Bolivia: cresce la frattura tra polizia e militari

Mision Verdad http://aurorasito.altervista.org

“In questo momento (la notte del 17 novembre), tre operazioni repressive sono in corso nel Paese”, aveva detto uns fonte. La prima a Senkata, a El Alto; la seconda nella parte meridionale della città di Cochabamba, “in un luogo chiamato Sebastián Pagador (nel 14° distretto della città), zona di migranti in cui furono già registrati quattro o cinque feriti; e la terza nella città di Achocaya, tra La Paz e El Alto, un comune intermedio”. Denunciava che in quest’ultimo, al tempo, c’erano cinque feriti e la probabilità di un deceduto. Senkata, dei tre teatri repressivi, ebbe la maggior copertura.

Ed a El Alto (ci sono possibilità di maggiore copertura) vi sono serbatoi di gas e diesel cruciali per la luce di El Alto e La Paz in un momento in cui iniziavano a esaurirsi drammaticamente, e il governo golpista importa carburante da Cile e Perù, e secondo il quotidiano Los Tiempos de Cochabamba, veniva creato un ponte aereo per “distribuire” il cibo a La Paz e El Alto. Ma ciò che accade nella città di Sebastián Pagador e soprattutto Achocaya non gode della stessa copertura (di per sé scarsa). Ma ciò non impediva di confermare la fonte, dal mondo militare e che aveva contattato MisionVerdad (e che per motivi di sicurezza il nome restava riservato) che come molti respinge il colpo di Stato e il comportamento delle forze armate (FFAA) della Bolivia nel rovesciamento del governo e nell’insediamento dei golpisti, ora rappresentati dall’autoproclamata Jeanine Ánhez.

“Lo scenario in cui si svolgono oggi tali operazioni repressive è molto confuso, ma tutto indica che il governo ha deciso di radicalizzare la repressione, con un comportamento assolutamente arbitrario, in violazione dei diritti umani e che scatenerà nelle prossime ore una grande operazione di persecuzione politica contro ministri, vice-ministri e alti funzionari pubblici”, ammoniva in linea col tono di allerta che il nuovo ministro del governo, Arturo Murillo, presentava quando assunse il portafoglio nel gabinetto di fatto. Il 14 novembre, Murillo parla di dare la caccia ai leader e il 18 novembre, sottolineava arresti, ricerca e cattura di leader sociali e figure del governo di Evo Morales. “Questo pomeriggio potrebbero esserci 100 detenuti anche perché ci sono persone che molestano, e continueremo a trattenerle, quindi non venite a dirmi che non faccio nulla”, disse al giornale Página Siete. “Cercano leader, ministri, direttori di aziende, per fermarli e naturalmente accusarli di una serie di crimini che fanno parte della messa in scena politica per giustificare le condizioni in cui ci troviamo”, rivelava la fonte in un altro contatto quotidiano poi, confermava che “ci sono già processi aperti per sedizione, attacchi alla sicurezza dello stato, e altri crimini”. Apparentemente, il responsabile di questo aspetto del lavoro sporco sarebbe, tra gli altri, il deputato Rafael Quispe dell’Unione Democratica (UD), lo stesso partito di Ánhez e Murillo. Quispe ha già presentato una denuncia al procuratore boliviano accusando Evo Morales di terrorismo, tra un’altra serie di denunce, dossier e accuse contro figure del MAS per la presunta sponsorizzazione di attività “sediziose”. E, secondo la fonte, vi sono diverse ragioni convincenti per l’amministrazione golpista per accelerare il ritmo e spacciare l’idea che la corsa agli arresti e un’altra serie di recenti azioni politiche, che difficilmente corrispondono a un governo responsabile solo “della transizione”, non è dovuta all’urgenza di controllare la situazione che, eventualmente, gli sfuggirebbe di mano. Perché, secondo ciò che MisionVerdad sapeva dalla fonte, contrariamente al tentativo (infruttuoso) di coprire il golpe con una legittimità che ancora non riesce ad avere, il meccanismo repressivo responsabile dell’annullamento del controgolpe inizia a frammentarsi. Ciò che davanti al pubblico “buono” sembra un nuovo governo che presumibilmente copre tutti, dietro le telecamere disagio e disapprovazione per gli ultimi eventi sono un segno comune nelle forze armate e nella polizia, in un groviglio di conflitti interni, intrighi e scambi in cui s’intersecano le differenze storiche degli enti e domande sul dilagare della repressione.

A nove giorni (oggi 19 novembre) dal colpo di Stato in Bolivia, si sa sempre di più di ciò che non fu detto o fu nascosto, coll’operazione di destabilizzazione e, soprattutto, al momento del lancio del cambio di regime. La finestra che apre la fonte descrive uno scenario molto complesso, specialmente per chi oggi sostiene di detenere il potere politico nello Stato plurinazionale.

Disagio, rifiuto e defezioni nelle forze armate

“Questa è la prima volta che operazioni congiunte di natura repressiva furono condotte tra le forze armate (FFAA) e la polizia negli ultimi 20 anni. Normalmente, venivano prese decisioni politiche per l’uso di entrambi nella repressione in modo indipendente: questa è la prima volta che vengono condotte operazioni repressive congiunte”, cosa che “causava nelle istituzioni un disagio a causa del lungo conflitto interistituzionale che dura da circa un secolo” . L’inizio di tale operazione congiunta, sappiamo, fu quando l’11 e il 12 novembre la polizia di La Paz e Cochabamba fecero richiesta pubblica all’esercito di adesione ai compiti repressivi, poiché le forze di polizia erano state sopraffatte dai movimenti sociali e dalla gente in strada per rifiutare il colpo di Stato. “Tramite il generale [Williams] Kaliman, le forze armate aderirono al controllo repressivo in tutto il Paese, ma in particolare a La Paz, Cochabamba e Santa Cruz. In generale, i dirigenti intermedi presero la decisione di Kalimán con riluttanza per diversi motivi, il primo, perché ritenevano di essere entrati in un momento in cui la polizia attraversava una crisi operativa e quindi dovevamo salvarla dalla situazione critica. In questo conflitto, le forze armate furono costrette a risolvere l’incapacità della polizia che in questi anni era interessata da pratiche mafiose, corruzione diffusa e violazioni dei diritti umani; la polizia è una delle istituzioni più screditate e purtroppo si dovette uscire per sostenerla nell’ambito di tale regime golpista”, affermava la fonte. L’atteggiamento delle forze armate nella repressione è “assai poco compromesso” e genera “fratture interne”. “Si verificano diserzioni di soldati, in particolare a Cochabamba e nel dipartimento di La Paz. Nel caso di Cochabamba sono soldati che provengono dal Tropico (le aree della giungla del dipartimento), e nel caso di La Paz da El Alto: soldati che disertano per non sparare ai propri fratelli”, diceva. “D’altra parte, gli ufficiali al comando della truppa imposero che i soldati rimuovessero i percussori dai loro fucili perché non erano sicuri che i soldati intervenissero secondo gli ordini dei comandanti, ma questa sensazione di insicurezza e sfiducia nei confronti dei soldati li fecero uscire solo per mostrare le armi per dissuasione”. Nei social network emergevano come in altre parti del Paese, come Oruro, unità militari preparate furono partecipavano a marce e mobilitazioni di contadini e indigeni almeno nei Dipartimenti Andini, che di per sé erano primo segno che non tutto era sotto controllo nelle forze armate.

Un altro segno del conflitto interno era il controllo delle istituzioni travagliate. Apparentemente, uno dei fattori del disagio immediato in questo caso fu espresso dallo spostamento dell’unità della sicurezza presidenziale (USP), responsabili della sicurezza della Casa Grande del Pueblo (il palazzo presidenziale), composta da ufficiali dell’esercito. “Quando la polizia intervenne nel colpo di Stato, questa frattura si aggravò”, producendo “un sentimento molto acuto di insoddisfazione e disagio”. Ma il controllo della polizia contro le istituzioni passò alle Forze armate o ai civili non si fermava a chi controllava la sicurezza della Grande Casa”, nello stesso momento in cui i militari salvarono la polizia dalla crisi operativa, la polizia occupava alcune istituzioni civili, come il Servizia d’Identificazione Natzonale”, affermava la fonte. Non solo i politici che ebbero l’opportunità di firmare tale sfortunata pagina della storia boliviana: proprio come si dividevano le leve statali (e i loro bilanci), di seguito la polizia riproduceva lo stesso schema dell’assalto clientelare facendo ciò che poteva a detrimento dell’istituzione forse più sensibile dello Stato. “La polizia era incaricata di recuperare gli spazi perduti che il governo Evo Morales aveva praticamente tolto ad essa a causa della diffusa corruzione”, affermava la fonte. Ma un altro fantasma di maggior peso incrocia l’umore dei ranghi delle truppe: “In questi giorni la popolazione li chiama “assassini”. Questa è una definizione sprezzante che ricevono da gran parte del Paese, cosa che il Presidente Evo risolse dopo il sanguinoso massacro dell’ottobre 2003. Evo Morales riconciliò le forze armate con la società, e in particolare El Alto, dopo che furono usate da Gonzalo Sánchez de Losada “nella repressione che fece più di 70 morti e oltre 500 feriti, nella cosiddetta “guerra del gas”. Cercano di assassinarli per strada e questo metteva in discussione la decisione del generale Kaliman di chiedere al Presidente Evo le dimissioni, riassumeva la fonte.

Gelosia, intrighi e paura nella polizia nazionale

“Il problema della polizia non è minore”, affermava la fonte. “Esauriscono le riserve di agenti chimici; le munizioni anti-sommossa e raggiungono l’esaurimento nella polizia, in particolare nei dipartimenti di La Paz, Cochabamba e Santa Cruz nei giorni dell’intenso utilizzo del personale, ma senza effetti”. Un documento della polizia giunto a MisionVerdad, datato 14 novembre, conferma ciò che afferma la fonte. Era un memorandum (numero 02467/2019) che il comando generale della polizia boliviana inviò all’ufficio del colonnello Franklin Hernán Prado Alconz, direttore nazionale dell’Istruzione ed insegnamento dell’ente. “A causa della situazione sociale che attraversa il nostro territorio nazionale e allo scopo di disporre di risorse umane per ripristinare l’ordine pubblico, la sua autorità nell’ambito dei suoi poteri, deve redigere un rapporto sulla fattibilità per gli studenti dei Centri Formazione pre e post laurea presso l’Università di polizia “Mcal. (Sic) Antonio José de Sucre”, partano al più presto possibile per rinforzare le unità in servizio della polizia”, affermava il documento. Alquanto imposta, tale richiesta riprende il dispiegamento di minori e cadetti dell’esercito tedesco quando il governo nazista, vicino al crollo per l’avanzata dell’Armata Rossa, lanciò bambini e minori in difesa di Berlino, anche perché tale opportunità riguarda gli agenti di polizia specializzandi. Non si tratta della caduta di Berlino nel 1945, ma tutto sembra indicare l’inizio di un ciclo ancora meno prevedibile e volatile. Perché i problemi della polizia, l’istituzione più screditata del Paese, non si fermavano qui. Paura, insicurezza e rappresaglie della piazza alle caserme della polizia. Molti capirono cosa significasse attaccare la whiphala (la bandiera emblematica delle popolazioni indigene d’America, ufficialmente l’altra bandiera della nazione boliviana). La fonte sottolineava che “sono esposti, si sovraespongono da più di 20 giorni [di ammutinamento e repressione], c’è anche malessere generale a causa di tale sovraesposizione”. Abbassare la wiphala dal Comando generale a La Paz “generava una grave reazione contro la polizia, divenendo la vera bandiera della lotta della popolazione che vive nella parte occidentale del Paese”, la regione andina, generando anche “conflitti e controversie nel comando della polizia e tra ufficiali, sergenti e truppe della polizia”. Era pubblico, noto e diffuso che dopo 23 morti e centinaia di detenuti, il regime di Ánhez firmava un decreto supremo (DS 2082) che autorizzava il trasferimento di 34,7 milioni di bolivianos (4 milioni di dollari), indicando in modo conciso che erano “destinati all’equipaggiamento delle forze armate”, cassando il campo di applicazione di tale frase meschina. La fonte assicurava che la funzione essenziale del decreto è “far pagare i costi di mobilitazione, logistica e ciò che la polizia sospetta, le spese per ciò che chiamano “obblighi di fedeltà”. Cioè, la polizia accusava le FFAA di aver pagate dal governo un bonus fedeltà per rimanere nel dispiegamento repressivo”.

La polizia vedeva questo decreto come conferma che la componente armata dello Stato riceveva un trattamento preferenziale che le forze di polizia non ricevevano (per non parlare che mantenere i soldati sulle strade richiedeva un incentivo da milioni di bolivianos). Ma insieme al DS 2082 il governo di Ánhez emise un altro decreto, quattro giorni prima, in cui assolve l’esercito da “qualsiasi responsabilità criminale”, come risulta dal DS 4078. “La polizia oggi è tremendamente preoccupata per i risultati del dispiegamento repressivo. Fondamentalmente per il numero di morti, feriti e arresti effettuati dalle agenzie di intelligence e sicurezza della polizia. Ciò generava la paura nella polizia che il popolo rispondesse al fuoco delle unità di polizia, perseguitasse i poliziotti che vivono nella città di El Alto o nelle aree urbane. Si creava un’enorme paura e si sentivano ragionevoli dubbi nella polizia ad uscire ogni giorno per la repressione”, affermava la fonte, senza mostrare una chiara conoscenza dei militari e della sicurezza del Paese. E in quest’ultima affermazione, è essenziale osservare un fatto cruciale, più avanti: sono le agenzie di intelligence, non le truppe regolari della polizia, che effettuano la maggior parte degli arresti, costringendo il resto del corpo ad impegnarsi nelle azioni dei propri servizi, senza la necessità che le azioni specifiche di un gruppo assolvessero quelle dell’altro. Tanta cupezza contrastava col presunto tono “conciliante” con cui il nuovo capo della polizia nazionale, colonnello Rodolfo Antonio Montero Torricos, cerca di rivolgersi ai movimenti sociali e al MAS del Paese. “Se devo piegarmi a qualcuno della mia amata Bolivia e scusarmi se abbiamo offeso qualcuno, non devono che chiamarmi e io ci sarò. Voglio la pace, la pace della mente, non voglio più offese”, o “se abbiamo fatto qualcosa, se abbiamo offeso la città di El Alto, scusateci”, come se si trattasse di una lotta comunitaria e non della “politica statale” del regime di Ánhez. Queste dichiarazioni avvennero lo stesso giorno in cui l’ex comandante generale, Yuri Calderón, fu sollevato dalle sue funzioni (14 novembre): lo stesso giorno del decreto 4078 e della circolare del commando che chiedeva ai cadetti di scendere in strada dall’accademia di polizia. Tutto questo il giorno dopo che il regime di fatto sollevò i comandanti militari, tutti studenti della School of the Americas, così come i comandanti della polizia dai legami comprovati con FBI e altre agenzie federali statunitensi, come rivelato dall’investigatore Jeb Sprague di The Grayzone. Ad aggravare il conflitto interno, “c’è la disputa tra polizia e militari su chi sia responsabile degli oltre 20 decessi verificatisi fino ad oggi. La polizia accusa le forze armate di usare armi letali, le forze armate accusano la polizia di usarle e quindi c’è uno scambio di accuse tra le due istituzioni”, avvertiva la fonte.

DEA, narco-avvocati, paracos e narcodelatores: l’arteria del colpo di Stato?

Ritorniamo ai fatti su osservati: la polizia (molto riluttante) esegue la repressione con eccessi ed evita probabili responsabilità nel conteggio delle vite falciate da quando il neoregime si scatenava sulla popolazione mobilitata contro il colpo di Stato. Ma gli arresti, laddove comprovati di notte, aggressioni a case, file di detenuti e grande scorta di registrazioni fotografiche e audiovisive che rimandavano ciò che accadeva ora ai terribili anni della dittatura militare negli anni ’70 e ’80 che, secondo la fonte, furono azioni dei servizi di intelligence della polizia. Ciò sembrava suggerire una struttura operativa parallela alla catena formale di comando. “Le operazioni di polizia sono svolte dalle agenzie d’intelligence, in alcuni casi accompagnate da organismi non ufficiali, squadre non ufficiali, cioè che non erano parte della struttura organica della polizia. E, quindi, questo ci fa presumere che fosse in sviluppo una strategia di collaborazione col paramilitarismo”, affermava la fonte. E considerato quanto sopra, aveva senso che, al fine di evitare che le contraddizioni e le fratture nelle forze di polizia avessero un impatto sulla loro efficienza, o persino, date le circostanze di un’inversione politica dannosa per il regime, le forze golpiste avevano bisogno di un servizio escluso dalla razzia golpista, e che garantisse risultati favorevoli (a causa di miopia e incompetenza politica, Ánhez è chiaramente un prestanome probabilmente priva di peso reale sulla situazione). Ma quali attori farebbero parte di tale linea di azione (forse) non dichiarata?

“Fondamentalmente nella parte orientale, e in particolare nel caso di Santa Cruz, siamo stati informati che ci sono gruppi d’assalto dell’Unione della Gioventù Crucenhista ed altri provenienti da settori illegali che accompagnavano il lavoro della polizia”. Affermazione della fonte che sembrava in linea col quadro visto nei giorni del rovesciamento di Morales, quando sui social network apparvero video in cui si vedevano poliziotti, militari e armati dalle diverse uniformi o civili paramilitari (con giubbotti antiproiettile, fucili d’assalto), dopo che l’esercito rispose all’appello di aiutare la polizia a contenere le proteste: i “jijadisti” Cochabambinos gridavano “Nessuna paura!” tra gli altri slogan truculenti, un probabile lapsus pubblico che evidenzia la paura che provavano quando il controgolpe scese sulle strade e non ebbero il coraggio di affrontarlo da soli. La paura è un segno dei golpe neoliberisti.

Se tutto ciò che era detto dalla fonte è confermato, la speculazione su organigramma e stratagemma ancora più oscuri del processo del cambio di regime in Bolivia iniziava ad essere evidente, avanzando ed agendo dietro l’operazione di pubbliche relazioni con cui veniva armata la facciata del “governo”, una combinazione di opportunisti e incapaci (come Ánhez stessa?) con altri che, in aree strategiche, sono gli effettivi responsabili dell’attuazione dell’agenda fino al completamento, chiaramente a qualunque costo. Ma ciò che veniva descritto finora, dopo un tentativo di trasmettere in modo omogeneo, incassato acrobaticamente tra media boliviani e internazionali, in realtà era che una fazione cerca di reagire rapidamente contro le fratture generali che, ovviamente, non solo testimoniano ciò che è stato detto finora dalla fonte, ma gli errori di calcolo che solo per questa ragione appaiono accentuare ancora più il ruolo degli Stati Uniti nel processo prima, durante e dopo il colpo di Stato. Ad esempio, “il ministro della Presidenza (Jerjes Justiniano) aveva un’intensa attività nel buffet difendendo i narcotrafficanti ed uno degli uomini più forti, politicamente parlando, Luis Fernando Camacho”. Il traffico di droga e il secessionismo crucenho, tracciando il segno della composizione del gabinetto del regime e una delle forze “superiori” alla struttura governativa che guidano. D’altra parte, è chiaro che l’improvvisa riduzione dell’attenzione su Luis Fernando Camacho non l’esclude o l’esenta da questa fase del colpo di Stato. “Vi è la penetrazione di squadre informali e illegali che operano nei servizi d’intelligence politicamente supportati sia da Luis Fernando Camacho che dal ministro della Presidenza”. Il ministro del governo Arturo Murillo organizzava un “apparato speciale della procura” per detenere i senatori del MAS. Nelle dichiarazioni del 18 novembre, Murillo disse che per catturare le figure politiche del MAS (etichetta che verrà utilizzata contro tutti ciò che il regime considera opposizione al colpo di Stato) vengono utilizzate oltre a polizia ed esercito, “sistemi di emergenza che abbiamo armato nei giorni precedenti, privati che lavorano con me e sistemi d’intelligence nell’area”, in modo che la struttura parallela, o parastatale, eseguisse e collaborasse ad azioni molto specifiche nel colpo di Stato. “Non dobbiamo dimenticare che l’attuale ministro del governo è un complice della DEA. In realtà, il suo patrimonio fu costruito informando sul traffico di droga nel Chapare e la DEA ne fece uno delle eminenze grigie più importanti nella regione. Di conseguenza, gli finanziò le attività private, fondamentalmente attività di facciata”, secondo la fonte. “Questo spiega ferocia e brutalità nel definire i pubblici ufficiali, linguaggio che usa per minacciare e insultare, con aggettivi che usa come se questo tizzo fosse in un safari in Africa”.

Non sorprende quindi che Murillo sia voce e volto più violenti del colpo di Stato nelle istituzioni. Il linguaggio che usa, il suo profilo, l’entusiasmo con cui sottolinea il “ruolo” che Venezuela, Cuba, Russia e persino FARC giocano nella “sedizione” contro il colpo di Stato. Murillo arrestò medici cubani, cittadini venezuelani accusati di avere uniformi della polizia venezuelana e carte del PSUV, ed è difficile divorziare dalle azioni che il ministro delle comunicazioni eseguiva in parallelo, molestando e accusando i media internazionali (e non proprio i media di Castrochavisti) anche di sedizione, un’accusa che naturalmente raggiunge i media russi secondo il “piano macabro” che inserisce la lotta al golpe nelle “brezze bolivariane” già denunciate da Luis Almagro, Lenin Moreno, Iván Duque e diversi funzionari del governo cileno, responsabili dell’instabilità nei rispettivi scenari. “Questa è la natura [di Murillo], è addestrato dalla DEA solo per svolgere il ruolo che svolge in questo momento, e costui non ha scrupoli nel partecipare a squadre illegali. Certo, apre le porte all’incursione informale della DEA oggi e in futuro, e il suo ruolo sarà legittimare la presenza della DEA in uno scenario di apparente lotta a traffico di droga, terrorismo, forze violente delle FARC, ecc. ecc. Costui è un personaggio che sicuramente costruirà la trama per facilitare il ritorno di DEA, CIA ed altre agenzie statunitensi” nel Paese. Essere un narcodelatore al servizio della DEA (espulsa dalla Bolivia dal Presidente Evo Morales nel 2008) può concedere a Murillo diversi privilegi con quell’agenzia (o la CIA, poiché in queste materie non esiste, in effetti, un chiaro confine su dove una inizia e l’altra finisce), ma anche, dato il terreno su cui gioca, i gringos avrebbero dossier e registrazioni con cui ricattare tali personaggi vulnerabili o addirittura estradabili rivoltandogli la tortilla contro. Lo stesso si può dire delle connessioni anche di Ánhez e della famiglia, così lontane da Dio e così vicine all’uribismo in Colombia. Anche questo evidenzia il modello comune dei capi ricattabili giudiziarimente che arrivano al potere. Confermando un altro elemento diventato abitudine nei gruppi di potere utili agli Stati Uniti nel raggiungere i vari governi della regione. Persone nel crimine fino al collo.

I giorni passano e ogni passaggio appare sempre più angosciante per il regime di Áñez nel suo viaggio per consolidare un governo a cui venivano già concessi più attributi di uno di transizione. Naturalmente, tale gioco con forme legali e politiche è una facciata pubblica per manipolare il vuoto politico delle regole che governano uno Stato che difficilmente conquisteranno. Un altro elemento che certifica indirettamente la presenza degli Stati Uniti è la mediocrità dei calcoli fatti sullo sfratto di Evo e il “dopo che vediamo” sul resto dello Stato, la società che si oppone al colpo di Stato o che silenziosamente non l’avvalla, il Paese in particolare e la regione in generale visti nel 2019 col caso venezuelano: considerando solo l’elemento che avrebbe innescato tutto ciò che facilitasse l’ascesa di Juan Guaidó. Più sanguinoso e meno tragicomico è il caso boliviano, in cui il MAS continua a controllare i due terzi del Parlamento, il potere incaricato di nominare il nuovo tribunale elettorale nel convocare le elezioni (per legge, la presidenza non può farlo), quindi ci sono già richieste che “le forze viventi” del colpo di Stato creino un ornitorinco all’ultimo minuto che baypassi Senato e Congresso, poiché il regime ha bisogno di escludere e mettere fuori legge il MAS, costringendo le due istituzioni armate e della sicurezza del Paese ad operare, mentre si cercava di nascondere il conflitto presente da tempo tra le due forze, mentre col ritiro delle forze dalle stare ora costringeva ad usare corpi irregolari e a percorre l’autostrada dell’impunità nello svolgimento delle operazioni repressive (almeno per i militari) e ora, nonostante l’immenso supporto dei media nazionali e internazionali nel normalizzare la facciata di fronte al pubblico, le informazioni sul conflitto interno al regime golpista iniziano a trapelare, come le informazioni usate nella stesura di questo pezzo. Ciò che è stato finora rivelato a MisionVerrda non va preso come speranza che automaticamente rientra nella celebrazione (naturalmente) di qualsiasi segno di progresso del controgolpe secondo le linee già viste in Venezuela nel 2002; la storia è torbida e obbedisce al contesto in cui si sviluppa. Tutto ciò sembra, d’altra parte, certificare che la storia del colpo di Stato non è chiusa, che la situazione rimane aperta e che il nuovo (narco)regime rappresentato da Janine Ánhez non controlla tutto. Quest’ultima versione mostra che le frattura nelle forze armate e nella polizia sono capitalizzate e al centro delle operazioni repressive. E conferma ancora più drammaticamente che la maggiore battaglia che si svolge è sull’anima della Bolivia.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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