Bolivia, “guerra totale in tempo di globalizzazione”

di Geraldina Colotti

Anche a Roma, ci si mobilita contro il colpo di stato in Bolivia con un presidio indetto dalla Rete dei Comunisti, a cui hanno aderito diversi collettivi, partiti, organizzazioni di migranti (il 13 alle 16 davanti all’ambasciata boliviana).

Un appuntamento di azione e riflessione su un nuovo attacco compiuto dall’imperialismo su uno dei punti focali del “risorgimento latinoamericano”, iniziato con la vittoria di Hugo Chavez in Venezuela, il 6 dicembre del 1998. Nel loro volantino di adesione, BRIC-PSUV Italia, Casa del Popolo Tanas, Collettivo Militant, CONAICOP Europa, Ecuatorianos de “Roma en Resistencia”, FOPEX, Forum Peruanos en el Exterior – Roma, Italia, Fronte Popolare, La Città Futura, il Partito della Rifondazione Comunista e Patria Socialista, spiegano come,  dopo 18 giorni di proteste violente, seguite alla rielezione di Evo Morales come presidente della Bolivia, le destre abbiano portato a termine il colpo di Stato e come questo attacco s’inserisca nella più generale offensiva dell’imperialismo contro i popoli che hanno deciso di non essere più sotto tutela.

In un’escalation di incendi, assalti razzisti e intimidazioni mafiose, in Bolivia, le bande armate hanno terrorizzato i contadini, minacciato le famiglie dei militanti del MAS, umiliato sindache, ministri e cittadini vestiti in abiti tradizionali, finendo per affossare la bandiera dello stato plurinazionale della Bolivia sotto un’ondata di fondamentalismo modello Bolsonaro in Brasile.

E così, un corrotto suprematista come il torvo Camacho _ “el macho Camacho” – ha potuto esibire la Bibbia nel palazzo governativo, appoggiato da una polizia nazionale che ha cessato di adempiere ai suoi doveri costituzionali per trasformarsi in forza d’urto antidemocratica: che persegue, armata, i contadini, incendia e compie rapine nelle residenze dei militanti.

Un golpe perpetrato dall’oligarchia boliviana, appoggiato dall’imperialismo nordamericano e dai centri del potere finanziario. Con la complicità dell’OSA., il “ministero delle colonie” presieduto da Luis Almagro, il governo Trump vuole esportare il “modello” a tutta la regione per picconare pezzo per pezzo l’integrazione latinoamericana e impedire che il socialismo torni a essere una speranza concreta per il Latinoamerica, e per il pianeta.

Su quali forze ha potuto agire l’imperialismo per obbligare Morales alle dimissioni e poi a riparare in Messico? Fernando Camacho, Rubén Costas Oscar Ortiz, il trio che rappresenta l’oligarchia orientale boliviana hanno messo in moto il piano subito dopo la diffusione dei risultati ufficiali che attribuivano la vittoria a Morales e al Movimento al Socialismo (MAS): con il 47,5% dei voti sul 36,9% di Carlos Mesa di Comunidad Ciudadana (CC). Oscar Ortiz Antelo, senatore dell’Unidad Demócrata nel Dipartimendo di Santa Cruz, che si è presentato per Bolivia Dijo No (BDN), ha ottenuto un misero 4,2%. L’importante risultato di Mesa a Santa Cruz (46,8%) ha però prodotto una nuova alleanza del blocco oligarchico-imperialista, e stretto il politico della destra moderata nella morsa dei suoi alleati-capestro, guidati dal fascista Camacho, presidente del Comité Cívico Cruceño, uomo di Washington. Un’alleanza che, come ha minacciato nel suo ultimo comizio elettorale Camacho, potrebbe anche fare a meno di Mesa e procedere nei suoi intenti separatisti, come già tentò di fare nell’ottobre del 2008, ma venne sconfitta dai movimenti popolari.

Chi è Fernando Camacho? Un imprenditore della città di Santa Cruz. Il padre era proprietario dell’impresa gasifera Sergas, che deve allo Stato oltre 40 milioni di dollari. Il figlio è accusato di essere un grande evasore, e il suo nome figura nei Panama Papers perché si ritiene abbia creato tre società nelle quali figura come intermediario. Il ritorno di un governo neoliberista che riportasse la Bolivia ai tempi delle privatizzazioni consentirebbe quindi alla sua famiglia di tornare a esercitare il monopolio del gas a Santa Cruz. Il “Bolsonaro boliviano” ha fatto parte della Union Juvenil Cruceñista (UJC), classificata come gruppo “paramilitare” dalla Federazione internazionale per i diritti umani (FIDH) nel 2008. Un’organizzazione che ha stretti contatti con l’estrema destra venezuelana e che ha mostrato il suo carattere razzista e maschilista attaccando, insieme ad altri gruppi come i “motoqueros” de Cochabamba, indigeni e militanti del MAS. Per portare avanti il suo piano, Camacho ha costituito la Coordinadora de Defensa de la Democracia (CDD), il Coordinamento di difesa della democrazia che riunisce politici e dirigenti regionali conservatori affini alle politiche di Washington, immediatamente attivati per organizzare scontri, violenze e blocchi stradali nelle principali città del paese.

La CDD ha immediatamente gridato alla frode elettorale, dopo i comunicati dell’OSA che avevano denunciato dei “ritardi anomali” nel conteggio dei voti. Quando, però, Morales ha accettato di ricontare i voti sotto la supervisione della stessa OSA, i golpisti hanno rifiutato di partecipare, facendo dell’annullamento delle elezioni il principale puntello della loro strategia destabilizzante.

Ora, un rapporto proveniente da Washington, reso pubblico dalla redazione di PrimeraLinea.info rivela che, durante la notte del 20 ottobre, data delle elezioni generali, vi è stato un attacco cibernetico al Tribunal Supremo Electoral (TSE) per perturbare i risultati. Una conseguenza della lettera indirizzata al presidente USA da vari deputati boliviani, con l’avallo del candidato di Comunidad Ciudadana, Carlos Mesa, per chiedere il suo “intervento” nelle elezioni boliviane. Evidentemente, le destre sapevano che sarebbero state sconfitte. Le vittorie elettorali di Evo Morales sono state sempre schiaccianti, fin da quando, a dicembre 2005, ha vinto le presidenziali con il 54% dei voti. Nelle elezioni del 2009, ha poi ottenuto il 64%, e alle ultime il 62%. Ma la lunga mano di Washington, che lo ha avuto nel mirino fin dall’inizio, si è fatta sentire alla vigilia del referendum costituzionale del 2016 con il quale il popolo avrebbe deciso se consentire al ticket Morales-Linera di presentarsi nuovamente come candidati. Allora, con la complicità dei soliti media privati, scoppiò lo scandalo del presunto figlio di Morales. Alla fine, la sua ex compagna, Gabriela Zapata, accusò al dirigente di opposizione Samuel Doria Medina di averla manipolata per nuocere al presidente della repubblica. Il danno, però, era fatto, e Morales perse per un soffio il referendum (ma vinse poi il ricorso al TSJ). Allora, poco tempo prima che scoppiasse lo scandalo del presunto figlio, ebbe luogo un incontro tra l’Incaricato d’affari USA e Carlos Valverde, colui che lanciò l’accusa contro Morales, all’hotel Los Tajibos, di proprietà di Samuel Doria Medina. E, già allora, arrivarono sul posto esperti informatici pronti a supportare l’operazione anti-referendum. Qualcosa di simile avvenne anche in Venezuela con le accuse di brogli elettorali, totalmente autolesioniste, compiute dal capo dell’impresa Smartmatic, che fuggì all’estero e preferì “autoaffondarsi” che perdere i contratti negli USA.  Già Edwar Snowden – la fonte del Datagate – e prima di lui Julian Assange, il cofondatore del sito Wikileaks che aveva fatto scoppiare lo scandalo del Cablogate – avevano mostrato la pericolosità della guerra cibernetica nei conflitti di quarta e quinta generazione. E lo si è ulteriormente constatato durante il sabotaggio elettrico al sistema idrico del Venezuela. Con la complicità di potenti mercenari interni, che hanno interesse a riportare indietro l’orizzonte della storia, l’imperialismo può fare quello che vuole: a meno che non si scelga di cacciare i suoi organismi per limitarne le ingerenze, come la Bolivia e l’Ecuador avevano fatto nel momento più alto dell’integrazione latinoamericana, quando – appunto durante la fuga di Snowden, nel 2013, – l’aereo di Morales era stato sequestrato e fatto atterrare arbitrariamente in Austria, ma la reazione unitaria della Patria Grande lo aveva fatto rientrare in Bolivia senza danni. Ora le cose sono un po’ cambiate, l’imperialismo sta di nuovo tentando un’offensiva di proporzioni storiche. Un rapporto del Pentagono, commentato dal responsabile per l’organizzazione del PSUV, Leon Heredia, in un’intervista che ci ha rilasciato a Caracas, spiega i termini della “guerra totale in tempi di Globalizzazione” scatenata dagli USA contro il socialismo bolivariano.

Poco tempo fa, il Pentagono aveva avvertito Morales che sarebbe finito male qualora “avesse seguito la via del Venezuela”, ovvero la via dell’indipendenza, della dignità e del socialismo. Lo stesso ricatto rivolto a Cuba o al Nicaragua da parte dell’Unione europea, che ha prorogato per un anno le sanzioni al Venezuela bolivariano e che ora sembra pronta ad accogliere un nuovo Guaidó per la Bolivia. E la destra venezuelana si è detta pronta a ripetere il copione golpista messo in atto contro Morales, anche in Venezuela, il prossimo 16 novembre.

Ma in Venezuela troveranno un popolo cosciente e organizzato nel suo partito, nei collettivi, nelle milizie, nell’unione civico-militare. Un popolo deciso a difendere le conquiste realizzate in vent’anni di rivoluzione: non è il socialismo ad aver fallito, ma il capitalismo in crisi strutturale che, come un mostro ferito a morte, reagisce con ferocia sapendo di dover soccombere.

La partita, in Bolivia, è tutt’altro che chiusa, sia sul piano dei diritti costituzionali che su quello dello scontro di classe.  Il popolo boliviano sta sfidando le pallottole dei golpisti, appoggiato dalle piazze che in tutto il mondo dicono: “No pasaran”. Evo è stato eletto con oltre il 47% dei voti. Il suo passo indietro servirà a farne due avanti. A lui, ai compagni boliviani, va tutto il sostegno degli internazionalisti, impegnati a lottare contro il nemico in casa propria: contro l’Europa dei banchieri, contro il governo dei padroni, contro il modello-NATO e la guerra imperialista, contro il patriarcato.

Se toccano uno di noi, toccano tutte e tutti noi, gridano le piazze dell’America Latina e dell’Europa. “Divisi siamo una goccia, uniti una tempesta”, dicono dal presidio di Roma.

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