Sandinismo ed impero: la battaglia decisiva

Atilio A. Boron http://www.atilioboron.com.ar

Nessuno sano di mente, o in buona fede può ignorare che la crisi in Nicaragua è stata accelerata da molteplici fattori. Vari di loro endogeni; un altro esogeno ma cruciale: il governo USA.

Tra i primi si evidenziano l’erronea lettura della congiuntura locale ed internazionale unita a gravi errori pratici del governo di Daniel Ortega. Questo è culminato in una violenta repressione contro le prime proteste mettendo in marcia una spirale di scontro il cui destino finale non è difficile da prevedere. Se i colloqui di pace falliscono questa crisi potrebbe dar luogo ad un “pareggio catastrofico” di forze il cui esito, di solito, si risolve, come lo insegna la storia, attraverso una guerra civile in cui una delle parti impone la sua volontà sull’altra. Quanto sopra riassume il gioco di agenti e processi di natura essenzialmente domestica nella crisi. Ma, come abbiamo avvertito all’inizio, dietro il fumo, il sangue e la confusione dei “blocchi” e gli scontri si muove, furtiva ma efficacemente, chi, senza dubbio, è il principale attore di questa tragedia: la Casa Bianca.

In effetti, Washington si trova posseduta da un’irrefrenabile ambizione di sottomettere il paese centroamericano ai suoi disegni, rubricando le numerose iniziative che, a partire dalla metà del XIX secolo e lungo quasi duecento anni, hanno avuto come unico obiettivo controllare il territorio nicaraguense. Vale la pena ricordare, tra altri, le azioni dell’avventuriero yankee William Walker che invase il Nicaragua con un esercito mercenario e si proclamò presidente nel 1856; o l’occupazione del paese da parte delle forze armate USA, tra il 1912 e il 1933, contro le quali lottò, con smisurato eroismo ed onore, Augustusto César Sandin. Negherebbe l’evidenza storica ed i dati del momento chi disconoscesse o sottovalutasse l’importanza dell’interventismo USA nella crisi attuale. Soprattutto quando si osserva che la metodologia della rivolta, il “copione” che organizza le sue tattiche e strumenti di combattimento ed il carattere dei suoi attori chiave replicano ciò che insegnano i manuali di destabilizzazione delle varie agenzie della “comunità di intelligence” USA. Non solo questo: le violente proteste dell’opposizione nicaraguense hanno una indubitabile “aria di famiglia” con le “guarimbas” in Venezuela, nel 2014 e 2017, la rivolta dei “combattenti per la libertà” contro Gheddafi in Libia, nel 2011, e le azioni delle bande neo-naziste in Ucraina, nel 2013. Contrariamente a quanto dicono i film di Hollywood, ogni somiglianza con la realtà non è una mera coincidenza perché si tratta della stessa strategia solo applicata in luoghi diversi.

Nell’esaminare le cause interne della crisi, osserviamo una situazione paradossale: senza preavviso, si è prodotto il subitaneo deterioramento della situazione politica in un paese il cui ordinamento sociale si paragonava, favorevolmente, a quello dei suoi vicini.

A differenza di quasi tutti gli altri paesi dell’area il flagello delle “maras” era sconosciuto in Nicaragua; la sicurezza civica era una delle migliori in America Latina e di gran lunga superiore a quella del resto dei paesi dell’istmo. Nella Nostra America si trovano i dieci paesi con il più alto tasso di omicidi per 100.000 abitanti al mondo. L’Honduras governato per controllo remoto, dal 2009, da Washington ostenta il lugubre onore di avere il maggior di tutti: 85,7 omicidi ogni 100.000 abitanti. Seguito da El Salvador (63,2), Venezuela (51,7), Colombia (48,8), Belize (37,2), Guatemala (36,2), Giamaica (35.2), Trinidad e Tobago (32,8), Brasile (30.5) e Repubblica Dominicana (30.2). Nel 2017, il tasso del Nicaragua ha raggiunto il 6 per 100.000, alcuni decimi sopra l’Argentina, che ne ha registrato uno di 5.2 e gli USA con 4.9. Nel 2013, l’indice di sicurezza civica -l’ “Indice di Legge ed Ordine del 2013” misurato dalla società Gallup- ha caratterizzato il Nicaragua come il paese più sicuro in America Latina. [1]

Altri indicatori sociali mostrano una performance simile: negli ultimi anni la sempre difficile lotta contro la povertà presentava, in Nicaragua, risultati modestamente incoraggianti, poco frequenti nella regione se si considera che per lungo tempo questo paese fu, dopo Haiti, la nazione più povera dell’emisfero. Nonostante ciò, stime della Banca Mondiale, aggiornata ad aprile 2018, assicurano che “tra il 2014 ed il 2016 la povertà è diminuita dal 29,6 al 24,9%”, mentre negli ultimi anni il tasso di crescita medio del PIL oscillava intorno al 4%. Testualmente si dice che “Nel 2011, la crescita ha raggiunto un record del 5,1%, con una decelerazione a 4,7 e 4,5 nel 2016 e 2017, rispettivamente. Per quest’anno, la previsione si situa al 4,4%, con cui il Nicaragua si colloca al secondo posto di crescita tra i paesi centroamericani, con prospettive favorevoli per l’investimento straniero diretto ed il commercio.” [2]

Secondo dati della Banca Centroamericana per l’integrazione Economica, il deficit fiscale del Nicaragua, nel 2017, è stato del 2,5%. In Argentina, nello stesso anno, è stato del 3,9%. [3]

Sul terreno politico, nel novembre 2016, l’attuale presidente è stato eletto col 72% dei voti, e sebbene si sono avute alcune denunce di frode, poderosamente amplificate dalla cloaca mediatica regionale, nessuna ha acquisito sufficiente ampiezza da mettere seriamente in discussione il processo elettorale.

Dati questi antecedenti, come è stato possibile che si sia prodotto il fulminante scoppio di una crisi che, oggi, ci stupisce e ci rattrista?

 

Come abbiamo detto in una nota precedente, il governo ha commesso un grave errore nel rispondere con insolita violenza davanti ad una legittima protesta causata da una regressiva riforma del sistema di sicurezza sociale [4]. Protesta a cui hanno partecipato non pochi simpatizzanti e sostenitori del sandinismo che ignoravano l’emergente iniziativa presidenziale. In effetti, il presidente Ortega ha fatto il sorprendente annuncio della riforma il 18 aprile e quattro giorni dopo, di fronte alla forza ed vastità del rifiuto popolare, ha proceduto a revocarla.

In circostanze normali questo avrebbe dovuto disattivare la bomba a tempo che con il suo tic-tac risuonava nelle strade di Managua. Ma i paesi dell’America Latina e dei Caraibi (e il Nicaragua non fa eccezione) non sono “paesi normali”, ma battaglieri sopravvissuti alla periferia di un impero che anela alla sua completa e definitiva subordinazione. Proprio a causa di tale “anormalità” dell’America Latina, la violenta agitazione di strada, lungi dal placarsi con la marcia indietro ordinata dal governo, si è intensificata ed estesa ad altre città del paese. In pochi giorni, una precisa richiesta ha accelerato la rapida formazione di un ampio e sedizioso fronte di opposizione che reclamava le dimissioni del presidente e la richiesta di nuove elezioni. Come spiegare una tale perniciosa mutazione?

Per rispondere a questa domanda è necessario esaminare il ruolo decisivo del governo USA come amplificatore e beneficiario interessato della crisi.

 

Come abbiamo detto prima, Washington alberga una vecchia ossessione per il Nicaragua. Un elemento chiave che ha turbato, fino ad oggi, il sogno della dirigenza USA è stato, nel XIX secolo, il suo interesse per l’eventuale costruzione di un passaggio bi-oceanica attraverso il Nicaragua ed il timore che tale opera fosse affrontata da una potenza europea, Francia, che aveva programmato aprire una rotta transoceanica a Panama. Fallita tale iniziativa francese e una volta costruito, dagli USA, il Canale di Panama, la priorità fu quella di impedire la creazione di una via alternativa in concorrenza con quella panamense, controllata direttamente o indirettamente dagli USA. Questa preoccupazione, che è rimasta latente per tutto il XX secolo, è aumentata, fino al parossismo, recentemente di fronte all’annuncio di un accordo per l’apertura di un nuovo canale attraverso il Nicaragua ed, inoltre, finanziato da capitale cinese. Se Pechino ha scosso lo scacchiere geopolitico e geoeconomico mondiale con la vertiginosa ricostruzione della “via della seta” che -mediante tredici mila chilometri di vie ferroviarie ad alta velocità- attrae inesorabilmente l’Asia meridionale e tutta Europa alla sua egemonia economica, la costruzione e successivo controllo di un nuovo e più rapido canale in Nicaragua altererebbe radicalmente l’equilibrio strategico niente meno che nei Caraibi, la terza frontiera imperiale, come diceva il professore Juan Bosch e come lo ratificano i manuali del Pentagono parlando dei Caraibi come il “Mare Nostrum” degli USA. Sarebbe, inoltre, il colpo di grazia per la Dottrina Monroe e la sua pretesa che in questo continente si senta solo la voce degli USA e che nessuna potenza extracontinentale si immischi negli affari emisferici. La presenza cinese in America centrale e nei Caraibi costituirebbe, per Pechino, un potente argomento per neutralizzare -o per cercare di equiparare- la presenza di Washington nell’Asia Pacifica, verso dove, dall’epoca di Barack Obama, gli USA hanno spostato gran parte della loro flotta con la non dissimulata intenzione di contenere l’espansione commerciale e politica cinese. Per il Pentagono, ed in particolare per l’amministrazione Trump, che ha fatto di Russia e Cina i suoi nemici, nulla potrebbe essere più minaccioso della presenza degli eredi di Mao nella regione del Gran Caraibi e che, eventualmente, potrebbe convertire la terra di Sandino in una base di operazioni non solo commerciali ma anche di indole militare. Ecco perché il protagonisma USA nella crisi nicaraguense non ha nulla di anomalo o inaspettato. È la prevedibile risposta ad una sfida militare, e non solo economica, di vaste proporzioni dinanzi alle quali sarebbe assurdo pensare che l’impero permanesse a braccia conserte.

D’altra parte, nonostante il governo sandinista sembra aver accantonato i suoi impegni rivoluzionari, il solo fatto di mantenere rapporti di cooperazione con paesi come Cuba, Venezuela ed, in generale, con i governi dell’ALBA, è per Washington motivo più che sufficiente per provocare un “cambio di regime”, eufemismo per evitare di parlare di colpi di stato e del susseguente bagno di sangue con cui si castiga i ribelli del vecchio ordine.

È a causa di questo che la Casa Bianca ha cercato, con ogni mezzo e senza interruzioni, di influenzare il processo politico nicaraguense e debilitare il governo di Daniel Ortega finanziando, generosamente, i partiti di opposizione, un variopinto sciame di ONG -la maggior parte di loro non sante, segreti tentacoli del governo USA- così come numerose organizzazioni della società civile e la stampa di opposizione cercando, con ogni mezzo, di screditare il governo sandinista e stigmatizzare la coppia governante.

Questa intensa campagna di propaganda mira a denunciare Managua come sede di una brutale dittatura e preparare il clima d’opinione per convalidare la sua violenta eradicazione attraverso una “invasione umanitaria” coordinata dal Comando Sud con la complicità, tra altri, dei governi che costituiscono non il Gruppo ma il “Cartello di Lima”.

È a causa di questo che la crisi riflette con tanta nitidezza il modus operandi raccomandato dal manuale di pratiche destabilizzatrici della CIA, con i suoi paramilitari e mercenari travestiti da studenti universitari o da giovani disposti ad immolarsi per la loro adesione ad un puro ideale repubblicano, benché per esso devono uccidere, incendiare, sequestrare, distruggere. Ma affinché i piani dell’impero abbiano successo ed affinché i suoi sbirri possano mimetizzarsi con la popolazione è necessario che ci siano coloro che, genuinamente, scendano protestare contro il governo. Senza di ciò la strategia dell’impero perde ogni efficacia.

E che in Nicaragua siano scesi a manifestare non può sorprendere nessuno perché ci sono ragioni per farlo.

 

La corruzione è un problema molto grave, già dal momento che il primo governo sandinista quando si parlava della “piñata” (spartizioni dei beni dopo la sconfitta dell’89 ndt) accettata con un misto di rassegnazione e iracondia dal popolo nicaraguense.

Che la rivoluzione abbia deviato dal cammino è un altro dato inconfutabile, transando con i suoi nemici storici: l’imprenditoria e la chiesa cattolica, tra altri.

Che il potere rivoluzionario si concentri, straordinariamente, nelle mani della coppia presidenziale e che una deriva autoritaria del governo irrompa sempre più spesso è anche vero.

Non si può capire cosa sta succedendo in Nicaragua a prescindere dai sintomi di questa involuzione del sandinismo e l’usura del suo filo rivoluzionario.

Ma che sopra la protesta di alcuni settori dell’opposizione, -in alcuni casi di massa- sia stata montata, alla velocità del lampo, l’intero apparato di destabilizzazione dell’impero è evidente anche ad un cieco. E questo non è un dettaglio minore, ma costituisce “il dato” fondamentale, la chiave di volta per capire il significato storico della crisi nicaraguense.

La cloaca mediatica latinoamericana e USA scarica la sua artiglieria di “post-verità” e “plus-menzogne”, mentre denuncia, urlando ed in totale impunità, i morti causati dalla repressione del governo sandinista. Ma la verità, accuratamente occultata, come già fatto nel caso del Venezuela Bolivariana, è che le vittime sono divisi quasi equamente tra le due parti.

Washington serve la controrivoluzione con una disciplina esemplare ed è sempre pronta a cogliere ogni opportunità che si presenta per destabilizzare un governo poco incline ad obbedire ai suoi comandi. Manca totalmente di scrupoli morali e ha forze di intervento rapido non solo in campo militare, ma nella consistente massa di manovra reclutata nel corso di molti anni e formata da una legione di paramilitari, mercenari ed ex detenuti in libertà vigilata disposti a tutto; inoltre appaiono nei suoi ranghi tossicodipendenti squilibrati e assuefatti dagli stupefacenti somministrati da Washington, in collaborazione con i narcotrafficanti; e transfughi di tutti i tipi, pronti a entrare nelle fila dei sicari, a prendere iniziative violente immischiandosi in una marcia di inesperti manifestanti che ignorano come si arma un cocktail molotov, o non si spingono a bruciare vivo un soggetto sospetto, o a fornire di un “aire plebeyo” (aria popolare ndt) alle manifestazioni della destra contro ogni governo di sinistra, o semplicemente progressista.

Per questo abbiamo detto nella nostra precedente nota che la rivoluzione nicaraguense è come una ragazza che naviga in una barca in un mare in tempesta e con un timoniere che -lo dico con rispetto ma anche con speranza- ha perso la sua rotta. Ma anche in queste circostanze, sarebbe assurdo consegnare la ragazza ai suoi aguzzini o affondare la barca e gettarla in mare.

Sappiamo già cosa è successo quando governi progressisti o di sinistra sono caduti a causa della cospirazione imperiale. Basta guardare a quello che è successo in Honduras, Paraguay e Brasile per immaginare cosa potrebbe accadere in Nicaragua se l’offensiva destituente in corso fosse coronata da vittoria.

Non v’è alcuna ragione di supporre che il governo di Daniel Ortega sia assolutamente incapace di esercitare una rivoluzionaria autocritica, rivedere ciò che è stato fatto e fare ammenda dei suoi errori. È fondamentale uscire da questa crisi da sinistra, fedele all’ideale del sandinismo. Per questo, sarà necessario correggere la direzione che il governo ha seguito di recente. Ciò richiede far uscire dal letargo l’FSLN e resuscitarlo come forza politica attiva, rafforzare il suo protagonismo nella gestione governativa e mobilitare, riorganizzare e coscientizzare la sua base sociale per produrre un radicale ri-democratizzazione del processo rivoluzionario. In breve, provocare una rivoluzione nella rivoluzione.

Il ripiegamento su se stesso del governo ed il suo isolamento in relazione al popolo sandinista ed allo stesso partito di governo è vox populi a Managua, ed al perpetuarsi di questa situazione sarà inevitabile incorrere in nuovi errori che sarebbero fatali per il governo di Daniel Ortega.

Il nemico imperialista è in agguato, gli tende molte trappole e la solitudine del potere è una cattiva consigliera. Se l’FSLN, come forza politica, non recupera il suo protagonismo collettivo e si impadronisce del destino della rivoluzione, temo molto che sono contati i giorni di questo bel sogno costruito sull’epica gesta della prolungata lotta contro la dittatura di Somoza. Sarebbe una tremenda sconfitta per un popolo, nobile e coraggioso, che ha combattuto con un eroismo esemplare per rendere realtà la sua fedeltà all’eredità di Sandino, “generale di uomini liberi”. Sarà anche un colpo brutale alle speranze dei popoli della Nostra America, e la perdita di un’opportunità che il Nicaragua impiegherà molto tempo a rincontrare. Dixit et salvavi animan mea.


Sandinismo e imperio: la batalla decisiva

Atilio A. Boron

Nadie en su sano juicio, o actuando de buena fe, puede ignorar que la crisis en Nicaragua fue precipitada por múltiples factores. Varios de ellos endógenos; otro, exógeno pero crucial: el gobierno de Estados Unidos.

Entre los primeros sobresalen la errónea lectura de la coyuntura local e internacional unida a graves desaciertos prácticos del gobierno de Daniel Ortega. Esto culminó en una violenta represión ante las primeras protestas poniendo en marcha un espiral de confrontaciones cuyo destino final no es difícil de pronosticar. Si fracasan los diálogos de paz esta crisis pudiera dar lugar a un “empate catastrófico” de fuerzas cuyo desenlace suele resolverse, como lo enseña la historia, mediante una guerra civil en la cual uno de los bandos impone su voluntad sobre el otro. Lo anterior resume el juego de agentes y procesos de naturaleza eminentemente doméstica en la crisis. Pero, como advertíamos al comienzo, tras el humo, la sangre y la confusión de las “trancas” y los enfrentamientos se mueve, sigilosa pero eficazmente, quien sin dudas es el principal actor de esta tragedia: la Casa Blanca.

En efecto, Washington se encuentra poseído por una irrefrenable ambición de someter al país centroamericano a sus designios, rubricando las numerosas iniciativas que desde mediados del siglo diecinueve y a lo largo de casi doscientos años tuvieron como único objetivo controlar el territorio nicaragüense. Vale recordar entre otras el accionar del aventurero yanqui William Walker que invadió Nicaragua con un ejército mercenario y se proclamó presidente en 1856; o la ocupación del país por parte de las fuerzas armadas de Estados Unidos entre 1912 y 1933, contra la cual luchó con simpar heroísmo y honor Augusto César Sandino. Negaría la evidencia histórica y los datos del momento quien desconociera o subestimara la importancia de la intervención estadounidense en la crisis actual. Sobre todo cuando se observa que la metodología de la insurgencia, el “guión” que organiza sus tácticas e instrumentos de combate y el carácter de sus principales actores replican lo que enseñan los manuales de desestabilización de las diversas agencias de la “comunidad de inteligencia” de Estados Unidos. No sólo eso: las violentas protestas de la oposición nicaragüense tienen un indudable “aire de familia” con las “guarimbas” en Venezuela en 2014 y 2017, la revuelta de los “combatientes de la libertad” contra Gadafi en Libia en 2011 y el accionar de las bandas neonazis en Ucrania en 2013. Al revés de lo que dicen los films de Hollywood, cualquier semejanza con la realidad no es mera coincidencia porque se trata de la misma estrategia sólo que aplicada en diferentes locaciones.

Al examinar las causas domésticas de la crisis observamos una situación paradojal: sin previo aviso se produjo el súbito deterioro de la situación política en un país cuyo ordenamiento social se comparaba ventajosamente con el de sus vecinos.

A diferencia de casi todos los demás países del área el flagelo de las “maras” era desconocido en Nicaragua; la seguridad ciudadana era de las mejores de Latinoamérica y muy superior a la del resto de los países del istmo. En Nuestra América se encuentran los diez países con las mayores tasas de homicidio por 100.000 habitantes del mundo. Honduras, gobernada a control remoto desde 2009 por Washington ostenta el lúgubre honor de tener la mayor de todas: 85.7 homicidios por cada 100.000 habitantes. Le siguen El Salvador (63,2), Venezuela (51,7), Colombia (48,8), Belice (37,2), Guatemala (36,2), Jamaica (35,2), Trinidad y Tobago (32,8), Brasil (30,5) y República Dominicana (30,2). En el año 2017 la tasa nicaragüense llegó a 6 por 100.000, unas pocas décimas por encima de la Argentina que registró una del 5.2 y Estados Unidos con 4.9. En 2013, el índice de seguridad ciudadana –el “Índice de Ley y Orden de 2013″ medido por la firma Gallup- caracterizó a Nicaragua como el país más seguro de Latinoamérica.[1]

Otros indicadores sociales muestran un desempeño similar: en años recientes el siempre difícil combate a la pobreza arrojaba en Nicaragua resultados módicamente alentadores, poco frecuentes en la región si se tiene en cuenta que durante mucho tiempo este país fue, después de Haití, el más pobre del hemisferio. Pese a ello, cálculos del Banco Mundial, actualizados a Abril del 2018, aseguran que “entre el 2014 y 2016 la pobreza disminuyó del 29.6 al 24.9 por ciento” al paso que en los últimos años la tasa media de crecimiento del PBI oscilaba en torno al 4 %. Textualmente se dice que “(E)n 2011, el crecimiento alcanzó un récord del 5.1 por ciento, con una desaceleración al 4.7 y 4.5 en 2016 y 2017, respectivamente. Para este año, el pronóstico se sitúa en 4.4 por ciento, con lo que Nicaragua se coloca en el segundo lugar de crecimiento entre los países de Centroamérica, con perspectivas favorables para la inversión extranjera directa y el comercio.” [2]

Según datos del Banco Centroamericano de Integración Económica el déficit fiscal de Nicaragua en el año 2017 fue del 2.5 %. En la Argentina en ese mismo año fue del 3.9 %.[3]

En el terreno político en Noviembre del 2016 el actual presidente fue elegido por un 72 % de los votos, y si bien hubo algunas denuncias de fraude, poderosamente amplificadas por la cloaca mediática regional, ninguna adquirió la entidad suficiente como para seriamente impugnar el proceso electoral.

Dados estos antecedentes, ¿cómo fue que se produjo el fulminante estallido de una crisis que hoy nos asombra y entristece?

Como dijéramos en una nota anterior el gobierno cometió un grave error al responder con inusitada violencia ante una legítima protesta ocasionada por una regresiva reforma al régimen de la seguridad social.[4] Protesta en la cual participaron no pocos simpatizantes y partidarios del sandinismo que ignoraban la iniciativa presidencial en ciernes. En efecto, el presidente Ortega hizo el sorpresivo anuncio de la reforma el 18 de Abril y cuatro días después, ante la contundencia y masividad del rechazo popular, procedió a revocarla.

En circunstancias normales esto debería haber desactivado la bomba de tiempo que con su tic-tac resonaba en las calles de Managua. Pero los países de América Latina y el Caribe (y Nicaragua no es la excepción) no son “países normales” sino batalladores sobrevivientes en la periferia de un imperio que anhela su completa y definitiva subordinación. Precisamente a causa de esa “anormalidad” latinoamericana la violenta agitación callejera lejos de aplacarse con la marcha atrás ordenada por el gobierno se intensificó y extendió a otras ciudades del país. En cuestión de días una demanda puntual precipitó la rápida conformación de un amplio y sedicioso frente opositor reclamando la renuncia del presidente y el llamado a nuevas elecciones. ¿Cómo explicar tan perniciosa mutación?

Para responder a esta pregunta es preciso examinar el decisivo papel del gobierno de Estados Unidos como amplificador e interesado beneficiario de la crisis.

Tal como dijimos anteriormente Washington alberga una añeja obsesión con Nicaragua. Un elemento clave que ha perturbado hasta la actualidad el sueño de la dirigencia estadounidense ha sido, en el siglo diecinueve, su interés por la eventual construcción de un paso bioceánico a través de Nicaragua y el temor de que tal obra fuese encarada por una potencia europea, Francia, que tenía planeado abrir una ruta transoceánica en Panamá. Frustrada esa iniciativa francesa y vez construido el Canal de Panamá por los estadounidenses la prioridad fue impedir la creación de una vía alternativa que compitiese con la panameña, controlada directa o indirectamente por Estados Unidos. Esa preocupación, que se mantuvo latente a lo largo del siglo veinte, se acrecentó hasta el paroxismo en fechas recientes ante los anuncios de un acuerdo para la apertura de un nuevo canal pasando por Nicaragua y, además, financiado por capitales chinos. Si Beijing conmovió el tablero geopolítico y geoeconómico mundial con la vertiginosa reconstrucción de la “ruta de la seda” que -trece mil kilómetros de vías férreas de alta velocidad mediante- atrae inexorablemente al Asia meridional y a toda Europa a su hegemonía económica, la construcción y posterior control de un nuevo y más expedito canal en Nicaragua alteraría radicalmente el equilibrio estratégico nada menos que en el Caribe, la tercera frontera imperial como decía el profesor Juan Bosch, y como lo ratifican los manuales del Pentágono al hablar del Caribe como el “Mare Nostrum” de los norteamericanos. Sería, además, el tiro de gracia para la Doctrina Monroe y su pretensión de que en este continente sólo se oiga la voz de Estados Unidos y que ninguna potencia extracontinental se inmiscuya en los asuntos hemisféricos. La presencia china en Centroamérica y el Caribe constituiría para Beijing un poderoso argumento para neutralizar -o tratar de equiparar- la presencia de Washington en el Asia Pacífico, hacia donde, desde la época de Barack Obama, Estados Unidos ha desplazado gran parte de su flota de mar con la indisimulada intención de contener la expansión comercial y política china. Para el Pentágono, y sobre todo para la Administración Trump, que hizo de Rusia y China sus enemigos, nada podría ser más amenazante que la presencia de los herederos de Mao en el área del Gran Caribe y que eventualmente podría convertir a la tierra de Sandino en una base de operaciones no sólo comerciales sino también de índole militar. De ahí que el protagonismo estadounidense en la crisis nicaragüense no tenga nada de anómalo o inesperado. Es la previsible respuesta a un desafío militar, y no sólo económico, de vastas proporciones ante los cuales sería absurdo pensar que el imperio permanecería de brazos cruzados.

Por otra parte, a pesar que el gobierno sandinista parece haber archivado sus afanes revolucionarios, el sólo hecho de que mantenga relaciones de cooperación con países como Cuba, Venezuela y, en general, con los gobiernos del ALBA, es para Washington motivo más que suficiente para provocar un “cambio de régimen”, eufemismo para evitar hablar de golpes de estado y el subsecuente baño de sangre con que se escarmienta a los rebeldes del viejo orden. Es debido a ello que la Casa Blanca ha tratado, por todos los medios y sin pausas, de incidir en el proceso político nicaragüense y debilitar al gobierno de Daniel Ortega financiando con largueza a los partidos de la oposición, a un variopinto enjambre de ONGs –la mayoría de ellas non sanctas, encubiertos tentáculos del gobierno estadounidense- así como a numerosas organizaciones de la sociedad civil y a la prensa opositora, procurando por todos los medios desacreditar al gobierno sandinista y estigmatizar a la pareja gobernante.

Esta intensa campaña de propaganda tiene por objeto denunciar a Managua como el asiento de una brutal dictadura y preparar el clima de opinión para convalidar su violenta erradicación mediante una “invasión humanitaria” coordinada por el Comando Sur con la complicidad, entre otros, de los gobiernos que constituyen no el Grupo sino el “Cartel de Lima.”

Es debido a ello que la crisis refleja con tanta nitidez el modus operandi recomendado por el manual de prácticas desestabilizadoras de la CIA, con sus paramilitares y mercenarios disfrazados de estudiantes universitarios o de jóvenes dispuestos a inmolarse por su adhesión a un puro ideal republicano aunque para ello deban matar, incendiar, secuestrar, destruir. Pero para que los planes del imperio tengan éxito y para que sus esbirros puedan mimetizarse con la población es preciso que haya quienes genuinamente salgan a protestar contra el gobierno. Sin ello la estrategia del imperio pierde toda eficacia.

Y que en Nicaragua hayan salido a manifestarse no puede sorprender a nadie porque hay motivos para hacerlo.

La corrupción es un problema muy grave, ya desde el primer gobierno sandinista cuando se hablaba de “la piñata”, aceptada con una mezcla de resignación e iracundia por parte del pueblo nicaragüense.

Qué la revolución se desvió del camino es otro dato irrefutable, transando con sus enemigos históricos: el empresariado y la Iglesia Católica entre otros.

Que el poder revolucionario se concentró extraordinariamente en las manos de la pareja presidencial y que una deriva autoritaria del gobierno irrumpe cada vez con más frecuencia también es verdad.

No se puede entender lo que está ocurriendo en Nicaragua sin tener en cuenta los síntomas de esta involución del sandinismo y el desgaste de su filo revolucionario.

Pero que sobre la protesta de algunos sectores de la oposición –en algunos casos multitudinarias- se montó, con relampagueante celeridad, todo el aparato de desestabilización del imperio es evidente hasta para un ciego. Y este no es un dato menor, sino que constituye “el dato” fundamental, la clave de bóveda para comprender el significado histórico de la crisis nicaragüense.

La cloaca mediática latinoamericana y estadounidense descarga su artillería de “posverdades” y “plusmentiras” mientras denuncia a los gritos y con total impunidad los muertos causados por la represión del gobierno sandinista. Pero la verdad, cuidadosamente oculta, como antes se hiciera en el caso de la Venezuela Bolivariana, es que las víctimas se reparten casi por partes iguales entre ambos bandos.

Washington milita la contrarrevolución con una disciplina ejemplar y está siempre preparado para aprovechar cualquier oportunidad que se presente para desestabilizar a un gobierno poco propenso a obedecer a sus mandatos. Carece totalmente de escrúpulos morales y tiene fuerzas de despliegue rápido no sólo entre los militares sino en la cuantiosa masa de maniobra reclutada durante largos años y formada por una legión de paramilitares, mercenarios y ex presidiarios bajo parole dispuestos a lo que sea; también revistan en sus filas drogadictos desquiciados y contenidos por los estupefacientes suministrados por Washington en sociedad con los narcotraficantes; y tránsfugas de todo tipo, dispuestos a engrosar las filas del sicariato, a tomar iniciativas violentas entremezclándose en una marcha de novatos manifestantes que ignoran como se arma un cóctel molotov, o no se animan a incendiar vivo a un sujeto sospechoso, o a dotar de un “aire plebeyo” a las manifestaciones de la derecha contra cualquier gobierno de izquierda, o apenas progresista.

Por eso decíamos en nuestra nota anterior que la revolución nicaragüense es como la niña que navega en un bote en un mar embravecido y con un timonel que -lo digo con respeto pero también con esperanza- ha perdido el rumbo. Pero aun bajo estas circunstancias, sería absurdo entregar a la niña a sus verdugos o hundir el bote y arrojarla al mar.

Ya sabemos lo que ocurrió cuando gobiernos progresistas o de izquierda cayeron a causa de la conspiración imperial. Basta mirar lo acontecido en Honduras, Paraguay o Brasil para vislumbrar lo que podría ocurrir en Nicaragua si la ofensiva destituyente en curso fuese coronada con la victoria.

No hay razones para suponer que el gobierno de Daniel Ortega es absolutamente incapaz de ejercer una revolucionaria autocrítica, revisar lo actuado y enmendar sus errores. Es fundamental salir de esta crisis por izquierda, fiel al ideario del sandinismo. Para ello será necesario corregir el rumbo que ha seguido el gobierno en fechas recientes. Esto exige sacar de su letargo al FSLN y resucitarlo como fuerza política activa, potenciar su protagonismo en la gestión gubernativa y movilizar, reorganizar y concientizar a su base social para producir una radical redemocratización del proceso revolucionario. En pocas palabras, provocar una revolución en la revolución.

El ensimismamiento del gobierno y su aislamiento en relación al pueblo sandinista y al propio partido de gobierno es vox populi en Managua, y de perpetuarse esta situación será inevitable incurrir en nuevos desaciertos que serían fatal para el gobierno de Daniel Ortega.

El enemigo imperialista está al acecho, le tiende muchas trampas y la soledad del poder es muy mala consejera. Si el FSLN como fuerza política no recupera su protagonismo colectivo y se adueña del destino de la revolución, mucho me temo que estén contados los días de este bello sueño construido sobre la gesta épica de la prolongada lucha contra la dictadura de Somoza. Sería una derrota tremenda para un noble y valiente pueblo que luchó con un heroísmo ejemplar para hacer realidad su fidelidad al legado de Sandino, el “general de hombres libres.” Será también un golpe brutal a las esperanzas de los pueblos de Nuestra América, y la pérdida de una oportunidad que Nicaragua tardará mucho tiempo en reencontrar. Dixit et salvavi animan mea.

[1] Según datos de la Organización Mundial de la Salud. Ver “Latinoamérica tiene la más alta tasa de homicidios del mundo, revela la OMS”, Cable de la Agencia EFE, 17 mayo 2017. Los datos de Nicaragua 2017 también los revela la Agencia EFE en https://www.efe.com/efe/america/sociedad/la-tasa-de-homicidios-en-nicaragua-baja-8-a-6-por-cada-100-000-habitantes/20000013-3376263  Los datos de la Argentina fueron publicado por Infobae en  https://www.infobae.com/politica/2018/06/19/el-gobierno-anuncio-una-baja-en-la-tasa-de-homicidios-y-robos/

[2] Cf.  http://www.bancomundial.org/es/country/nicaragua/overview

[3] https://www.lanacion.com.ar/2101437-el-deficit-fiscal-fue-del-39-en-2017-y-el-gobierno-sobrecumplio-la-meta

[4] Cf. “La niña en el bote”, en Página/12, 18 Julio 2018, https://www.pagina12.com.ar/129111-la-nina-en-el-bote

Share Button

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.