequestrata dall’ala più reazionaria ed anti-politica degli USA per quanto riguarda la regione.

Al contrario, i dati politici sottostante i cablo, come quello di AP, dimostra che il Venezuela ha molto più spazio di manovra nella diplomazia per mobilitare un consenso a suo favore. Forse da questo deriva l’insistenza del presidente Nicolás Maduro di promuovere un’istanza di dialogo nazionale, sostenuta da importanti attori internazionali, che isolino le posizioni più bellicose dell’amministrazione Trump.

Infine, sembrerebbe che la forzata durezza dell’Amministrazione Trump nei confronti del Venezuela ed Iran siano state concessioni alle lobby più reazionarie della politica estera USA. Soprattutto perché differiscono, in larga misura, dalla flessibilità che Trump mostra rispetto a questioni molto più aspre, dove avanza attraverso l’arena dei negoziati come nei casi di Russia, Corea del Nord e Cina.

In tutti questi casi, il modello di comportamento è simile in termini di misure altamente aggressive nei confronti dei paesi interessati (nel commerciale, finanziario ed economico), a cui succedono conversazioni ed accordi. Paradossalmente, questo modello di negoziazione difficilmente si trasla al Venezuela o all’Iran, nel breve periodo, dove Trump, chiaramente, avanza verso un tutto o niente. In questa ottica, sorge la domanda se il Venezuela abbia la capacità politica, a medio termine, di creare uno spazio negoziale che rompa questa falsa dicotomia.


La reuniones en las que Trump planteó una invasión militar a Venezuela

Trump presionó a sus asesores para que respalden una intervención

La agencia de noticias Associated Press (AP) emitió este miércoles una información donde revela que el presidente estadounidense Donald Trump presionó a sus asesores para que avalaran la “posibilidad de invadir Venezuela”, según un alto cargo de su gobierno familiarizado con esta conversación realizada en agosto del año pasado.

El diálogo se dio luego de las elecciones de la Asamblea Nacional Constituyente, cuando Trump consultó a sus asesores sobre las sanciones contra la República Bolivariana. En este marco, el presidente estadounidense afirmó que “si Venezuela es una amenaza para la región, ¿por qué simplemente no lo invadimos?”.

Varios de los presentes en esta reunión, como el ex secretario del Departamento de Estado, Rex Tillerson, y el general Hebert Raymond McMaster, ex director del Consejo de Seguridad Nacional, se opusieron a la idea bajo el argumento de que una “invasión podría ser contraproducente y provocar la pérdida del apoyo regional al aislamiento del gobierno de Nicolás Maduro”, de acuerdo al cable firmado por el corresponsal de AP en Colombia, Joshua Goodman.

Sin embargo, el contra-argumento de Trump para respaldar la idea de la invasión se basó en los antecedentes de las intervenciones militares de Estados Unidos en Granada y Panamá en la década del 80. Aún sin emitir una orden a favor de una invasión, la idea sobrevoló por un tiempo más por la cabeza de Trump, quien al día siguiente de la reunión planteó en una conferencia de prensa que para Venezuela no se descartaba “una opción militar”.

Las consultas a cuatro presidentes latinoamericanos acerca de la invasión

Tiempo después, el presidente Trump volvió a la carga con la idea al planteársela directamente a su par Juan Manuel Santos, según le confirmaron a AP dos altos funcionarios colombianos que tampoco quisieron revelar su identidad. La negativa de Santos fue pública en unas declaraciones posteriores a la reunión.

Pese a eso, en septiembre, al margen de la Asamblea General de la ONU, el presidente estadounidense consultó en una cena privada a cuatro presidentes latinoamericanos, incluido Santos, sobre la posibilidad de realizar una intervención militar en Venezuela. Los cuatro rechazaron la propuesta y afirmaron estar seguros de esta decisión después de que Trump insistiese sobre la idea.

Esta versión de los hechos fue respaldada por los tres funcionarios citados y por el medio estadounidense Politico en febrero. De acuerdo a este último, los presentes en dicha reunión fueron Michel Temer de Brasil, Juan Manuel Santos de Colombia, Juan Carlos Varela de Panamá y la vicepresidenta de Argentina, Gabriela Michetti, además de otros altos funcionarios y diplomáticos de otros países de la región.

Finalmente, el ex director del Consejo de Seguridad Nacional, H.R. McMaster, supuestamente logró que Trump desistiese de la idea de invadir Venezuela.

Las repercusiones inmediatas de la propuesta de invadir

Inmediatamente la “opción militar” fue nombrada por Trump en agosto, países como Argentina, Brasil, Colombia, México, Uruguay y Perú la rechazaron y abogaron por una “solución diplomática”, de acuerdo a Reuters. Esta disonancia fue pública y notoria, por lo que revelación de AP es creíble en tanto y en cuanto la posibilidad de intervención militar fue centro del debate público después de que la Administración Trump impusiese duras sanciones contra Venezuela.

Mientras que los tanques de pensamiento más influyentes de la política exterior estadounidense se dedicaron a desmontar esta idea.

Uno de ellos fue el Consejo de Relaciones Exteriores, quien en puño y letra de Shannon K. O’Neill, su investigadora principal para América Latina, afirmó que una invasión sería contraproducente para Estados Unidos porque obligaría a ocupar el país con 150 mil soldados y aumentaría su desprestigio en la región respecto a sus aliados, mucho más si Venezuela se convierte en un pantano como Irak y Afganistán.

Por otro lado, Frank Mora, subsecretario de Defensa Adjunto de Estados Unidos para América Latina entre 2009 y 2013, advirtió en la revista Foreign Affairs que una intervención militar en Venezuela distraería a Washington de zonas más calientes y estratégicas del mundo como Asia y Medio Oriente. Además de que implicaría enviar 200 mil soldados, 20 mil más que en Irak, sin la certeza de poder controlar completamente el país, ni asegurarse el objetivo de cambiar el rumbo político de la República Bolivariana en el largo plazo.

Más allá de estas consideraciones, que solo no fueron tenidas en cuentas por los sectores opositores más recalcitrantes a favor de una intervención, la revelación de AP pone de manifiesto el poco margen de maniobra que tiene la Administración Trump para imponer planes a sus aliados más cercanos en la región. Ni siquiera países como Colombia y México, altamente dependientes de Estados Unidos, acompañaron este tipo de propuesta.

Lo que, además, se observa en el contexto actual en el que, un mes después de las elecciones presidenciales, no existen mayores medidas de peso en lo económico contra Venezuela, más allá de las impuestas por la Administración Trump. Esto desnuda que la estrategia de extrema dureza de Estados Unidos tiene serios problemas para conseguir actores regionales que la movilicen por los canales regulares.

Incluso, revelaciones recientes como las de AP y Bloomberg acerca de fallidos golpes e invasiones, parecen apuntar a revivir la atención respecto a Venezuela, mientras se proyecta una supuesta fragilidad del Gobierno Bolivariano ante la posibilidad de una amenaza externa o conspiraciones en el seno militar. Sin embargo, en última instancia son una precisa radiografía de la previsible brutalidad e improvisación con la que actúa la Administración Trump en América Latina, por estar secuestrada por el ala más reaccionaria y antipolítica de Estados Unidos en lo que respecta a la región.

En contraste, el dato político subyacente a cables como el de AP demuestra que Venezuela tiene mucho más margen de maniobra en lo diplomático para movilizar un consenso hacia su favor. Quizás de esto derive la insistencia del presidente Nicolás Maduro de promover una instancia de diálogo nacional, respaldada por importantes actores internacionales, que aíslen las posiciones más beligerantes de la Administración Trump.

Por último, pareciera que la forzada dureza de la Administración Trump respecto a Venezuela e Irán fuesen concesiones a los lobbies más reaccionarios de la política exterior estadounidense. Sobre todo porque difieren en gran medida de la flexibilidad que muestra Trump respecto a temas mucho más ríspidos, donde avanza por la arena de la negociación como en los casos de Rusia, Corea del Norte y China.

En todos estos, el patrón de conducta se observa similar en tanto y en cuanto a medidas altamente agresivas contra los países referidos (en lo comercial, financiero y económico) le suceden conversaciones y acuerdos. Paradójicamente, este modelo de negociación difícilmente se traslade a Venezuela o Irán en el corto plazo, donde claramente Trump avanza a un todo o nada. En esta tónica se abre el interrogante de si Venezuela tiene la capacidad política de crear un espacio de negociación que rompa con esta falsa dicotomía en el mediano plazo.

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