Un popolo disarmato sarà sempre sconfitto

Bruno Guigue,

La Repubblica spagnola credeva nella democrazia parlamentare e Franco stabilì la sua dittatura. Salvador Allende credeva nella democrazia parlamentare e si ebbe Pinochet. Evo Morales credeva nella democrazia parlamentare e un colpo di Stato lo costrinse a lasciare il potere. Illustrazioni tra le tante di una legge della storia: affronta i lupi, non essere mai un agnello.

Come le precedenti esperienze, quella di Morales non era priva di difetti, ma era promettente. Nel recente periodo, nessun governo latinoamericano ha raggiunto tali risultati: crescita elevata, ridistribuzione della ricchezza, spettacolare declino della povertà. La Bolivia è il Paese latinoamericano con la più bassa percentuale di analfabeti dopo Cuba e Venezuela. Ma questi progressi sociali, basati sulla nazionalizzazione delle compagnie del gas, sono precisamente ciò che segnavano il destino di Evo Morales. Un presidente indigeno che lavora per gli umili è lo scandalo che doveva essere concluso. Assetata di vendetta, la borghesia boliviana riuscì a interrompere un esperimento progressista sostenuto dagli strati popolari. Tale trionfo temporaneo della reazione solleva ovviamente domande formidabili. Come può il governo legale di questo Paese subire, con impunità, l’incendio delle case dei suoi stessi ministri? In che modo il presidente eletto di questo Stato sovrano ha dovuto lasciare il Paese, visibilmente in pericolo? Sfortunatamente, la risposta è ovvia: questa umiliazione del potere legittimo da parte di bande faziose fu possibile solo perché era disarmato. La polizia e i capi dell’esercito boliviani, adeguatamente addestrati alla “Scuola delle Americhe”, tradirono il presidente socialista, coordinando il colpo di Stato di una senatrice di un piccolo partito di estrema destra che si autoproclamava presidente brandendo una Bibbia di dieci chili di fronte a una assemblea senza quorum! Il legittimo Presidente Evo Morales preferiva l’esilio allo spargimento di sangue, e questa scelta è rispettabile. Ma non si rinuncia a una riflessione sulle condizioni dell’esercizio del potere quando s’intende cambiare la società.

Il contrasto col Venezuela è sorprendente. Tentato a Caracas, lo stesso scenario fallì miseramente. Nonostante la crisi economica nel Paese, l’esercito venezuelano ha resistito a minacce e corruzione inaudite di Washington. Questa fedeltà dell’apparato militare alla Repubblica Bolivariana è il muro che so oppone alle mire imperialiste. Ma non è una caso: militare esperto, Chavez fece di tutto per radunare l’esercito e Maduro apprese la lezione. Il patriottismo antimperialista è il cemento ideologico della rivoluzione bolivariana. Supportata da una milizia popolare da un milione di aderenti, questa forza armata istruita ai valori progressisti protegge la Repubblica. Questo è il motivo per cui la borghesia di Washington ha cercato di assassinare Maduro, dopo aver voluto rovesciarlo con un tentativo di colpo di Stato sanguinario.

Per raggiungere degli scopi in politica, disse Machiavelli, bisogna essere sia “leone che volpe”, usando la forza e l’astuzia in base alle circostanze. Ma per usare la forza è anche necessario averne un po’. Per quanto positiva sia per la maggior parte della popolazione, una politica progressista suscita ancora odio degli abbienti. Tale odio di classe, la vera triste passione di aggrapparsi al privilegio dei predecessori, non si seccherà mai. Va riconosciuto e datarsi dei mezzi per impedirne i danni. Nelle condizioni reali della lotta politica, ciò che determina il risultato finale non è la purezza delle intenzioni, ma l’equilibrio di potere. Di fronte alla coalizione yra borghesia locale e imperialismo, i progressisti non hanno scelta che le armi: devono prenderle, ovviamente l’ideale non sarebbe usarle, contando sulla scarsa propensione dell’avversario al suicidio eroico. Per esercitare questo effetto dissuasivo, è necessario avere migliaia di volontari pesantemente armati e pronti a difendere la rivoluzione a rischio della vita. Senza dubbio un effetto collaterale della passione della sinistra contemporanea per le elezioni, ma sembra che abbia dimenticato la formula di Mao: “il potere nasce dal canna del fucile”. L’ingenuità davanti la crudeltà del mondo raramente porta al successo e il disarmo unilaterale è una forma di suicidio. Abbiamo la nostra coscienza perché rifiutiamo la violenza, ma questo nobile atteggiamento ha lo svantaggio di ridurre significativamente l’aspettativa di vita. Se uno vuole iscrivere la propria azione nei fatti e rimanere in vita per raggiungerli, è meglio rinunciare alla “visione morale del mondo”, come diceva Hegel, e affrontare la realtà. Il pacifismo raramente dissuade la bestia feroce, e non esiste bestia più feroce di questa bestia umana che è la classe dominante scossa nella propria base materiale, indebolita dalla paura e pronta a seppellire tutto per sfuggire al tribunale della storia.

Senza armi, il popolo sarà sempre sconfitto, e non è un caso che gli unici esperimenti rivoluzionari che hanno portato all’effettiva trasformazione della società abbiano accompagnato lo strumento politico con uno militare. Possiamo sempre discutere della natura e limiti di questa trasformazione. Ma se la Rivoluzione francese mobilitò i soldati dell’Anno II, Toussaint Louverture che condusse la prima insurrezione riuscita di schiavi neri nelle colonie, fu prima un generale della Rivoluzione, se la Rivoluzione Russa creò l’Armata Rossa, che sconfisse i bianchi sostenuti da quattordici nazioni imperialiste, e quindi le orde hitleriane dopo un titanico combattimento, se la Rivoluzione cinese dovette il successo del 1949 alle vittorie militari di Zhu tanto quanto alle idee di Mao, se la Repubblica socialista del Vietnam sconfisse l’apparato militare degli Stati Uniti, se il socialismo cubano deve la sopravvivenza alla vittoria inaugurale sull’imperialismo ottenuta nel 1961 nella Baia dei Porci, è perché c’è una costante verificata dall’esperienza storica: armi sì, o sconfitta. Se solo potessimo farne a meno, ovviamente, lo faremmo. Ma l’avversaria lascia una scelta? Coloro che a Washington sabotano l’economia dei Paesi in via di sviluppo che cercano di emanciparsi dalla tutela occidentale, infliggendo embarghi omicidi, finanziando bande feroci, manipolando oppositori fantoccio, importando caos e terrore, tali bestie feroci scelgono per conto delle loro vittime? Se la Cuba socialista non si fosse murata in una difesa senza compromessi delle conquiste della rivoluzione, se Castro non avesse ucciso sul nascere qualsiasi tentativo di opposizione manipolata dalla CIA, il popolo cubano oggi avrebbe il miglior sistema sanitario ed istruttivo in America Latina? In realtà, il percorso elettorale scelto dai partiti progressisti è onorevole, ma si scontra con le contraddizioni della democrazia formale. È ingenuo credere che trasformeranno la società ottenendo la maggioranza parlamentare. Perché nelle condizioni oggettive sono quelle di una società capitalista, il partito non è leale.

Sappiamo che la borghesia controlla l’economia e i media, ma pensiamo che convinceremo la gente ad aderire al socialismo. Ci concentriamo quindi sulla dedizione dei militanti nel controbilanciare l’influenza dei ricchi che hanno i media e corrompono interi settori della società per stabilire il loro dominio. Ma possiamo nominare un unico posto in cui questo scenario idilliaco si sia mai realizzato? Tale approccio si basa sul credere ingenuamente nell’obiettività del gioco democratico. Tale favola è per la politica ciò che il romanticismo all’acqua di rose è per la letteratura. Per minare il potere della classe dominante bisogna prima accettare di essere una minoranza, quindi espandere la base sociale formando alleanze, infine battere il ferro mentre è caldo. La competizione elettorale è uno degli strumenti per la conquista del potere, ma non è l’unico. E l’armamento delle classi popolari, per un movimento progressivo, non è un’opzione tra le altre, è una condizione per la sopravvivenza. La costituzione di questa forza armata popolare sarebbe inutile, tuttavia, se le fonti dell’alienazione non venissero attaccate fin dall’inizio: i mass media. Apparentemente, la maggior parte dei media boliviani appartiene ancora al colono borghese. altrettante carte da gioco, se si accetta di affidare tutte le risorse all’altra parte! Ma porre la questione della proprietà dei media significa anche sollevare la questione della proprietà dei mezzi di produzione, poiché i media sono solo i mezzi per produrre informazioni. Al fine d’invertire l’equilibrio del potere e garantire il successo della trasformazione sociale, non possiamo evitare di strappare i mezzi di produzione, compresi i media, alla classe dirigente. Senza raggiungere questo punto critico, il fallimento è assicurato. “Lo Stato”, disse Gramsci, “è l’egemonia corazzata dalla coercizione”, vale a dire l’ideologia dominante basata sulla forza militare e viceversa. Questo è altrettanto vero per uno Stato popolare la cui conquista da parte delle forze progressiste mira a trasformare la società a vantaggio degli umili.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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