L’Ecuador, cinque anni fa

Alessandra Riccio https://nostramerica.wordpress.com

Ce l’avevo fatta: dopo tanti anni quel tabù era caduto ed io ero finalmente arrivata in Ecuador, uno dei pochi paesi che ancora non conoscevo di un’ America che ha assorbito gran parte dei miei interessi e suscitato molte delle mie passioni. Calpestavo una terra che per molti anni ero stata incapace di includere nei miei viaggi, dopo che un terribile e crudelissimo incidente aereo aveva posto fine ai trenta anni di Ines, la migliore fra le mie allieve, la più ribelle e appassionata.

Aspettavo i suoi commenti su quel paese silenzioso e triste quando la radio mi aveva portato la terribile notizia. Non le avevo mai detto –ma lo sapevo- che l’aeroporto di Quito era noto per essere uno dei più pericolosi del mondo, nel cuore della città a sua volta stretta in una valle circondata dalle Ande e dal suo imponente vulcano, il Pichincha. E’ stato l’interesse suscitato dall’avvento del Presidente Correa e dalla sua “Revolución ciudadana” dopo una sequenza di sei presidenti cacciati via a furor di popolo, a farmi partire, prima ancora di sapere che, fra le tante cose nuove (un suo slogan è che non si tratta di un’epoca di cambio ma di un cambio d’epoca), Correa aveva dotato il paese di un nuovo e sicuro aeroporto.

Con l’arrivo di questo economista fermamente convinto che il neoliberismo è fonte di ingiustizie e di miseria per i più, l’Ecuador è uscito da una girandola di presidenti improponibili, di farse elettorali, di rivolte di piazza e di malgoverno costante. Nei circa sei anni di governo corroborato da elezioni che hanno visto rafforzato il consenso, Correa ha portato l’Ecuador, tradizionalmente ritirato dal proscenio, in prima fila insieme ai paesi dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA) verso una politica che sogna e lavora per una federazione di stati accomunati da lingua, storia e geografia e –soprattutto- dall’ansia di raggiungere quella piena sovranità che è stata loro sottratta dalla politica egemonica degli Stati Uniti d’America proprio agli albori delle conseguite indipendenze dai paesi colonizzatori e che si riassume nella fulminante e ambigua Dottrina Monroe: «L’America agli americani».

Ma una cosa è leggere e una cosa è vedere con i propri occhi. Eccomi dunque fuori dal moderno Aeroporto Mariscal Sucre, con un gran sole equatoriale temperato dai 3000 metri di altezza: cappello e occhiali da sole sono indispensabili, ma intanto, in quella cornice del tutto moderna e funzionale, lo sguardo è attratto da tre persone che si arrampicano su un terrapieno che separa uno svincolo stradale dal parcheggio. Sono due uomini e una donna in abiti tradizionali neri, tre sagome scure sul verde del prato ben curato, sotto il peso dei loro fagotti, il cui passo lento e sicuro mi avverte subito della loro dimestichezza con la verticalità di questo paese dove se non si sale, si scende. Per arrivare a Quito, la capitale, si va giù per venti chilometri fino ai suoi preoccupanti 2800 metri d’altezza a causa dei quali tutti ti avvertono di muoverti piano e di bere acqua. La città si annuncia subito fervente di lavori pubblici, minacciata da un traffico caotico ma anche pulita e controllata da un fiammante corpo di polizia urbana, appena riformata da un complessivo riordino di tutte le forze dell’ordine. Al semaforo, come da noi i lavavetri, una ragazza india, sorridente e bella nel suo abito tradizionale pieno di ricami, con un bambino in collo, vende uno squisito torrone. Ma il contesto è un grande viale affollato di automobili, fiancheggiato da un parco ben tenuto e con tutte le caratteristiche di una città moderna: semafori, piste ciclabili, vigili urbani. Il panorama cambia quando dal nord arriviamo al sud, nel centro storico della città, l’orgoglio di Quito, patrimonio dell’umanità, molto ben conservato e restaurato. Arrivandoci di notte, colpisce lo splendore dell’illuminazione pubblica, ma anche il fatto che le strade sono semideserte. Imparo subito che l’Ecuador, grande produttore di petrolio, ha dei costi molto bassi per il consumo di elettricità e che la notte non è né abituale, né consigliabile stare per strada, con l’eccezione della zona centrale, la Mariscal, dove, con un po’ di esagerazione, c’è qualche traccia di quella che ormai tutti chiamano “la movida”.

Ho in mente le parole di Jorgenrique Adoum, il grande intellettuale equatoriano scomparso da qualche anno, che avvertiva che chiamarsi Ecuador per un paese è un fatto ridicolo, rivelatore di come tutto un passato anteriore alla colonizzazione sia stato grossolanamente cancellato; secondo Adoum, chiamarsi Ecuador è ridicolo come lo sarebbe chiamarsi Meridiano o 38° Parallelo. Come dargli torto? Tutto uno spazio equatoriale, fitto di catene montuose, di vulcani ma anche di intricate foreste amazzoniche e di spaziose coste pacifiche, è abitato da popolazioni antiche, ben assuefatte alla complicata geografia del territorio, felicemente autarchiche, distanti dalle strutturate organizzazioni statali degli Inca (che qui hanno dominato per soli settanta anni!), ben addestrate all’autoconsumo e a sfruttare le diversità territoriali e climatiche per coltivare prodotti della terra durante tutto l’anno, devoti e rispettosi della madre terra, grazie alla quale non hanno sofferto la fame. E’ alla loro sensibilità e alla loro resistenza culturale che si deve la grande innovazione presente nella Costituzione voluta dal governo di Correa che riconosce alla Natura gli stessi diritti attribuiti alle persone. Eduardo Galeano, in un articolo del 2008, aveva esaltato la grandiosa opportunità di questa assoluta novità nella Magna Carta di un paese del nostro pianeta agonizzante

Ridotta a mera fonte di risorse naturali e buoni affari, lei [la natura] può essere legalmente ferita in modo serio e perfino sterminata, senza che si odano i suoi lamenti e senza che le norme giuridiche impediscano l’impunità dei suoi crimini. […] E mentre tutto ciò accade, un paese latinoamericano, l’Ecuador, sta discutendo una nuova costituzione. E in questa costituzione si apre la possibilità di riconoscere, per la prima volta nella storia universale, i diritti della natura.

Al sabato sera illuminato e deserto, segue una bella domenica di sole nel centro storico e nella Plaza Grande, il cuore della capitale, dove si affaccia il Palacio Carondelet, sede del Governo e, naturalmente, la bella cattedrale mentre, un po’ più ritirata, mostra la sua facciata barocca la strabiliante Chiesa della Compañía de Jesús, un vero gioiello, e prendetemi alla lettera: l’interno della chiesa è tutto laminato d’oro e il suo splendore evoca la leggendaria caverna di Alí Babà o, più realisticamente, la schiacciante grandezza con cui gli ordini religiosi cattolici, al seguito della Corona di Spagna, si sono insediati nelle terre coloniali annichilendo con simili scenografie il semplice stile di vita indigeno, amante del sumak kausai, l’armonia fra l’uomo e la natura che lo nutre e alimenta. Quel gioiello del passato è mantenuto splendidamente e accuratamente illustrato ai turisti da guide gentili e tranquille. Ci si rende conto presto del fatto che il carattere degli equatoriani è delicato; Adoum, che lo ha studiato con laica spregiudicatezza ma con grande amore, sostiene che è raro che ti dicano un NO netto perché sembrerebbe una scortesia, ed è veramente così per cui, salvata la gentilezza, c’è il rischio concreto che si creino molti equivoci. Tornando in piazza, il clima è animatissimo: è una giornata di promozione dell’uso della bicicletta, uno degli impegni presi non solo a livello municipale, ma per tutto il paese. E allora intere famiglie pigiano sui pedali nelle aspre salite o sfrecciano silenziose nella corrispondenti discese e sono grandi e piccoli, giovani e vecchi, uomini e donne, mentre nella piazza gruppi di anziani (qui li chiamano adultos mayores) provenienti dai villaggi vicini alla capitale, si sfidano in una gara di danze e di lettura di poesie. Le coreografie sono semplici e ingenue, gli anziani assolutamente incuranti del ridicolo possibile, sembrano godere immensamente dei loro movimenti, delle sfide amorose suggerite dalle parole delle canzoni e delle poesie, delle rose che gli anziani cavalieri offrono alle loro dame. Già, le rose. L’Ecuador è uno dei maggiori esportatori al mondo di questo fiore che qui assume colori e grandezze insolite. Se ne troveranno disposti con estrema cura ed eleganza in alberghi, ristoranti ed edifici pubblici ma il piacere estetico che offrono questi fiori delicati e alteri viene meno quando scopri che la coltivazione richiede l’impiego di antiparassitari molto nocivi e un notevole fatica fisica. Ci sarà un modo di conciliare la produzione con il buen vivir rivendicato negli impegni del governo di Rafael Correa? Il buen vivir, mi spiega Orlando Pérez, direttore del quotidiano El Telégrafo, uno dei pochi organi di stampa statali, è una politica di nuovo rapporto con la natura che sfida il mercato al quale non riconosce il diritto di dettare il modo di vivere al resto del mondo. Mentre aspettavo di parlare con il direttore nel piccolo edificio che è anche sede della Televisione di Stato, noto il silenzio, così insolito nella redazione di un giornale, appena interrotto dal ticchettio dei tacchi vertiginosi delle segretarie in aperto contrasto con le silenziose scarpe di corda delle inservienti che conservano il loro abito tradizionale sotto il camice.

Il problema dei mezzi di informazione è stato, ed è tuttora, uno dei punti caldi del Governo di Correa; come in quasi tutti i paesi dell’America Latina, i mezzi di informazione sono tradizionalmente in mano dei privati, e così anche in Ecuador. Adesso, per porre ordine in questa delicata materia, è stata varata la «Legge di democratizzazione della Comunicazione», assai discussa e avversata dalle opposizioni politiche che ancora battagliano sull’ affaire che ha visto il quotidiano El Universal opporsi a Correa nel 2010 con un articolo di Fernando Villavicencio, attualmente autoesiliatosi a Miami dove si è dichiarato un perseguitato politico. In quel famigerato articolo, giudicato ingiurioso dalla magistratura, Correa veniva accusato di aver ordinato, il 30 settembre, l’incursione armata nell’ospedale in cui si era rifugiato durante un’insurrezione di parte del corpo di Polizia che per poco non si era trasformati in un vero e proprio golpe, episodio cruento con un saldo di 17 morti, risoltosi poi, felicemente grazie al fatto che i militari, alla fine di una lunga giornata, hanno deciso di non schierarsi con i ribelli.

Impossibile lasciare Quito senza vedere la Capilla del Hombre e visitare la casa/studio del pittore Osvaldo Guayasamín, uno dei grandi artisti e intellettuali latinoamericani del novecento, morto nel 1999 senza aver visto terminata la grande opera con cui ha inteso –da laico di sinistra- celebrare l’uomo come cuore e soggetto della storia del Mondo. Il luogo, manco a dirlo, sulle pendici di un monte con la capitale al fondo, raccoglie, in una architettura di grande efficacia le monumentali opere pittoriche di Guayasamín, opere alle quali ha dedicato molti anni di lavoro e che dovranno restare per sempre nella Capilla, dove si celebrano e si ricordano le battaglie per affermare la dignità dell’uomo, la sua sovranità, il suo diritto all’amore. Nella sua casa/studio, raccolte in collezioni pregevoli, le memorie d’arte del mondo e dell’ America Latina, con una profusione di crocefissi che per il laico Guayasamín restano un simbolo dell’umanità. Sotto un albero frondoso, giacciono adesso il grande pittore e il fraterno amico Adoum, insieme a scrutare la valle, a vigilare sul paese che hanno celebrato, ognuno a suo modo; sono di Adoum queste semplici parole: «un paese splendido per la sua molteplicità geografica e umana, pieno di possibilità che lui stesso ignora».

Percorrendo le strade dell’Ecuador, fondamentalmente la leggendaria Panamericana, fra valli e montagne, orti completamente verticali, pascoli dove ci si chiede come facciano quelle donne coperte da colorate mantelline e le loro mucche a mantenersi su quei pendii, , il nastro d’asfalto, uno degli orgogli della Revolución Ciudadana, è davvero in ottime condizioni, con una buona segnaletica e qualche discreto cartellone stradale che ricorda le mete raggiunte dal Governo di Correa. Per chi ha conosciuto altre rivoluzione, quella sempre viva di Cuba, quella esaltante del Nicaragua sandinista, la marea rossa del Venezuela di Chávez, quei cartelloni e qualche timido uso del verde che è il colore di Alianza País, il partito di Correa, consente al viaggiatore che ne abbia voglia, di dimenticare del tutto che in questo paese è in atto un grande cambiamento. Gruppi di indios alle fermate dei bus, negli orti e nei campi, nei villaggi operosi, lungo il vertiginos zig-zag del trenino delle Ande danno l’impressione di un tempo fermo, ma a ben guardare, quasi tutti stringono in mano il loro telefono cellulare e l’artigiano tessitore che ti mostra come mischia la cocciniglia al bicarbonato per tingere le sue lane, ormai vende i suoi tappeti in Internet; e le case arroccate sulle montagne, fatte con le rimesse degli emigranti, sorprendono per le pareti specchiate con cui si difendono dal sole equatoriale. L’Ecuador si divide in quattro regioni, l’Amazzonia, la Sierra, la Costa e le Galápagos, ma è senso comune che ve ne sia una quinta, la regione dei cinque milioni di emigranti sparsi per il mondo e adesso protetti da un governo che non li dimentica. Scendendo verso la costa vertiginosamente, i colori dei ponchos degli uomini e delle mantelline delle donne, spezzano il verde dei prati, il grigio delle nebbie, il cupo colore dei boschi, e gli aridi stecchi del bosco secco, un bosco senza foglie, spinoso e triste che però è vivo e in quanto vivo, meritevole di protezione e di rispetto. Passare dal bosco secco alle piantagioni di banane, di cacao, di mango della costa è come passare dalla dantesca selva oscura al paradiso terrestre e forse per questo, all’operosità degli indios, abituati a piegarsi in due sulla terra per estrarne il nutrimento, a coprirsi con tanti strati di lane filate e tessute con le loro stesse mani, si sostituiscono adesso casucce costruite con colonne di bambù, pareti di bambù, tetti di palma, dove regna l’amaca e, sull’amaca, una popolazione abituata al caldo, al mare, all’ozio. Salta agli occhi che fra la composta e riservata Quito, la capitale, e il porto costiero e la città più popolosa, Guayaquil, le differenze sono enormi. Correa è di Guayaquil e gli viene rimproverata la passionalità dei popoli della costa. Forse per questo, non ha esitato a dare asilo ad Assange, a mandare fuori dal paese alcune ONG dalle finalità equivoche, a far sloggiare gli americani dalla base di Manta, a rifiutarsi di partecipare ad incontri regionali in cui non fosse invitata anche Cuba.

E’ bello pensare, con Jorgenrique Adoum che si sta provando a costruire «una patria possibile, grande per le sue aspirazioni e realizzazioni, giusta con tutti i suoi abitanti e che, secondo il concetto indigeno del tempo circolare, abbia il passato davanti, al fine di vederlo per non continuarlo né ripeterlo».

Bibliografia

Adoum, Jorgenrique, Ecuador, señas particulares, Eskeletra Editorial, Quito 2007.

Adoum, Jorgenrique, Entrevistas de Paola de la Vega, Gescultura, Quito 2008.

Galeano, Eduardo, “La natura non è muta”, Il Manifesto, 18.4.2008.

Guayasamín, Osvaldo, El tiempo que me ha tocado vivir, Cultura Hispánica, Madrid 1988..

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