La dieta del petrolio

schiavitù urbana e guerra culturale in Venezuela

Eder Peña http://misionverdad.com

 

Più che economica, la guerra contro il Venezuela è culturale. Si tratta di un’aggressione continua che ha come arma principale l’immaginario di noi che abitiamo questo territorio per cui, quelli che la eseguono, estorcono la popolazione accaparrando o speculando sui prezzi dei prodotti alimentari lavorati che fanno parte delle abitudini imposte dalla cultura del petrolio.

Un evento nel XX secolo ha sostanzialmente cambiato la storia del Venezuela: l’apparizione del petrolio. Il Venezuela smetteva di essere miniera agro-esportatrice di cacao e caffè per essere una miniera esportatrice di materie prime di origine minerale ed idrocarburi, come lo determinarono le grandi potenze europee quando si divisero il mondo.

Il fantasma dello sviluppo petrolifero

 

Con lo ‘sviluppo’ petrolifero prodotto dell’investimento del surplus del capitale finanziario-monopolista, lo stato venezuelano ottenne incrementare gli ingressi in valuta estera, dispose di risorse crescenti ed il reddito pro capite raggiunse livelli simili a quelle di alcune nazioni avanzate; ciò che si sviluppò fu la capacità di importazione per soddisfare i bisogni creati di beni e servizi.

Fino qui sembrerebbe che la capacità di consumo di tutta la popolazione sia aumentata; non fu così. Non si può parlare del Venezuela petrolifero senza prendere in considerazione l’accumulo della rendita petrolifera della “borghesia” parassitaria e di una burocrazia che convertì lo stato nello scrigno di quella classe. Quindi, ciò che chiamiamo “stabilità politica” è soggetta a chi detiene il potere sul petrolio, nostra principale fonte di ricchezza, ed a chi orienta la cultura, che questo, ha generato.

Il petrolio, come pochi prodotti di esportazione, è stato vincolato dalle classi politiche ed imprenditoriali a concetti come modernizzazione, democrazia, benessere, progresso, secondo il libretto civilizzatore delle potenze europee. Tuttavia, l’industria monopolista si rafforzò e si associò ad una frangia della classe media che va da tecnocrati sino agli intellettuali, attraversando la stessa classe operaia concentrata nella “città petrolio” per vender loro un progetto nazionale che includeva tutto questo pacchetto concettuale.

Il mito di “seminare il petrolio” si materializzò in un processo di industrializzazione fantasma che ancora soffre di una drammatica dipendenza da input e beni capitali importati. Più drammatica è la dipendenza dalle fluttuazioni del mercato estero, con tutto e che l’OPEC è riuscita a ridurla. Di conseguenza, da quanto descritto derivano processi economici e sociali in cui il capitalismo da rendita vanifica ogni tentativo di inalberare un modello che lo contraddica; il tentativo che ha consumato tutta la vita di Hugo Chavez.

L’inserimento della coltura del petrolio

 

L’antropologo Rodolfo Quintero descriveva la cultura del petrolio come “una cultura di conquista che stabilisce norme e crea una nuova filosofia della vita per adeguare una società alla necessità di mantenerla nelle condizioni di fonte produttrice di materie prime”. Questo processo non ha smesso di accadere, si realizza e trasforma ogni secondo, in ogni abitudine che si interiorizza nel lavoro quotidiano.

L’analisi continua e molto si è scritto al riguardo; ora ci fermeremo a contemplare come la guerra che ha scatenato quella stessa “borghesia” contro il Venezuela sia basata su quella cultura, in particolare sulla nostra cultura alimentare.

Nella nostra condizione di miniera non solo cambiò il nostro concetto e materialità di abitazione ed abbigliamento, ma il modo in cui ci nutriamo. Dal rituale imposto dagli europei, passiamo al cibo veloce e prefabbricato che desacralizza l’atto del mangiare e lo converte in un’altra transazione.

Quell’immaginario del consumo penetrò mediante la propaganda che ci vendette come “progresso” l’essere clienti sottomessi dei prodotti delle imprese monopolistiche, chiamasi vestiti, alimenti o abitazione, chiamasi anche il tempo e lo spazio necessario per essere i loro schiavi.

Il petrolio include il Venezuela nell’orbita politica, culturale e sociale degli USA, lo stile di vita americano (american way of life). Anche se non è mai stata pensata per tutti, l’idea di comfort è andata aderendo alla difesa della “libertà” individuale che si basa sull’allontanare lo stato dall’economia, anelare l’estraneo e vedere la terra venezuelana come un prodotto per estrarre e mercanteggiare.

La petro-dieta dello schiavo urbano

 

Dopo la II Guerra Mondiale, iniziava la grande accelerazione (1950). Le élite subordinate delle periferie latinoamericane intensificavano la loro imitazione gastronomica dell’ american way of life. Un semplice esempio è la popolarità del formato di colazione composto da succhi di frutta, cereali (avena, frumento o mais), caffè e latte, pan tostato o prosciutto e uova. Più che un’imitazione diretta, queste abitudini rispondono a pressioni economiche e temporali, originate dagli interessi della commercializzazione ed industrializzazione delle imprese multinazionali.

I centri urbani furono pensati per concentrare la forza lavoro, non per la vita piena. All’interno di tutte le standardizzazioni che contengono, c’è quella del consumo di alimenti, quindi è aumentata l’importazione di latte, uova, mais, grano, così come le bevande tradizionali furono sostituite dalle industriali di origine straniera. In questo modo, con il progredire dell’installazione di impianti “nazionali” con tecnologie controllate dall’estero, è stata venduta l’idea della “capacità produttiva”, come la possibilità di riprocessare o imballare prodotti alimentari.

Dall’agroindustria si governa sul cosiddetto “paniere alimentare”, elaborando e distribuendo prodotti ultra-processati con alto contenuto di zuccheri, grassi e sale, il cui consumo è tra i più importanti fattori di rischio per lo sviluppo di sovrappeso, obesità e malattie non trasmissibili (MNT) come il diabete di tipo 2, ipertensione, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche ed alcuni tipi di cancro. Queste costituiscono oggi la principale causa di morte al mondo.

Si stima che circa il 58% della popolazione latinoamericana e caraibica (circa 360 milioni di persone) sia sovrappeso e che l’obesità colpisca il 23% (140 milioni). Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2014, il Venezuela era il quarto paese con la più alta percentuale di prevalenza di sovrappeso e obesità tra gli adulti (oltre 18 anni) tra i paesi dell’America Latina e Caraibi con il 61%.

La FAO e l’OMS dicono che ciò si aggrava per gli stili di vita più sedentari, lunghi orari di lavoro, deregolamentazione del mercato e pubblicità dei prodotti alimentari non salutari, incentivi fiscali ed altri difetti del mercato che favoriscono prodotti che promuovono l’aumento di peso, oltre ai processi di urbanizzazione senza pianificazione per una mobilità più attiva e meno motorizzata.

Il Venezuela, come altri paesi della regione, presenta nei prodotti del “paniere alimentare” più elevati prezzi per caloria per le verdure rispetto alle bevande zuccherate. Lo zucchero ed i burri e oli sono fonti crescenti di calorie, abbondanti e poco costose, inoltre, i prodotti di salumeria (carni lavorate) erano tra i primi tre prodotti di consumo nella IV Indagine Nazionale sui Bilanci Familiari (2008-2009). Al di là dei problemi di accesso e consumo che possono causare la speculazione e l’accaparramento di questi prodotti, il malcontento sociale è per lo shock culturale che provoca la scarsezza di questi prodotti ultra-processati ​​indotta dalle filiere agroindustriali.

Secondo la ricercatrice Pascualina Curcio, del totale di prodotti alimentari disponibili, in media 88%, si produce nel nostro territorio (con semi, agro-prodotti e alimenti equilibrati importati, si deve rilevare), il restante 12% è stato e continua ad essere importato. Il 50% della produzione totale di alimenti trasformati e di rapida elaborazione (riso, farina, pasta, carne, latticini), imposti come abitudine dalla cultura del petrolio, è concentrato nel 10% del totale di imprese private monopoliste ed il suo pacchetto tecnologico altamente dipendente da petro-valute, non è una coincidenza. Così e per quello è stato progettato.

La cultura del petrolio ci ha inoculato abitudini che ci hanno reso dipendenti, non solo fisiologicamente, ma culturalmente. Per poter lavorare nei centri urbani e passare il tempo per spostarci a fabbriche, uffici, centri di servizio, dobbiamo dimenticarci del lavoro che, in altri tempi e luoghi, ha portato al processo di preparazione del cibo. Pestare, tritare, fermentare, lavare cibi freschi significa “arretratezza” per l’abitante urbano. Il progresso è cucinare il precotto, condire con glutammato, congelare e scongelare, addolcire con zucchero raffinato e metterci il minor tempo possibile per assaporare i mieli dello sviluppo.

Si fa difficile che la pura gestione governativa contro-arrestare questo disegno culturale ancorato al nostro sistema di valori; lì è da dove si ancora la guerra.


La dieta del petróleo, esclavitud urbana y guerra cultural en Venezuela

Eder Peña

Más que económica, la guerra contra Venezuela es cultural. Se trata de una agresión continuada que tiene como arma principal el imaginario de quienes habitamos este territorio, para ello, quienes la ejecutan, extorsionan a la población acaparando o especulando con los precios de los alimentos procesados que forman parte de hábitos impuestos por la cultura del petróleo.

Un evento en el siglo XX cambió sustancialmente la historia de Venezuela: la aparición del petróleo. Venezuela dejaba de ser mina agroexportadora de cacao y café para ser una mina exportadora de materias primas de origen mineral e hidrocarburos, tal cual lo determinaron las grandes potencias europeas al repartirse el mundo.

El fantasma del desarrollo petrolero

Con el “desarrollo” petrolero, producto de la inversión de los excedentes del capital financiero-monopolista, el Estado venezolano logró incrementar los ingresos en divisas, dispuso de recursos crecientes y el ingreso por persona alcanzó niveles similares a los de algunas naciones avanzadas, lo que se desarrolló fue la capacidad importadora para satisfacer las necesidades creadas de bienes y servicios.

Hasta acá pareciera que la capacidad de consumo de toda la población aumentó; no fue así. No se puede hablar de la Venezuela petrolera sin tomar en cuenta la acumulación de la renta petrolera de la “burguesía” parasitaria y de un funcionariado que convirtió al Estado en la caja chica de esa clase. De allí que lo que llamamos “estabilidad política” está sujeto a quien tiene poder sobre el petróleo, nuestra principal fuente de riqueza, y a quien orienta la cultura que éste ha generado.

El petróleo, como pocos productos de exportación, ha sido vinculado por las clases políticas y empresariales a conceptos como modernización, democracia, bienestar, progreso, acorde a la cartilla civilizatoria de los poderes europeos. Sin embargo, la industria monopolista fortaleció y se asoció a una franja de la clase media que va desde los tecnócratas hasta los intelectuales, pasando por la misma clase obrera concentrada en las “ciudades petróleo” para venderles un proyecto nacional que incluía todo ese paquete conceptual.

El mito de “sembrar el petróleo” se concretó en un proceso de industrialización fantasma que aún adolece de una dramática dependencia de insumos y bienes de capital importados. Más dramática es la dependencia de las fluctuaciones del mercado exterior, con todo y que la OPEP ha logrado disminuirla. Por consecuencia, de lo descrito derivan procesos económicos y sociales en los que el capitalismo rentístico frustra cualquier pretensión de enarbolar un modelo que lo contradiga, el intento que consumió a totalidad la vida de Hugo Chávez.

La inserción de la cultura del petróleo

El antropólogo Rodolfo Quintero describía la cultura del petróleo como “una cultura de conquista que establece normas y crea una nueva filosofía de la vida para adecuar una sociedad a la necesidad de mantenerla en las condiciones de fuente productora de materias primas”. Este proceso no ha dejado de ocurrir, se hace y transforma a cada segundo, en cada hábito que se internaliza en el quehacer cotidiano.

El análisis sigue y se ha escrito mucho al respecto; ahora nos detendremos a contemplar cómo la guerra que ha desatado esa misma “burguesía” contra Venezuela se afianza sobre esa cultura, en específico sobre nuestra cultura alimentaria.

En nuestra condición de mina no solo cambió nuestro concepto y materialidad de vivienda y vestido, sino la forma de alimentarnos. Del ritual impuesto por los europeos, pasamos a la comida rápida y prefabricada que desacraliza el acto de comer y lo convierte en una transacción más.

Ese imaginario de consumo penetró mediante la propaganda que nos vendió como “progreso” el ser clientes sumisos de los productos de las empresas monopolistas, llámese vestidos, alimentos o vivienda, llámese también el tiempo y espacio necesario para ser sus esclavos.

El petróleo incluye a Venezuela en la órbita política, cultural y social de Estados Unidos, el american way of life. Aun cuando nunca fue pensada para todos, la idea del confort se fue adhiriendo a la defensa de la “libertad” individual, que se basa en apartar al Estado de la economía, añorar lo extraño y ver la tierra venezolana como un producto para extraer y mercadear.

La petrodieta del esclavo urbano

Luego de la Segunda Guerra Mundial, comenzaba la gran aceleración (1950). Las élites subordinadas de las periferias latinoamericanas intensificaban su imitación gastronómica del american way of life. Un ejemplo sencillo es la popularización del formato de desayuno consistente en jugos, cereales (de avena, trigo o maíz), café con leche, tostadas o jamón con huevos. Más que una imitación directa, estos hábitos responden a presiones económicas y de tiempo, originadas por los intereses de comercialización e industrialización de corporaciones transnacionales.

Los centros urbanos fueron pensados para concentrar la fuerza de trabajo, no para la vida plena. Dentro de toda la estandarización que contienen, está la del consumo de alimentos, por ello aumentó la importación de leche, huevos, maíz, trigo, así como se sustituyeron las bebidas tradicionales por las industriales de origen extranjero. De esta manera, mientras progresaba la instalación de plantas “nacionales” con tecnologías controladas desde el extranjero, se vendió la idea de la “capacidad productiva” como la posibilidad de reprocesar o empacar productos alimenticios.

Desde la agroindustria se gobierna sobre la llamada “canasta alimentaria”, elaborando y distribuyendo productos ultraprocesados con alto contenido de azúcar, grasa y sal, cuyo consumo se cuenta entre los factores de riesgo más importantes para desarrollar sobrepeso, obesidad y enfermedades no transmisibles (ENT) como la diabetes tipo 2, hipertensión, enfermedades cardiovasculares, enfermedad respiratoria crónica y algunos tipos de cáncer. Estos constituyen hoy día la principal causa de muerte en el mundo.

Se estima que alrededor del 58% de la población latinoamericana y caribeña (cerca de 360 millones de personas) tiene sobrepeso, y que la obesidad afecta al 23% (140 millones). Según la Organización Mundial de la Salud (OMS), Venezuela era en 2014 el cuarto país con mayor porcentaje en prevalencia de sobrepeso y obesidad en población adulta (mayores de 18 años) en países de América Latina y el Caribe con un 61%.

Dicen la FAO y la OMS que esto se agudiza por los estilos de vida más sedentarios, jornadas laborales extensas, desregulación del mercado y publicidad de productos alimenticios no saludables, incentivos fiscales y otras fallas de mercado que favorecen productos que promueven la ganancia de peso, además de los procesos de urbanización sin un planeamiento para una movilidad más activa y menos motorizada.

Venezuela, como otros países de la región, presenta en los productos de la “canasta alimentaria” mayores precios por caloría para las verduras que para las bebidas azucaradas. El azúcar y las mantequillas y aceites son fuentes crecientes de calorías abundantes y baratas, además, los productos de charcutería (carnes procesadas) estaban entre los tres primeros productos de consumo en la IV Encuesta Nacional de Presupuestos Familiares (2008-2009). Más allá de los problemas de acceso y consumo que puedan estar ocasionando la especulación y acaparamiento de estos productos, el descontento social es por el shock cultural que provoca la escasez de esos productos ultraprocesados, inducida por cadenas agroindustriales.

Según la investigadora Pascualina Curcio, del total de rubros alimentarios disponibles, en promedio 88%, se produce en nuestro territorio (con semillas, agroinsumos y alimentos balanceados importados, cabe destacar), el 12% restante ha sido y sigue siendo importado. El 50% de la producción total de los alimentos procesados y de elaboración rápida (arroz, harinas, pasta, carnes, lácteos), impuestos como hábito por la cultura del petróleo, está concentrado en el 10% del total de empresas privadas monopolistas y su paquete tecnológico altamente dependiente de petrodivisas, no es casualidad. Así y para eso fue diseñado.

La cultura del petróleo nos inoculó hábitos que nos hicieron dependientes, no solo fisiológica, sino culturalmente. Para poder trabajar en los centros urbanos y dedicar el tiempo a trasladarnos a fábricas, oficinas, centros de servicios, debemos olvidarnos del trabajo que, en otros tiempos y lugares, ha llevado el proceso de preparación de los alimentos. Pilar, picar, fermentar, lavar alimentos frescos significan “atraso” para el habitante urbano. Progreso es cocinar lo precocido, aliñar con glutamato, congelar y descongelar, endulzar con azúcar refinada y tardar el menor tiempo posible para disfrutar las mieles del desarrollo.

Se hace difícil que la pura gestión gubernamental contrarreste este diseño cultural anclado a nuestro sistema de valores; ahí es de donde se ancla la guerra.

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