Venezuela, il fallimento di Guaidó

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L’offensiva golpista contro la Repubblica Bolivariana, senza tregua da quando Juan Guaidó si è autoproclamato presidente, non sembra aver raggiunto finora i suoi obiettivi.

Il 24 gennaio la mozione a favore di Guaidó otteneva solo i voti di 16 dei 35 membri dell’Organizzazione degli Stati Americani. Due giorni dopo, nella riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, numerosi paesi (tra questi Russia, Cina, Cuba, Bolivia) esprimevano il loro sostegno a Maduro. E anche l’Unione Europea non assumeva una posizione unanime: se il Parlamento di Strasburgo riconosceva come “legittimo presidente ad interim” l’autonominato capo di Stato e alcuni governi, a partire da quelli di Madrid, Londra e Parigi, si allineavano alle posizioni di Washington, Roma si richiamava al principio di non interferenza e dichiarava di voler evitare in Venezuela “lo stesso errore che è stato commesso in Libia”.

Intanto l’amministrazione Trump decideva nuove e più dure sanzioni economiche, congelando beni della Pdvsa e della sua filiale in territorio statunitense, la Citgo (di cui la Russia possiede quasi la metà delle azioni). Proprio la compagnia petrolifera statale è uno dei principali obiettivi degli antichavisti come risulta dalle linee guida, approvate agli inizi di febbraio dall’Asamblea Nacional presieduta da Guaidó, per la fase di transizione dopo l’eventuale vittoria del golpe. Il documento prevede non solo lo smantellamento della rete di protezione sociale, ma il controllo e la privatizzazione di Pdvsa. E non c’è solo il petrolio o il gas su cui mettere le mani: il Venezuela è ricchissimo anche di oro, ferro, diamanti, coltan.

Le intenzioni della Casa Bianca sono state ben evidenziate dalla decisione di conferire a Elliott Abrams l’incarico di rappresentante speciale per il Venezuela con il compito di “restaurare la democrazia”. Abrams è un personaggio già tristemente noto nella regione dai tempi di Ronald Reagan, quando aveva coperto le atrocità dei regimi alleati degli Stati Uniti in Guatemala e in Salvador e sostenuto le operazioni dei contras in Nicaragua. Per finanziare questi ultimi era stato coinvolto nello scandalo Iran-Contras, la vendita illegale di armi a Teheran i cui proventi andavano ai gruppi armati controrivoluzionari e alle loro azioni antisandiniste.

In appoggio ai tentativi golpisti non è mai mancato il massiccio sostegno dei media occidentali che quasi senza eccezione hanno presentato un quadro distorto della situazione, amplificando ogni iniziativa dell’opposizione e passando sotto silenzio le mobilitazioni filogovernative. Come quella, imponente, del 2 febbraio, con cui la Rivoluzione Bolivariana ha celebrato i vent’anni dall’arrivo di Hugo Chávez alla presidenza. In quell’occasione Maduro si è dichiarato una volta di più disposto al dialogo promosso da Messico e Uruguay, cui si sono aggiunti ora la Bolivia e i paesi della Comunità dei Caraibi (Caricom).

Ma Guaidó e i suoi sponsor statunitensi puntano allo scontro: la giornata scelta era quella del 23 febbraio, in cui veniva annunciato con grande clamore l’ingresso nel paese degli “aiuti umanitari”. La vigilia era contrassegnata da due concerti contrapposti che avevano radunato decine di migliaia di persone al confine con la Colombia. In territorio venezuelano il Concierto por La Paz contro ogni ingerenza esterna; sull’altro lato il Venezuela Aid Live, organizzato dal miliardario Richard Branson in appoggio all’entrata di una carovana di automezzi ufficialmente carichi di alimenti e medicinali provenienti dagli Usa. Verso la fine di quest’ultimo spettacolo Guaidó faceva un’apparizione a sorpresa accompagnato da tre presidenti latinoamericani (il colombiano Duque, il cileno Piñera e il paraguayano Abdo), nonché dal segretario generale dell’Oea, Almagro.

Nonostante tutti questi appoggi, l’azione si è risolta in un clamoroso fallimento. Il giorno fatidico è trascorso in mezzo a vani tentativi di abbattere con la forza lo sbarramento alla frontiera. Le tanto attese defezioni all’interno della FANB, la Fuerza Armada Nacional Bolivariana, non si sono prodotte e l’unico fatto degno di nota è stato l’incendio di due camion. I seguaci di Guaidó hanno subito incolpato del rogo i chavisti, smentiti da un video che mostra chiaramente come il fuoco venga appiccato dalle molotov lanciate dal lato colombiano. Lo confermerà in seguito anche The New York Times. Lo stesso quotidiano statunitense riporterà quanto è stato scoperto una volta domate le fiamme: i mezzi non contenevano cibo o farmaci, ma equipaggiamento per la guerriglia urbana.

L’insuccesso del 23 febbraio ha spinto i paesi latinoamericani ed europei ad adottare una posizione più prudente, ribadendo la contrarietà a un intervento militare. Anche il Brasile, per bocca del vicepresidente Mourão, ha escluso azioni esterne. Gli ultimi avvenimenti hanno infatti mostrato chiaramente che Guaidó ha ben pochi appoggi in patria (anche una parte consistente dell’opposizione non lo sostiene): la sua unica forza sono i governi di destra del continente. In particolare gli Stati Uniti, decisi a ricorrere a ogni mezzo per abbattere il “dittatore” Maduro. La mossa seguente è stata l’attacco informatico alla rete elettrica venezuelana, che ha provocato un gigantesco apagón in buona parte del paese a partire dal pomeriggio del 7 marzo. Le conseguenze si sono protratte per quasi una settimana, creando innumerevoli disagi: mancanza di illuminazione, di refrigerazione, di acqua, di comunicazioni. Ma ancora una volta i calcoli si sono dimostrati sbagliati: la prevista sollevazione popolare contro il governo, che avrebbe dovuto servire da pretesto per l’intervento, non si è verificata. Anzi, due giorni dopo l’inizio dell’apagón, due manifestazioni opposte dimostravano ancora una volta la maggiore capacità di convocazione del chavismo rispetto agli avversari.

E mentre Washington inaspriva ulteriormente le sanzioni contro Caracas, il governo bolivariano annunciava il 23 marzo la scoperta di una nuova cospirazione organizzata da Guaidó e dal suo partito, Voluntad Popular. Sicari contrattati dal Salvador, dal Guatemala e dall’Honduras, con lo scopo di realizzare attentati e sabotaggi, sarebbero già entrati nel paese e ora sono attivamente ricercati; un capo paramilitare colombiano, Wilfrido Torres Gómez, è stato catturato. Nel complotto è coinvolto uno stretto collaboratore di Guaidó, Roberto Marrero, arrestato nella sua abitazione dove sono state trovate numerose armi. Proprio il cellulare di Marrero ha fornito numerose prove del progetto eversivo.

 

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