XXIV Incontro Forum di San Paolo, il fragile equilibrio di forze

Hugo Moldiz Mercado http://www.cubadebate.cu

Un fragile equilibrio di rapporti di forze, nonostante la sostenuta controffensiva imperiale ed oligarchica degli ultimi cinque anni, è il quadro generale che caratterizza la realizzazione del XXIV Incontro del Forum di San Paolo, a L’Avana, Cuba, dove la sinistra ha l’enorme sfida di assumere le lezioni apprese, rettificare gli errori commessi e potenziare le conquiste post-neoliberali da una prospettiva più ampia.

Il dato politico -del precario equilibrio di forze- può essere letto in diverse maniere. Se lo confrontiamo con il periodo 1998-2013, quando l’America Latina si andò dipingendo dei colori dell’emancipazione con l’installazione di governi progressisti e di sinistra, ci sono motivi di preoccupazione, poiché, evidentemente, è molto quanto si è regredito in tutti i campi. Ma se mettiamo nel bilancio globale la situazione degli ultimi cinque anni (2013-2017), in cui la valanga conservatrice è stata la predominante, non v’è alcun dubbio che ci sono motivi di ottimismo.

Dal punto di vista delle relazioni politiche di forza, la sinistra si era costituita in governo, con diversi gradi e sfumature, in Venezuela (1999), Brasile e Argentina (2003), Uruguay (2005), Bolivia (2006), Ecuador e Nicaragua (2007), Paraguay (2008) e El Salvador (2009), oltre a diversi governi dei Caraibi che si erano allineati in quella direzione. A tale lista si sarebbe agiiunto anche l’Honduras, con un presidente (Mel Zelaya) che, dal 2006, è andato transitando da posizioni liberali a posizioni progressiste.

A questo periodo, ampiamente favorevole alle correnti rivoluzionarie e progressiste, appartengono iniziative strategiche nel campo delle relazioni internazionali e degli organismi regionali e subregionali, poiché sotto l’impulso di Fidel Castro, Ignacio Lula, Hugo Chavez, Evo Morales, Rafael Correa e Daniel Ortega, si andò plasmando uno scacchiere geopolitico chiaramente avversa al movimento degli USA nel suo affanno a mantenere la sua egemonia e dominio nella regione. Così si spiega la fondazione dell’ALBA nel 2004, UNASUR nel 2008 e della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (2010).

Ma il percorso dell’emancipazione è più tormentato di spine che di fiori, di cammini accidentali che di rotte piane e rette. Convertita l’America Latina in un campo in disputa, le forze della destra riuscirono a riprendere il controllo di vari paesi con diversi mezzi. In Paraguay, Honduras e Brasile lo hanno fatto per mezzo di colpi di stato di nuovo tipo, mentre in Argentina ed Ecuador per via elettorale. Va notato che l’ultimo paese è un tipico esempio di una delle modalità della cosiddetta rivoluzione passiva.

Per quanto riguarda quest’anno, quasi a sorpresa, forme di golpe morbidi perseguono la rivoluzione nicaraguense ed è incerto cosa accadrà in El Salvador, dove l’FMLN ha subito una pesante sconfitta nelle elezioni locali. Nel frattempo, la Rivoluzione Bolivariana del Venezuela continua ad affrontare le diverse modalità di guerra -soprattutto economica-, la Rivoluzione Democratica e Culturale della Bolivia comincia a sperimentare il logorio della cosiddetta Guerra di IV Generazione e Cuba, -la prima rivoluzione socialista trionfante in America Latina- torna a sperimentare i rigori del blocco USA.

La controffensiva imperiale, caratterizzata con eccessivo successo degli ideologi della destra come “la fine del ciclo progressista in America Latina”, si è estesa agli organismi regionali e subregionali. L’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) ha riacquistato protagonismo ed influenza il deperimento della CELAC e UNASUR, mentre anche l’ALBA affronta difficoltà nel mantenere la coesione ideologica-politica e per muoversi verso un’effettiva integrazione materiale. Tutti questi movimenti geopolitici hanno luogo nel quadro della violenta resistenza USA ad abbandonare il proprio status di egemone mondiale. C’è mancanza di precisione politica ed accademica al pensare che abbiamo superato la fase della transizione egemonica. È ancora difficile sapere se rimarrà un ordine unipolare attenuato, un mondo bipolare di un nuovo tipo (non ideologico, ma sì geopolitico) o un mondo multipolare.

Tuttavia, neanche il cammino per la destra è asfaltato. In Argentina, i livelli di resistenza al ritorno di politiche neoliberali stanno gradualmente aumentando, in particolare per la forza e l’estensione che ha significato la terza protesta contro il governo Macri, che non ha modo di spiegare la nuova consegna del proprio paese alle ricette del FMI. In Brasile, nonostante l’illegale detenzione preventiva di Ignacio Lula, l’ex presidente guida le preferenze elettorali ed il deterioramento dell’immagine e delle politiche di riprivatizzazione ed anti-popolari di Temer si approfondiscono ogni giorno.

Particolare importanza nell’America Latina in lotta acquistano le elezioni colombiane e messicane. Nel primo paese, la sinistra ha raggiunto, nonostante la campagna di paura sviluppata attorno al fantasma del “castro-chavismo”, uno storico secondo posto. Va sottolineato che non è ancora sufficientemente valorizzato il contributo che le FARC hanno dato a questo nuovo rapporto di forze in Colombia con la firma degli accordi di pace, a L’Avana, anche se molto si dovrà lotta per evitare che siano distrutti dal governo uribista di Duque. Nel secondo paese, la vittoria di Andrés Manuel López Obrador (AMLO) con il 53% di voti e con una differenza di oltre 20 punti sul suo immediato inseguitore, rafforza l’equilibrio delle forze nel campo della politica e della geopolitica; che nelle attuali circostanze è una buona notizia per la sinistra latinoamericana. Tuttavia è ancora troppo presto per trarre conclusioni, ma il recupero dei principi di “non intervento” e il rispetto per “l’autodeterminazione dei popoli” -così il futuro governo messicano non abbandona il cosiddetto Gruppo di Lima- rappresenta ciò che l’intellettuale argentino Atilio Boron chiamerebbe un cambio dell’America Latina nella geopolitica dell’imperialismo.

Perché la sinistra è in una situazione difficile nonostante diversi anni di sostenuti progressi?

La risposta deve essere cercata non solo in ciò che fanno gli USA e i suoi alleati in America Latina. Sarebbe ingenuo aspettarsi che la borghesia imperiale e le sue oligarchie assumano una posizione passiva contro i governi rivoluzionari o anche solo sostenitori della riforma sociale progressista, come ben sottolinea il politologo cubano Roberto Regalado. Ci sono sufficienti ragioni politiche, economiche, geopolitiche, geo-economiche e culturali, in tutta la nostra storia, che spiegano la resistenza USA a perdere il controllo del continente.

Le principali risposte alla relativa retrocessione della sinistra, nel quadro di un fragile equilibrio di forze, devono essere trovate in ciò che si è lasciato incompiuto. Si è distribuita ricchezza sociale e si è edificato un nuovo quadro istituzionale (benché non in tutti i paesi) all’interno del quadro del postneoliberalismo senza affrontare, contemporaneamente, le basi del post-capitalismo, che è ciò che il Che definirebbe come rivoluzione ininterrotta. Molto meno si è affrontata, con forza, una rivoluzione culturale e morale che faccia nascere uomini e donne nuovi/e; ciò che in ultima analisi mantiene i soggetti del cambiamento intrappolati dai vizi della vecchia morale borghese.

Sulla base di quanto evoluto -al governo o al di fuori di esso- la sinistra latinoamericana e caraibica deve generare un nuovo consenso e adottare una rinnovata strategia e tattica che facciano re-innamorare le maggioranze e seminare nuove speranze, che è l’unico modo di progredire dei progetti di emancipazione.


XXIV Encuentro del Foro de Sao Paulo y el frágil equilibrio de fuerzas

Por: Hugo Moldiz Mercado

Un frágil equilibrio de relación de fuerzas, a pesar de la sostenida contraofensiva imperial y oligárquica de los últimos cinco años, es el cuadro general que caracteriza a la realización del XXIV Encuentro del Foro de Sao Paulo, en La Habana, Cuba, donde la izquierda tiene el enorme desafío de asumir las lecciones aprendidas, rectificar los errores cometidos y potenciar las conquistas posneoliberales desde una perspectiva mayor.

El dato político –del precario equilibrio de fuerzas- puede ser leído de distintas maneras. Si comparamos con el período 1998-2013, cuando América Latina se fue pintando de colores de emancipación con la instalación de gobiernos progresistas y de izquierda, hay razones para la preocupación, pues evidentemente es bastante lo que se ha retrocedido en todos los campos. Pero si ponemos en el balance global la situación de los últimos cinco años (2013-2017), en las que la avalancha conservadora ha sido lo predominante, no hay duda que hay razones para el optimismo.

Desde el punto de vista de las relaciones políticas de fuerza, la izquierda se había constituido en gobierno, con distintos grados y matices, en Venezuela (1999), Brasil y Argentina (2003), Uruguay (2005), Bolivia (2006), Ecuador y Nicaragua (2007), Paraguay (2008) y El Salvador (2009), además de varios gobiernos caribeños que se alinearon en esa dirección. A esta lista se sumaría también Honduras, con un presidente (Mel Zelaya) que desde 2006 fue transitando de posiciones liberales a posiciones progresistas.

A este período, ampliamente favorable para las corrientes revolucionarias y progresistas, corresponden iniciativas de carácter estratégico en el campo de las relaciones internacionales y los organismos regionales y subregionales, pues al impulso de Fidel Castro, Ignacio Lula, Hugo Chávez, Evo Morales, Rafael Correa y Daniel Ortega, se fue configurando un tablero geopolítico claramente adverso al movimiento de los Estados Unidos en su afán de mantener su hegemonía y dominación en la región. Así se explica la fundación del ALBA en 2004, la UNASUR en 2008 y la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños (2010).

Pero el camino de la emancipación está más plagado de espinas que de flores, de caminos accidentados que de rutas planas y rectas. Convertida América Latina en un campo en disputa, las fuerzas de la derecha lograron retomar el control de varios países por distintos medios. En Paraguay, Honduras y Brasil lo hicieron por la vía de golpes de Estado de nuevo tipo, mientras en Argentina y Ecuador por la vía electoral. Hay que apuntar que el último país es un ejemplo típico de una de las modalidades de la llamada revolución pasiva.

En lo que va del año, casi de forma sorpresiva, formas de Golpe Suave acechan a la revolución nicaragüense y es incierto lo que vaya a pasar en El Salvador, donde el FMLN soportó una dura derrota en las elecciones locales. Entretanto, la Revolución Bolivariana de Venezuela continúa enfrentando diversas modalidades de guerra –principalmente económica-, la Revolución Democrática y Cultural de Bolivia empieza a experimentar el desgaste de la llamada Guerra de Cuarta Generación y Cuba –la primera revolución socialista triunfante de América Latina- vuelve a experimentar los rigores del bloqueo estadounidense.

La contraofensiva imperial, caracterizada con desmesurado exitismo por los ideólogos de la derecha como “el fin del ciclo progresista en América Latina”, se ha extendido a los organismos regionales y subregionales. La Organización de Estados Americanos (OEA) ha vuelto a cobrar protagonismo e influencia en desmedro de la CELAC y UNASUR, mientras el ALBA también enfrenta dificultades para mantener la cohesión ideológica-política y para transitar hacia una integración material efectiva. Todos estos movimientos geopolíticos se dan en el marco de la violenta resistencia de EEUU a dejar su condición de hegemón mundial. Hay falta de precisión política y académica el pensar que hemos superado la fase de la transición hegemónica. Todavía es difícil saber si se mantendrá un orden unipolar atenuado, un mundo bipolar de nuevo tipo (no ideológico, pero si geopolítico) o un mundo multipolar.

Sin embargo, el camino para la derecha tampoco está asfaltado. En Argentina, los niveles de resistencia al retorno de la política neoliberal se están elevando gradualmente, particularmente por la contundencia y la extensión que significó la tercera protesta contra el gobierno de Macri, quien no tiene la manera de explicar la nueva entrega de su país a las recetas del FMI. En Brasil, a pesar de la ilegal detención preventiva de Ignacio Lula, el ex presidente lidera las preferencias electorales y el deterioro de la imagen y de las políticas re privatizadoras y anti-populares de Temer se profundizan cada día.

Particular importancia en la América Latina en disputa adquieren las elecciones colombiana y mexicana. En el primer país, la izquierda alcanzó, a pesar de la campaña del miedo desarrollada alrededor del fantasma del “castro-chavismo”, un histórico segundo lugar. Hay que subrayar que todavía no está lo suficientemente valorado el aporte que las FARC le hicieron a esta nueva relación de fuerzas en Colombia con la firma de los acuerdos de paz en La Habana, a pesar de que mucho se tendrá que luchar para evitar que sean destrozados por el gobierno uribista de Duque. En el segundo país, la victoria de Andrés Manuel López Obrador (AMLO) con un 53% de votación y con una diferencia de más de 20 puntos frente a su inmediato seguidor, consolida el equilibrio de fuerzas en el campo de lo político y la geopolítica, lo que en las actuales circunstancias es una buena noticia para la izquierda latinoamericana. Todavía es demasiado prematuro sacar conclusiones, pero la recuperación de los principios de “no intervención” y el respeto a la “autodeterminación de los pueblos” -así el futuro gobierno mexicano no abandone el llamado Grupo de Lima-, representa en lo que el intelectual argentino Atilio Boron llamaría un cambio de América Latina en la geopolítica del imperialismo.

¿Por qué la izquierda está en una situación difícil a pesar de varios años de avance sostenido?

La respuesta hay que buscarla no solo en lo que hace Estados Unidos y sus aliados en América Latina. Sería una ingenuidad esperar que la burguesía imperial y sus oligarquías asuman una posición pasiva frente a gobiernos revolucionarios o incluso solo partidarios de la reforma social progresista, como bien señala el politólogo cubano Roberto Regalado. Hay razones políticas, económicas, geopolíticas, geoeconómicas y culturales suficientes a lo largo de nuestra historia que explican la resistencia de EEUU a perder control del continente.

Las principales respuestas al retroceso relativo de la izquierda, en el marco de un frágil equilibrio de fuerzas, hay que encontrarlas en lo que se ha dejado de hacer. Se ha distribuido la riqueza social y se ha edificado una nueva institucionalidad (aunque no en todos los países) dentro de los marcos del posneoliberalismo, sin encarar al mismo tiempo las bases del poscapitalismo, que es lo que el Che definiría como revolución ininterrumpida. Mucho menos se ha logrado encarar con fuerza una revolución cultural y moral que de nacimiento a hombres y mujeres nuevos y nuevas, lo que finalmente mantiene a los sujetos del cambio atrapados por resabios de la vieja moral burguesa.

Sobre la base de lo avanzado –en el gobierno o fuera de él-, la izquierda latinoamericana y caribeña debe generar un nuevo consenso y aprobar una estrategia y tácticas renovadas que vuelvan a enamorar a las mayorías y sembrar nuevas esperanzas, que es la única manera de avanzar desde los proyectos emancipadores.

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