La drammatica marcia dei migranti centroamericani

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Aveva sette anni la bimba guatemalteca Jakelin Caal Maquin, morta mentre era sotto la custodia delle guardie di frontiera USA, che si sono disinteressate delle sue condizioni di salute fino a quando non è stato troppo tardi. A ucciderla sembra sia stata la disidratazione conseguente a shock settico.

E il giorno di Natale la stessa sorte è toccata a un ragazzino di otto anni, Félix Gómez Alonzo, anche lui guatemalteco: portato all’ospedale il giorno prima, gli era stato diagnosticato un semplice raffreddore ed era stato dimesso. Sono le vittime della drammatica crisi dei migranti centroamericani che in migliaia, a partire dal 12 ottobre, hanno percorso chilometri e chilometri fuggendo dalla miseria e dalla violenza delle maras. Ad attenderli al confine con gli Stati Uniti hanno però trovato l’esercito, incaricato di respingere “l’invasione”.

La brutalità delle autorità nordamericane del resto è notoria: in giugno aveva destato scandalo l’immagine dei tanti bambini separati dai familiari e rinchiusi in grosse gabbie perché colpevoli di essere entrati illegalmente nel paese. Un provvedimento inumano che aveva destato indignazione nel mondo intero, obbligando l’amministrazione statunitense a fare (parzialmente) marcia indietro. Ma non tutti i piccoli sono stati poi restituiti ai genitori: alcuni si sono persi nei meandri della burocrazia, che in questa occasione si è rivelata estremamente inefficiente.

I migranti di questi mesi non sono certo i primi ad aver intrapreso il lungo viaggio inseguendo il sogno americano; a differenza del passato, però, non si sono incamminati alla spicciolata, ma in grandi gruppi per evitare le tante insidie del cammino, le estorsioni dei funzionari e la violenza delle bande criminali. La loro vicenda è stata sfruttata ampiamente da Donald Trump per contenere il previsto calo di consensi nelle elezioni di medio termine del 6 novembre. A tal fine non ha esitato a definire la situazione una “emergenza nazionale”, denunciando la presenza nelle carovane di “criminali e sconosciuti provenienti dal Medio Oriente”. Come rappresaglia ha poi ridotto gli aiuti economici a Guatemala, Salvador e Honduras, che – ha scritto in Twitter – non hanno impedito l’emigrazione dei loro concittadini. Quanto al governo del presidente uscente Peña Nieto, dietro pressione statunitense ha accolto i migranti con agenti antisommossa e lancio di gas lacrimogeni. E a fine ottobre, mentre insieme agli altri tentava di passare la frontiera tra Messico e Guatemala, un giovane honduregno è stato mortalmente ferito alla testa da una pallottola di gomma.

Nel corso della loro lunga marcia le carovane hanno spesso incontrato la solidarietà e l’aiuto della popolazione locale. Ben diversa la situazione una volta a Tijuana, città al confine con gli Stati Uniti, dove gli abitanti hanno accolto con ostilità l’arrivo di queste masse di disperati. Davanti alla prospettiva di passare mesi prima di ottenere dalle autorità Usa una risposta alla loro richiesta di asilo, a fine novembre alcuni migranti hanno tentato di superare gli sbarramenti che li separavano dalla meta, ma sono stati respinti con la forza. Posti di fronte alla realtà, molti hanno intrapreso tristemente la via del ritorno con l’aiuto delle rispettive ambasciate. Altri si sono fermati in Messico, sperando nell’impiego promesso da un progetto statale in collaborazione con imprese private. La maggioranza si è rassegnata all’attesa, a due passi dalla “terra promessa”.

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