USA e Cuba: prospettive e retroscena di un disgelo

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Franco CardiniGiustamente Raul Castro, nella sua allocuzione televisiva ai cubani, ha espresso “riconoscimento” nei confronti di Obama e gratitudine in quelli di Bergoglio. Il papa venuto dall’America latina sa bene con quanta violenza e quanta durezza gli Stati Uniti abbiano perseguito, negli ultimi due secoli circa, il programma di egemonia continentale enunziato dal presidente Monroe nel 1823.

Che la Cuba socialista sia sopravvissuta per oltre mezzo secolo alla pressione statunitense, nonostante gli stenti e la ristrettezza che un embargo durissimo, unilaterale e illegittimo sotto il profilo del diritto internazionale le imponevano, non è affatto una prova del “fallimento del comunismo”, come blatera gran parte della nostra stampa: è, al contrario, una prova dell’eroismo del popolo cubano e del consenso che – nonostante il regime di repressione e in qualche momento di terrore che il castrismo ha senza dubbio instaurato – esso ha nella sua maggioranza accordato a Fidel e a coloro che ne stanno continuando l’opera adesso che le sue condizioni di salute non gli consentono più di portarne il peso.

Non dobbiamo certo dimenticare gli orrori, la giustizia sommaria, le torture, la lotta contro la Chiesa cattolica, la repressione politica. Tutto ciò fa parte del castrismo, come ne fa parte il fenomeno – ben noto a molti turisti, che ci andavano apposta sfruttando il bisogno e la miseria – della prostituzione in cambio di qualche soldo in valuta o di qualche agognato bene di consumo.

Ma chi giudicava il regime comunista cubano solo alla luce di questo dimenticava la straordinaria dignità, la fierezza di un popolo che ha saputo liberarsi da una dittatura militare infame e bestiale che davvero aveva ridotto La Habana al rango di grande bordello e di grande bisca per i viziosi americani e di ogni altro continente, che ha saputo resistere al gigante statunitense battendolo e umiliandolo alla Baia dei Porci e che ha creato una società nella quale istruzione scolastica e universitaria e assistenza medica erano e restano ai primissimi posti rispetto al resto del mondo.

Ora, il gioco passa agli Stati Uniti. I repubblicani faranno di tutto, in sede parlamentare, per eliminare o ridimensionare e procrastinare i risultati dell’apertura dimostrata da Obama: chiederanno garanzie, anzitutto quella di un “ritorno del popolo cubano alla libertà”. Che non sarà tanto la progressiva introduzione di un sistema pluripartitico, la liberalizzazione dell’accesso a internet e via discorrendo, quanto un ritorno quanto meno parziale nell’isola di buona parte dei gangsters travestiti da perseguitati e da rifugiati politici che ormai da decenni (insieme, e non va dimenticato, con perseguitati e rifugiati autentici) popolano al Florida in fervida attesa che, nel quadro di una futura macdonaldizzazione del paese, si permetta alle città cubane di riaprire bische e bordelli. A scapito magari di molte scuole, di molte università, di molte cliniche mediche le quali magari verranno chiuse in quanto “troppo dispendiose” e “poco remunerative”.

Intanto – nella lieta speranza (non oso dire consapevolezza) che il ”disgelo” del somos todos americanos permetta di alleviare le dure condizioni socioeconomiche nelle quali i cubani sono stati fino ad oggi costretti a vivere per colpa della prepotenza statunitense -, almeno due domande vanno poste nell’immediato a chi con tanto ottimismo ha salutato il passo di Obama, sulla cui personale buona fede non ho motivo di dubitare.

Primo: che ne sarà, nel nuovo clima di distensione, della vergogna del carcere di Guantanamo? Non sarebbe nell’interesse della dignità del popolo cubano che sta tornando ai fasti della democrazia il liberarlo dalla vergogna di ospitare sulla sua isola (sia pure in un regime di extraterritorialità) quella sentina di detenzione illegale e di tortura che offende e umilia il genere umano? Oppure il perpetuare dell’infamia sarà parte del “pacchetto” di rospi da inghiottire che il governo di Washington, condizionato dai fieri anticomunisti che siedono in Senato e nel Congresso, proporrà a Raul Castro?

Secondo: siamo sicuri che la “caduta del muro” tra Stati Uniti e Cuba, o comunque l’inizio di essa, coincida con la fine degli ultimi residui della guerra fredda? E se fosse invece parte di una nuova politica degli Stati Uniti che, preoccupati al contrario dello sviluppo della “nuova guerra fredda” nei confronti della Russia di Putin, vogliono impedire ai russi e ai loro alleati di pensare a qualunque prospettiva di sbarco politico-diplomatico nel continente americano e vogliono assicurarsi, tramite il ponte lanciato verso Cuba, un nuovo e diverso accesso anche alla volta di Venezuela, di Perù, di Brasile e via dicendo? Le “quinte colonne” statunitensi nel subcontinente latinoamericano stanno da anni facendo uno splendido lavoro usando strumenti quali la United Fruits, la CIA e le sette protestanti che hanno in certe aree (penso ad esempio al Nicaragua) soppiantato largamente la Chiesa cattolica (Bergoglio queste cose le sa benissimo).

Franco Cardini

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