Bolivia, il golpe etnico

Fabrizio Casari

Evo Morales è giunto in Messico a bordo di un aereo militare inviatogli da Andrès Manuel Lopez Obrador. Perù ed Ecuador hanno negato il diritto di sorvolo all’aereo messicano e la cialtronata rende bene l’idea di cosa siano i governi di Lima e Quito. Evo è stato costretto all’esilio per fermare la caccia all’uomo che i golpisti avevano previsto, che sarebbe terminata solo con la morte del presidente legittimo della Bolivia e del suo vice, Alvaro Garcia Linera.

La stampa ufficiale e i suoi megafoni europei parlano di dimissioni, ma tra dimettersi ed essere costretto a dimettersi c’è una differenza che si chiama Colpo di Stato. E quello avvenuto in Bolivia è, semplicemente, indiscutibilmente, un colpo di Stato. Solo che chiamarlo con il suo nome otterrebbe una condanna da parte di tutti, anche di quelli che ora si fregano le mani, quindi è gara aperta per i possibili eufemismi con cui definire quanto accaduto.

Non c’è stata nessuna irregolarità nel conteggio dei voti alle elezioni, lo confermano esperti statunitensi. Ma hai voglia a contare voti, se il voto che decide è quello di un altro Paese. Hai voglia a districarti nelle maglie della Costituzione se viene violata. Hai voglia a pretendere che gli organismi internazionali svolgano il proprio ruolo se agiscono con lo strabismo dell’OSA che chiede il rispetto del mandato presidenziale in Ecuador ma non in Bolivia. Stati Uniti e multinazionali degli idrocarburi ordinano il menù che camerieri locali in abiti civili e uniformi militari consegnano al tavolo.

Un presidente legittimo, che ha il 47% dei voti, è stato obbligato a dimettersi. La democrazia muore a La Paz e chi dovrebbe difenderla, militari e polizia, sono i primi a seppellirla insieme alla dignità delle loro divise. Le orde fasciste della destra boliviane sono state scatenate per diffondere il terrore con lo stesso identico copione utilizzato in Nicaragua nel 2018: persone prese, torturate, denudate ed umiliate obbligate al peggio; stupri, assassinii, case messe a ferro e fuoco, assalti alle istituzioni, spargimento del terrore in ogni dove. Perché quando il mandante è lo stesso il copione è identico.

La violenza ha trasformato la minoranza in maggioranza. Non è necessario essere fedeli al governo, basta essere indigeni per subire la ferocia più atroce. Perché questo colpo di Stato è, tra le altre ignominie, una vendetta etnica. Contro un presidente che aveva fatto dell’amalgama etnica e della mediazione tra i diversi interessi di classe un segno della riconciliazione nazionale, ferita da un passato di presidenti cialtroni specializzati nell’ordinare ai militari di sparare sugli indigeni per tenere aperti i portafogli dei privilegi dei bianchi.

I militari sono stati parte attiva, anche se defilata, del progetto di colpo di Stato. Hanno recitato la parte prevista, avvertendo il legittimo presidente che non sarebbe stato difeso dalla minaccia di ucciderlo, di sterminare i suoi ministri e la sua famiglia. Gli hanno ordinato e non suggerito di dimettersi, come voleva la destra; di annullare il voto come voleva la destra; di cacciare il tribunale elettorale, come voleva la destra. Insomma, se voleva salvare il paese poteva scegliere: obbedire alla destra senza i militari od obbedire alla destra con i militari. Perché la destra è, prima di ogni altra cosa, lo strumento che gli Stati Uniti adoperano per prendersi un Paese. E i militari obbediscono. Non alla Costituzione boliviana, ma al Comando Sud dell’US Army.

L’odio razzista nei confronti del primo presidente indigeno della Bolivia è la manifestazione visibile di un conflitto impossibile da sopire: quello tra i margini di profitto delle multinazionali estrattive e la sopravvivenza della parte più umile della popolazione, che coincide con i fondatori e proprietari di quella terra benedetta e condannata dalle risorse che ospita. Se Evo Morales non avesse trasformato la Bolivia in un paese degno di tale aggettivo non sarebbe stato deposto. Se non avesse avuto l’ardire di nazionalizzare le risorse e di tagliare le unghie delle multinazionali che su quelle risorse banchettavano, non avrebbe subito un colpo di Stato. Se non avesse creato e soprattutto distribuito ricchezza alla popolazione più umile, non avrebbe subito l’odio dei ricchi.

Il colpo di Stato in Bolivia non ha a che vedere con il voto ma con il gas, il litio e le foglie di coca. E’ cominciato da oltre un anno, per volontà e denaro dei gusanos cubano americani della Florida, in testa il senatore Ted Cruz e Bob Menendez, compari di ogni vergogna e la collaborazione della DEA, principale vigile del traffico dei narcotici. La DEA, che venne cacciata da Evo Morales, è lo strumento che gli USA utilizzano per penetrare gli apparati di sicurezza dei distinti paesi: con la storiella della lotta alla droga, Washington infiltra gli apparati militari dei paesi dove si trovano le risorse che gli servono ma che gli USA non producono.

I vertici castrensi boliviani si sono venduti per quattro spiccioli, auto assegnandosi il valore lordo delle loro luride uniformi. Hanno giurato fedeltà alla Costituzione ma il loro conto corrente subiva il fascino straniero da diversi anni. La frequentazione, iniziata nei tempi delle scuole di specializzazione militari statunitensi, si è andata rinsaldando negli ultimi anni. Il Capo della polizia boliviano, Vladimir Calderon, è stato attaché militare della Bolivia nella ambasciata di Washington fino al Dicembre del 2018. Il Comandante delle Forze Armate Boliviane è stato anch’egli attaché militare nell’ambasciata boliviana a Washington dal 2013 al 2016. Sono questi due casi, forse i più noti, che evidenziano uno dei problemi maggiori per le democrazie latinoamericane, ovvero l’ingerenza pesante, diretta e senza limiti degli Stati Uniti. Quelli dell’abbordaggio da parte di FBI, CIA ed NSA dei diplomatici e dei militari presenti nelle ambasciate dei paesi ritenuti “delicati” è prassi consolidata.

E’ uno dei casi nei quali i rappresentanti dell’apparato militare e di sicurezza latinoamericani intraprendono una relazione con gli apparati di sicurezza del paese anfitrione e, da rappresentanti degli interessi del loro paese presso gli Stati Uniti, si trasformano in rappresentanti degli interessi degli Stati Uniti nel loro paese. Con gli stessi scopi Washington propone cooperazione nell’ambito militare e la formazione delle gerarchie militari e dei ranghi principali della magistratura viene svolta negli Stati Uniti. Non solo: da almeno 15 anni gli USA si incaricano anche della formazione di studenti universitari ritenuti particolarmente adatti al ruolo di leader politici. Comprano con master, tutoli, cattedre e dollari la fedele collaborazione dei servi utili, che in cambio di tanto affetto dovranno poi adoperarsi per portare a termine il lavoro sporco che gli viene comandato. Militari, giudici, leader politici e dirigenti finanziari: sono le figure sulle quali Washington investe per la costruzione di autentiche quinte colonne all’interno dei paesi oggetto degli interessi statunitensi.

Nel caso di magistrati e militari è inutile tergiversare. Si può scegliere l’aggettivazione, si possono riscontrare attenuanti, ma si chiama tradimento. Si vendono per denaro, per carriera, per frustrazione o per smodata ambizione; alcuni si vendono anche solo per il piacere di compiacere, per l’attitudine all’inginocchiamento e in questo caso sono quelli che si vendono a prezzi di saldo, cartellino adeguato per dignità a stralcio. Il tradimento è una categoria della politica e della guerra e appartiene dunque all’ambito civile come militare. Ma è proprio quello militare, per definizione destinato alla difesa della patria, della sua integrità territoriale e delle sue ricchezze che, quando si verifica, colpisce maggiormente. Tanta passione per divise, stivali e parate, berretti e medaglie, mostrine e sbatter di tacchi e poi, semplicemente, per niente o per poco ci si vende, ricchi di fellonia sperando che si quoti in dollari.

Nel paese continuano gli scontri tra polizia e i sostenitori della democrazia costituzionale. I gruppi di fascisti e razzisti che nei giorni scorsi scorazzavano per il paese, se la sono data a gambe di fronte agli indigeni che scendevano sulla capitale, lasciando alla polizia golpista il compito di sgrossarne le fila. Polizia che ora ha trovato di nuovo le sue motivazioni in dollari per uscire dalle caserme ed andare a riportare l’ordine, che comporta anche l’aprire il fuoco a bruciapelo contro i manifestanti.

La soluzione politica resta una incognita seria: se non si vuole far scattare il ripudio internazionale contro il golpe e continuare con la storiella delle elezioni si deve tornare al voto. Per farlo c’è però bisogno del voto favorevole di Camera e Senato, entrambi controllati dal MAS di Evo Morales. E’ tutto da vedere che siano disposti a votare: se non indiranno il voto, ai golpisti toccherebbe sciogliere le Camere d’imperio. Ma la maggioranza potrebbe poi scegliere il terreno della Camera usurpata, sul modello venezuelano. Intanto, la tendenza a passare dal dramma al melodramma è sempre presente e succede che una improvvisata senatrice, Jeanine Anez, avvocato e moglie di un parlamentare colombiano, acerrima nemica di Evo ma nota soprattutto per la sua competenza sulle messe in piega senza piastra, si è autonominata capo dello Stato in funzione temporanea. Lo ha fatto senza il voto della maggioranza dei parlamentari ma lei non vede l’ora di assumere il ruolo di abusiva. Piccole Guaidò crescono. Stando alla Costituzione, le elezioni indette da Evo dovrebbero darsi entro 90 giorni, ma probabilmente faranno prima a scrivere un decreto che privatizza gli idrocarburi e – di questo si può avere certezza – saranno “miracolosamente” la Chevron e la Esso a vincere le gare per il saccheggio. Intanto i militari hanno grande appetito e tasche bucate, chiedono più soldi e fremono per mettersi alla testa del Paese: vogliono decidere quando e con che regole mandare i boliviani al voto. O magari farglielo dimenticare per un bel pezzo.

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