Perché non sono intervenuti in Venezuela?

Marco Teruggi  www.cubadebate.cu

Creare condizioni, misurare il consenso, passare all’azione. Quella sequenza è in sviluppo ed ha problemi che sono copertine di giornali. La questione Venezuela è entrata in una zona di tensione in cui i fili delle parole sono il terreno pubblico dei disaccordi che esistono dietro le porte. In termini sintetizzati: intervento sì o no, che tipo di azione, chi alla guida.

Le condizioni sono in costruzione permanente da anni. Funziona allo stesso modo come l’attacco all’economia: ogni volta più forza, volume, attori. L’epicentro della matrice si è concentrato sulla crisi umanitaria/esodo/violazione dei diritti umani. La moltiplicazione ed il posizionamento quotidiano di questo immaginario è stato fatto attraverso i grandi media, presidenti e vari funzionari dei governi di destra, organismi internazionali, organizzazioni non governative.

Puntano e sparano, in modo coordinato, parole chiave, accompagnate da immagini, storie. Si tratta di convincere che il Venezuela è una dittatura che rifiuta di ricevere aiuti umanitari e crea povertà come parte del suo piano di controllo politico. Quella costruzione ha tempo e siamo in una nuova fase: il post 20 maggio, data a partire dalla quale il ventaglio di governi articolato contro il Venezuela non riconosce il presidente come legittimo.

L’obiettivo è generare il punto di supporto che giustifichi nuove azioni nei corridoi in cui vengono prese le decisioni e nell’opinione pubblica. Attacchi all’economia, per fare pressione con un crescente blocco, e sul piano internazionale, come il tentativo, ad esempio, di portare Nicolás Maduro alla Corte Penale Internazionale, un’azione che i ministri degli esteri di Argentina, Perù, Cile, Colombia e Paraguay cercheranno di attivare dall’assemblea generale dell’ONU. E’ parte del piano, come previsto, i veli caduti. Per alcuni non è sufficiente: se questa è una dittatura, allora si deve ricorrere ad altri modi. Lì i consensi che non arrivano, le dispute su obiettivi e metodi.

La frontiera tra Colombia e Venezuela, all’altezza di Cúcuta, è diventata l’epicentro di spettacoli ed annunci. Da lì, il segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, ha affermato che non si doveva scartare alcuna opzione contro il Venezuela, includendo “l’intervento militare per rovesciare il regime di Nicolás Maduro”. Di fronte a questa affermazione il Gruppo Lima, che raggruppa i paesi del continente che guidano le azioni contro il Venezuela, ha espresso il proprio “rifiuto di fronte a qualsiasi condotta o dichiarazione che implichi un intervento militare o l’esercizio della violenza, minaccia o uso di la forza in Venezuela”.

Lo stesso Almagro ha, in seguito, affermato che le sue parole erano state male interpretate, che il suo messaggio era “integralmente di non violenza”. Ha attraversato una linea che non ha consenso. La stessa tensione si era verificata l’anno scorso quando, dopo l’annuncio di Donald Trump di non escludere un intervento militare contro il Venezuela, diversi presidenti del continente, come l’allora presidente della Colombia, Juan Manuel Santos, hanno dovuto staccarsi, pubblicamente, da quella possibilità.

È proprio in Colombia dove tale situazione è rimasta esposta. Il governo non ha firmato la citata dichiarazione del Gruppo di Lima, poi l’ambasciatore colombiano negli USA ha affermato che, riferendosi al Venezuela, “tutte le opzioni devono essere considerate” ed il presidente Ivan Duque ha dichiarato: “Ribadisco: questo non è uno spirito bellicista”, in una continuità della sua precedente affermazione, in cui si aveva detto di non “sponsorizzare interventi militari”. Linee incrociate, dette e smentite, una prova di mancanza di consenso pubblico e, soprattutto, di accordo interno.

Questo scenario deve essere rintracciato al suo punto decisorio: gli USA. È lì dove le divisioni riguardanti le modalità da seguire contro il Venezuela sono venute alla luce. Il quotidiano New York Time (NYT) che ha scoperto/segnalato che l’amministrazione Trump aveva incontrato settori golpisti, e poi, in un editoriale, si è posizionato contro un intervento armato contro il Venezuela. Non solo è stato esposto il piano interventista, di un settore del governo di Trump, ma anche le dispute interne e con i democratici.

Gli articoli del NYT hanno avuto luogo dopo una escalation verbale pro-interventista, incarnata, tra altri, dal senatore USA Marco Rubio, ed a poco dalle elezioni legislative e dei governatori di novembre. La posizione del NYT ha espresso l’opinione del settore che sostiene che le azioni contro il Venezuela, -che anche qualificano come dittatura- dovrebbero centrarsi sull’economico, diplomatico e nel piano di collasso.

L’ipotesi dell’intervento militare si indebolisce senza accordo negli USA né in Colombia. La sua realizzazione non dipende dalla destra venezuelana che attraversa un momento di profonda debolezza e che, secondo lo stesso articolo del NYT, è poco affidabile -riferimento a coloro che conversavano con il governo Trump per ottenere l’assalto-. L’opposizione sa che dipende dal fronte internazionale, ma non ha accordo interno sul modo di procedere, come espresso da JJ Rendón in una recente intervista, in cui ha affermato che l’unico modo per rovesciare il governo di Maduro è attraverso un intervento -secondo lui sarebbe chirurgico, pulito, veloce.

La realtà non sarebbe quella, e l’apertura di uno scenario di intervento porta con sé diverse domande. In primo luogo, la convenienza nella stessa logica del conflitto: una quadro di caos prolungato favorisce la strategia a medio termine nella logica di riconfigurazione dei territori e dei soggetti, ed a coloro che si arricchiscono con il contrabbando di estrazione o con l’affare della crisi umanitaria. L’ambasciatore USA in Colombia, Kevin Whitaker, ha detto che il direttore dell’USAID -Agenzia per lo Sviluppo Internazionale USA, dipendente dal Dipartimento di Stato- ha firmato un memorandum per arrivare ad un totale di 60 milioni di dollari alla Colombia per far fronte all’immigrazione venezuelana. Questa è solo una delle fonti di finanziamento.

Almagro ha sottolineato, da Cucuta, la necessità di “captare risorse addizionali, nuove, che significano un contributo finanziario a questo processo, questo processo richiede un sacco di risorse”, ed il ministro degli Esteri colombiano, Carlos Holmes Trujillo, ha chiesto all’ONU “un fondo umanitario di emergenza per rafforzare la capacità di bilancio”.

Ogni azione presentata come ben intenzionata è denaro, come i primi tre mila dollari iniziali pagati ad ogni medico integrante dei Caschi Bianchi inviati dall’Argentina a Cucuta, finanziati dal governo argentino, operato attraverso un’assicurazione sanitaria privata -la tenda dei Caschi è attualmente chiusa, secondo le informazioni sul terreno, poiché il governo colombiano non ha messo le forniture ed il denaro per le derivazioni all’ospedale di primo livello.

In secondo luogo, la domanda è quale sarebbe la via per quell’azione di forza che cercherebbe un epilogo. L’ipotesi più probabile è che il territorio attraverso il quale esploderebbe sarebbe la Colombia. Whitaker, alla domanda se gli USA sostennero la Colombia di fronte ad una “aggressione militare del Venezuela”, ha risposto che il presidente Duque ed il segretario della Difesa USA, James Mattis, hanno recentemente discusso la questione, e che “la Colombia può contare su di noi”. Basandosi su questa linea di costruzione dello scenario s’inquadrano le recenti accuse da parte del governo colombiano circa la presunta incursione -negata dal Venezuela- di venti membri della Guardia Nazionale Bolivariana in Colombia.

Creare condizioni, oltrepassare consensi e far marcia indietro, abituare ad immaginari di frontiera e combattimenti, questa dinamica è installata, accelerata, è pubblica con una evidenza frontale. I settori che pianificano azioni come quella del fallito assassinio continuano i loro piani ed un nuovo episodio, con quelle caratteristiche, non deve sorprendere. Una risoluzione a favore di un intervento condotto apertamente attraverso la Colombia, gestita dagli USA, accettata su entrambi i fronti interni, sembra, invece, più distante. È necessaria un’azione di tale natura di risoluzione incerta ed alto costo politico? I metodi per la forza saranno, sicuramente, per altre vie, le forme della guerra mutano.

(Tratto da teleSUR)


¿Por qué no han intervenido en Venezuela?

Por: Marco Teruggi

Crear condiciones, medir consensos, pasar al acto. Esa secuencia está en desarrollo y tiene problemas que son tapas de diario. La cuestión Venezuela ha ingresado en una zona de tensión donde los filos de las palabras son el terreno público de los desacuerdos que existen tras las puertas. En términos sintetizados: intervención si o no, qué tipo de acción, quiénes a la cabeza.

Las condiciones están en construcción permanente desde hace años. Funciona al igual que el ataque sobre la economía: cada más fuerza, volumen, actores. El epicentro de la matriz se ha centrado en la crisis humanitaria/éxodo/violación de derechos humanos. La multiplicación y posicionamiento diario de este imaginario se ha hecho a través de grandes medios de comunicación, presidentes y diversos funcionarios de gobiernos de derecha, organismos internacionales, organizaciones no gubernamentales.

Apuntan y disparan de manera coordinada palabras claves, acompañadas de imágenes, relatos. Se trata de convencer que Venezuela es una dictadura que se niega a recibir ayuda humanitaria y crea pobreza como parte de su plan de control político. Esa construcción tiene tiempo y estamos en una nueva etapa: el post 20 de mayo, fecha a partir de la cual el abanico de gobiernos articulado contra Venezuela no reconoce al presidente como legítimo.

El objetivo es generar el punto de apoyo que justifique nuevas acciones en los pasillos donde se toman decisiones y en la opinión pública. Ataques sobre la economía, de manera a presionar con un bloqueo creciente, y sobre lo internacional, como el intento, por ejemplo, de llevar a Nicolás Maduro a la Corte Penal Internacional, una acción que los cancilleres de Argentina, Perú, Chile, Colombia y Paraguay buscarán activar desde la asamblea general de Naciones Unidas. Es parte del plan, lo esperable, los velos caídos. Para algunos no es suficiente: si esto es una dictadura entonces se debe recurrir a otras vías. Allí los consensos que no alcanzan, las disputas sobre objetivos y métodos.

La frontera entre Colombia y Venezuela a la altura de Cúcuta se ha vuelto epicentro de actuaciones y anuncios. Desde ahí el secretario de la Organización de Estados Americanos, Luis Almagro, afirmó que no se debía descartar ninguna opción contra Venezuela, incluyendo la “intervención militar para derrocar al régimen de Nicolás Maduro”. Ante esa afirmación el Grupo de Lima, que agrupa los países del continente que encabezan las acciones contra Venezuela, manifestó su “rechazo ante cualquier curso de acción o declaración que implique una intervención militar o el ejercicio de la violencia, la amenaza o el uso de la fuerza en Venezuela”.

El mismo Almagro afirmó luego que sus palabras habían sido malinterpretadas, que su mensaje era “integralmente de no violencia”. Cruzó una línea que no tiene consenso. La misma tensión había ocurrido el año pasado cuando luego del anuncio de Donald Trump de no descartar una intervención militar contra Venezuela, varios presidentes del continente, como el entonces mandatario de Colombia, Juan Manuel Santos, tuvieron que despegarse públicamente de esa posibilidad.

Es justamente en Colombia donde esa situación quedó expuesta. El gobierno no firmó el mencionado comunicado del Grupo de Lima, luego el embajador de Colombia ante los Estados Unidos (EEUU) afirmó que, refiriéndose a Venezuela, “todas las opciones deben ser consideradas”, y el presidente Iván Duque declaró: “Me reafirmo: esto no es un espíritu belicista”, en una continuidad de su declaración anterior, donde había dio no ser “patrocinador de intervenciones militar”. Líneas cruzadas, dichos y desmentidas, una evidencia de falta de consenso público, y, sobre todo, de acuerdo interno.

Ese escenario debe rastrearse hasta su punto decisorio: los EEUU. Es allí donde tomó luz pública las divisiones respecto a las vías a seguir contra Venezuela. El periódico New York Time (NYT) quien destapó/señaló a la administración de Trump de estar reunida con sectores golpistas, y luego, en una editorial, se posicionó en contra de una intervención armada contra Venezuela. No solamente quedó expuesta el plan intervencionista de un sector del gobierno de Trump, sino también las disputas internas, y con demócratas.

Los artículos del NYT se dieron luego de un alzamiento verbal pro-intervencionista, encarnado entre otros por el senador norteamericano Marco Rubio, y a poco de las elecciones legislativas y de gobernadores del mes de noviembre. La posición del NYT expresó la mirada del sector que sostiene que las acciones contra Venezuela -que también califican de dictadura- deben centrarse en lo económico, diplomático, en el plan de colapso.

La hipótesis de la intervención militar se debilita sin acuerdo en los EEUU ni en Colombia. Su implementación no depende de la derecha venezolana que atraviesa un momento de debilidad profunda, y que, según el mismo artículo del NYT es poco confiable –en referencia a quienes conversaban con el gobierno de Trump para lograr el asalto-. La oposición sabe que depende del frente internacional, pero no tiene acuerdo interno acerca del camino a seguir, como lo expresó J.J Rendón en una reciente entrevista, donde afirmó que la única posibilidad de derrocar al gobierno de Maduro es a través de una intervención -según él sería quirúrgica, limpia, veloz.

La realidad no sería esa, y abrir un escenario de intervención trae aparejada varias preguntas. En primer lugar, la conveniencia en la misma lógica del conflicto: un cuadro de caotización prolongado favorece a la estrategia de mediano plazo en la lógica de reconfiguración de territorios y sujetos, y a quienes se enriquecen con el contrabando de extracción, o con el negocio de la crisis humanitaria. El embajador de EEUU en Colombia, Kevin Whitaker, afirmó que el director de la Usaid -Agencia para el Desarrollo Internacional de EEUU, dependiente del Departamento de Estado- firmó un memorando para llegar a un total de 60 millones de dólares a Colombia para hacer frente a la inmigración venezolana. Esa es solamente una de las fuentes de financiamiento.

Almagro subrayó desde Cúcuta la necesidad de “captar recursos adicionales, nuevos, que significan un aporte financiero a este proceso, este proceso requiere muchísimos recursos”, y el canciller colombiano, Carlos Holmes Trujillo, pidió ante la ONU “un fondo humanitario de emergencia para fortalecer la capacidad presupuestal”.

Cada acción presentada como bienintencionada es dinero, como los más de tres mil dólares iniciales pagados a cada médico integrante de los Cascos Blancos enviados desde Argentina a Cúcuta, financiados por el gobierno argentino, operado a través de un seguro de salud privado -la carpa de Cascos está actualmente cerrada, según informaciones en el terreno, debido a que el gobierno colombiano no puso los insumos y el dinero para las derivaciones al hospital de primer nivel.

En segundo lugar, la pregunta es cuál sería la vía para esa acción de fuerza que buscaría un desenlace. La hipótesis más probable es que el territorio a través del cuál detonaría sería Colombia. Whitaker, ante la pregunta de si EEUU apoyaron a Colombia ante una “agresión militar venezolana” respondió que el presidente Duque y el secretario de Defensa de los EEUU, James Mattis, discutieron el tema recientemente, y que “Colombia puede contar con nosotros”. En esa línea de construcción de escenario se enmarcan las recientes denuncias del gobierno colombiano acerca de la supuesta incursión -negada por Venezuela- de veinte miembros de la Guardia Nacional Bolivariana en Colombia.

Crear condiciones, traspasar consensos y dar marcha atrás, habituar a imaginarios de frontera y enfrentamientos, esa dinámica está instalada, acelerada, es pública con una evidencia frontal. Los sectores que planifican acciones como las del magnicidio frustrado continúan sus planes, y un nuevo episodio de esas características no debe sorprender. Una resolución a favor de una intervención conducida abiertamente a través de Colombia, manejada por los EEUU, acordada en ambos frentes internos, parece en cambio más lejana. ¿Es necesaria una acción de esa naturaleza de resolución incierta y alto costo político? Los métodos para la fuerza seguramente serán por otros caminos, las formas de la guerra mutan.

(Tomado de teleSUR)

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