Il pane e le rose

Alessandra Riccio – https://nostramerica.wordpress.com

Volevamo, vogliamo, vorremo sempre il pane e le rose. La frase è suggestiva e sembra evocare qualcosa di semplice, a portata di mano. Un’elementare richiesta di buona vita, forse addirittura di felicità. Invece, alla prova dei fatti, volere, insieme al pane, anche le rose è una meta ambiziosissima, pretenziosa, scandalosa. E’ come l’utopia secondo Edoardo Galeano, una meta irraggiungibile, ma che ha il pregio di stimolarci a camminare, ad andare sempre avanti, mentre l’orizzonte utopico si allontana, crudele.

Così mi sembra la storia della Rivoluzione cubana, un’esperienza originale, nata nel 1959 ma incubata per cento anni, quando l’isola viveva sotto la sferza colonialista del Regno di Spagna che non voleva mollare l’ultimo gioiello della corona del suo ormai decadente impero e che aveva poi subito l’oltraggio di vedersi scippare la sovranità nazionale dalle imposizioni degli Stati Uniti d’America, intervenuti negli ultimi mesi di guerra per assicurarsi basi militari e controllo totale della vita della nuova repubblica, compreso il diritto di intervento militare sugli affari interni.

La lunga incubazione del progetto nazionale ha portato non solo alla liberazione del paese dall’ultimo tiranno Fulgencio Batista, ma all’arrivo al potere di una generazione di giovanissimi con le idee chiare e un programma di governo davvero rivoluzionario, radicato in un fortissimo consenso popolare che, per quanto eroso nei suoi sessant’anni di governo, è tuttora molto forte.

Sessant’anni di grandi sacrifici, di partecipazione, di dissenso, di colpi di scena, di protagonismo sul teatro del mondo; sessant’anni in cui sono stati commessi errori, si sono raggiunte mete importanti, si sono rischiati pericoli di eliminazione totale. Questi sessant’anni di vita, nell’opinione pubblica internazionale, sono stati riassunti in un unico personaggio, Fidel Castro, colpevole di tutto, responsabile di tutto, meritevole di tutto.

La grandezza storica di questo personaggio è ormi accertata, la sua intelligenza politica, il suo ardimento, la sua fede nel popolo cubano, l’impegno a dargli, oltre al pane, le rose. Nei circa quarant’anni di un potere che non lo ha logorato, l’orizzonte a cui tendeva, per quanto irraggiungibile, l’ha spronato a camminare, ad andare sempre avanti, a cercare in tutti i modi di riuscire a costruire una società di cittadini sani, istruiti, sovrani. Stiamo pur sempre parlando del Terzo Mondo, cioè dello standard di vita dei tre quarti del pianeta.

Alla testa di questa rivoluzione, alla guida dei cambiamenti radicali, vigilando sulle trappole, i trabocchetti, le destabilizzazioni, gli agguati interni e, soprattutto esterni, c’è stato Fidel Castro, líder máximo, stratega, statista, prudente ed ardito, amato e rispettato in patria da molti e da moltissimi nel Terzo Mondo alla cui difesa ha dedicato molte delle sue energie. Il peso del personaggio Fidel è stato talmente forte che assai poco ha contato il fatto che dal 2006, fino alla sua morte nel 2016, Fidel Castro, gravemente ammalato, impossibilitato a intervenire senza risparmio di energie, come era suo costume, ad ogni evento nazionale o internazionale, in un mondo che, nel Terzo Millennio, cambiava vorticosamente, è rimasto legato alla sua sedia a rotelle e ha sostituito la sua leggendaria oratoria con la penna con cui scriveva le sue “Riflessioni” sulla politica internazionale, sul rischio ambientale, sul cambio climatico, sulla importanza di consolidare l’alleanza regionale che, in un felice momento, era stato possibile costruire fra Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Nicaragua e altri paesi del Caribe a cui fu dato il nome di ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de nuestra América).

Lo sostituiva al comando l’uomo che da sempre era stato il suo secondo, la sua spalla, il fratello Raúl Castro, poco adatto e meno ancora addetto alle regole della comunicazione, ma instancabile nel lavoro di governo e adatto al delicato momento che attraversava il paese. E’ toccato a lui negoziare con Barak Obama, riceverlo all’Avana in una storica visita, mentre Fidel, dalla sua sedia a rotelle, avvertiva già della falsità di quella grande operazione mediatica operata dagli Stati Uniti di Obama. E’ toccato a lui, a Raúl, gestire cose così inusuali e distanti dal suo curriculum di militare come la grande sfilata di Chanel sulla Avenida del Prado, la visita di Rihanna, di Paris Hilton e di Naomi Campbell, del clan Kardashian, il grande concerto dei Rolling Stones e di tante altre stars del rutilante mondo dello spettacolo che fa impazzire il mondo fuori dalle coste di Cuba. Come annunciato, Raúl Castro ha lasciato l’incarico dopo cinque anni, ora il Presidente del Consiglio di Stato e dei Ministri è Miguel Díaz Canel, già vice primo ministro, un cinquantenne nato dopo la rivoluzione e cresciuto nella rivoluzione, eletto dal Parlamento e chiara espressione della volontà di rinnovamento partendo dalla tradizione e dai principi della Rivoluzione.

Dunque, il “castrismo”, un indefinito sistema politico legato a questo pesantissimo cognome, non c’è più. Il paese ha attraversato la malattia di Fidel, la reggenza di Raúl e adesso la Presidenza di Díaz Canel. Ha digerito il voltafaccia degli Stati Uniti che, dopo l’apertura delle ambasciate, la visita di Obama e l’avvio di negoziati, ha visto una brutale marcia indietro negli anni di Trump. Assiste con preoccupazione alla disgregazione delle alleanze territoriali in America Latina, ai rigurgiti fascisti, alle guerre giudiziarie contro Dilma Roussef, Lula, Cristina Fernández, all’inquieto Nicaragua sandinista, al voltafaccia di Lenin Moreno in Ecuador, ai continui colpi ai fianchi del Venezuela, ancora l’alleato più solidale e più vicino a Cuba. Eppure, Cuba è ancora lì.

Per trenta anni ho accompagnato e seguito gli eventi, le crisi, i successi e i pericoli della società cubana in rivoluzione. Negli anni Settanta, quando sono arrivata per la prima volta all’Avana, ero convinta che i nostri sogni, i miei e quelli di una buona parte dell’umanità, fossero a un passo dal realizzarsi.

A sessant’anni da quel gennaio 1959, vedo che Cuba è ancora lì, cambiando tutto quello che deve essere cambiato, resistendo a tanti colpi, inseguendo sempre la sua utopia: all’umanità, il pane e rose.

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