Che cos’è il lawfare?

José Natanson* – Pagina|12 –  www.lantidiplomatico.it

L’espressione “lawfare” è diventata popolare alcuni anni fa: “golpe blando“, “golpe istituzionale” o “golpe parlamentare”. In questo modo viene definito il rovesciamento irregolare di un presidente senza ricorrere ai militari, alla maniera del tradizionale colpo di Stato, e spesso senza nemmeno ricorrere a metodi violenti. L’ovvia contraddizione in sé del concetto – come può un “golpe” essere “istituzionale”? Che cos’è un “golpe morbido”? – rivela la confusione causata dal nuovo. Di fronte all’ignoto, il linguaggio politico brancola e si scontra con nuovi ossimori, l’ultimo dei quali è lawfare, una curiosa miscela di legge e guerra, di diritto e conflitto.

Apparso per la prima volta in un articolo pubblicato nel 2001 dall’ufficiale militare statunitense Charles Dunlap sulla manipolazione del diritto internazionale in contesti bellici, il concetto di lawfare iniziò ad essere usato per definire una distorsione negli usi della giustizia all’interno di diversi paesi. Essendo una nuova idea, più un argomento di lotta politica che una vera categoria accademica, la sua definizione è nebulosa. Come sostiene Geraldo Carreiro de Barros Filho (per ovvie ragioni gli sviluppi più elaborati sono in Brasile), la legge si riferisce all’uso dei giudici come strumento di persecuzione politica attraverso la creazione di “maxiprocessi” che coinvolgono un alto livello di spettacolarizzazione, ad esempio attraverso la trasmissione in diretta di arresti, e quindi richiede una relazione fluida tra magistratura e media.

Questi processi di solito ricorrono a fattispecie giudiziarie aperte (“associazione illegale” in Argentina, “organizzazione criminale” in Brasile) che consentono di imputare lo stesso caso con comportamenti criminali diversi e livelli di responsabilità diversi. Come di consueto, le accuse si basano su reati contro la pubblica amministrazione che sono difficili da dimostrare, laddove il “corpo del crimine” è spesso inapplicabile, la Magistratura di solito fa appello a rimedi procedurali controversi come la “delazione premiata“ (“imputato collaboratore” in Argentina). Queste figure rendono più flessibili le garanzie degli imputati e, in combinazione con l’uso abusivo della detenzione preventiva, offrono ai magistrati un ampio margine di discrezionalità, dando forma a una sorta di “giustizia penale negoziata”. In molti casi le confessioni si ottengono sotto evidente coercizione.

L’effetto delle cause è politico piuttosto che giudiziario. Più che l’esito finale del processo, che potrebbe persino portare al proscioglimento dell’imputato, ciò che conta è l’impatto che produce man mano che procede. In un certo senso, il lawfare è un ritorno a una tendenza nota, la giudiziarizzazione della politica, che in America Latina iniziò con il ciclo di ripresa democratica degli anni 80, quando la magistratura iniziò ad espandere la sua sfera di intervento fino a coprire sempre più aspetti della vita pubblica: se all’inizio il fenomeno era percepito come un modo per evitare un ritorno agli autoritarismi del passato, oggi opera come una “corsia preferenziale” per impedire la restaurazione populista, con la corruzione come grande argomento di legittimazione.

Con ovvie differenze e sfumature, si sostiene spesso che il lawfare spieghi le recenti accuse contro ex presidenti latinoamericani come Rafael Correa, con una richiesta di cattura internazionale in una causa piuttosto insolita per il rapimento di un avversario politico in Colombia; Cristina Kirchner, nei casi indagati da Claudio Bonadio, e naturalmente Lula, arrestato per ordine del giudice Sergio Moro, che nonostante la mancanza di prove lo ha condannato a dodici anni di prigione per il presunto acquisto del famoso triplex di Guarujá.

L’idea di lawfare merita di essere rimessa in discussione: non negarla, perché è il tentativo di descrivere qualcosa che sta accadendo, ma misurarne meglio l’uso ed evitare la sua applicazione indiscriminata in qualsiasi contesto.

Il primo aspetto che vale la pena discutere è il livello di coordinamento. Sebbene vi sia una coincidenza di obiettivi tra i tre attori protagonisti di lawfare, cioè potere politico ed economico, giudici e media, sembra lontano dalla perfetta armonia descritta da coloro che lo denunciano, che spesso presentano le cose come se tutto fosse negoziato in un gruppo WhatsApp. Ogni attore ha i propri obiettivi, che possono convergere più o meno permanentemente ma anche mostrare contraddizioni, punti ciechi, risultati inaspettati.

Nel caso del Brasile, ad esempio, Lava Jato ha inizialmente puntato i funzionari del PT, nel contesto del processo accelerato di perdita di popolarità del governo di Dilma Rousseff e, ovviamente, basato sulla realtà di un sistema di corruzione che esisteva. Inizialmente è emerso come un modo per approfondire l’usura della gestione dei petisti ed evitare la sua possibile continuità nella figura di Lula, ma la causa si è aperta a coprire buona parte della classe politica ed economica brasiliana. Oggi ci sono 123 politici e uomini d’affari condannati!, Tra cui Eduardo Cunha, architetto dell’impeachment di Dilma, punito con non meno di 24 anni di carcere, e incluso anche il più importante uomo d’affari del paese, Marcelo Odebrecht, che aveva già trascorso due anni in detenzione preventiva.

(…)

Voglio sottolineare che l’obiettivo principale di Lava Jato è stato sempre Lula, che, come ultima possibilità di ritorno del populismo, concentra l’odio di una buona parte delle élite brasiliane.

(…)

Il secondo aspetto che deve essere discusso è il pregiudizio ideologico. Coloro che denunciano la legge ritengono che sia uno strumento d’élite per attaccare partiti e leader popolari, un’arma esclusiva della destra contro la sinistra. Tuttavia, è facile verificare che anche i politici conservatori siano stati vittime di tali operazioni: Pedro Pablo Kuczynski si è dimesso dalla presidenza del Perù per evitare l’impeachment guidato da Fujimori dopo che il Procuratore di Stato ha aperto un procedimento contro di lui per presunti pagamenti di Odebrecht. La diffusione di un video opportunamente modificato in cui i deputati ufficiali hanno negoziato con un rappresentante dell’opposizione il loro voto di rifiuto del processo politico in cambio di lavori pubblici hanno finito per definire le cose: l’accordo era oscuro ma non illegale, e comunque Kuczynski ha dovuto dimettersi.

Un altro esempio Otto Pérez Molina, un generale golpista di estrema destra eletto presidente del Guatemala, si è dimesso dopo essere stato accusato di aver istituito un sistema di corruzione in dogana chiamato La Linea, che includeva anche una vasta gamma di intercettazioni telefoniche, arresti in diretta e un ruolo guida della Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala, un organo indipendente di sostegno all’Ufficio del Procuratore creato mediante un accordo tra le Nazioni Unite e lo Stato guatemalteco. Pérez Molina ha denunciato un’applicazione selettiva della giustizia penale da parte della… sinistra.

Il terzo aspetto da considerare è l’influenza degli Stati Uniti, attribuita alla gestione del joystick dei processi. Dove arriva realmente? In primo luogo, è vero che alcune modifiche ai codici penali e alcune innovazioni procedurali hanno un’ovvia origine nordamericana, come le negoziazioni di accordi extragiudiziali tra pubblici ministeri e imputati in cambio di una riduzione delle sanzioni o l’uso della “trappola legale “, che consente a un pubblico ufficiale di essere tentato di commettere un reato per verificare la sua onestà, come è successo con Temer. È anche vero che, come sottolinea il sociologo Sebastián Pereyra, la costruzione della corruzione come problema sociale è in gran parte il risultato del lavoro di una serie di organizzazioni con sede negli Stati Uniti, come Transparency International, che hanno sviluppato raccomandazioni e pratiche che esportano nel resto del mondo. Ed è anche vero, infine, che diverse agenzie del governo degli Stati Uniti spesso invitano giudici e pubblici ministeri latinoamericani a corsi di formazione e seminari. La domanda è se queste indicazioni sono sufficienti, se questo è sufficiente per vedere dietro ogni processo la mano invisibile dell’impero o se si tratta di un’ispirazione di tipo più generale.

A rigor di termini, l’esperienza da cui sono stati costruiti i processi giudiziari latinoamericani è l’italiana Mani Pulite, la megacausa comandata dal procuratore Antonio Di Pietro che ha polverizzato il sistema politico italiano e creato le condizioni per l’ascesa di Silvio Berlusconi, e sulla quale il giudice Moro aveva scritto un articolo accademico prima di iniziare la sua Lava Jato.

Riavvolgiamo prima di concludere. Il lawfare non è un’invenzione febbrile di intellettuali populisti ma il tentativo di descrivere qualcosa che sta realmente accadendo. Tuttavia, è necessario affinare il concetto per evitare che la sua generalizzazione lo condanni all’oblio. Le parole sono come i politici: richiedono un minimo di credibilità per continuare a funzionare; se la perdono, vengono banalizzate, si esauriscono e si spengono. Perché c’è anche un altro rischio su cui è necessario attirare l’attenzione: che la denuncia del lawfare finisca in una minimizzazione politica – o la negazione totoale – dei reati commessi durante il ciclo dei governi popolari in America Latina. Perché la sinistra dovrebbe cdere la bandiera della trasparenza alla destra? Quali errori hanno commesso i governi progressisti per far sì che il discorso anticorruzione fosse agitato in modo convincente da un ex militare di estrema destra brasiliano, un banchiere ecuadoriano o un erede della patria degli appaltatori argentini?

La lotta contro la corruzione non è mania dei liberali che vogliono distruggere lo Stato o una trappola dei media egemonici o un’arma dell’impero. Le sue conseguenze nemmeno: l’argomento secondo cui i processi producono risultati indesiderati, che l’effetto di Lava Jato è l’ascesa di Jair Bolsonaro o che Mani Pulite ha portato a Berlusconi, è eticamente riprovevole e politicamente improduttivo. Succede che, come sottolinea Pablo Stefanoni, la trasparenza è oggi una richiesta policlassista, una risposta al “repubblicanesimo dal basso” che ha messo radici in America Latina e che può anche essere capitalizzato dalla sinistra, come dimostra la riuscita campagna per l’onestà di Andres Manuel López Obrador in Messico.

Insomma, la costruzione di una nuova etica pubblica è sia un imperativo etico sia una richiesta sociale: è qualcosa che deve essere fatto e che la società richiede.

* Direttore di Le Monde diplomatique, edizione Cono Sur

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

 

 

Share Button

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.