Messico, il primo anno di governo di AMLO

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Domenica primo dicembre oltre 250000 persone si sono date convegno nello Zócalo di Città del Messico per festeggiare il primo anno di governo di Andrés Manuel López Obrador.

Un anno che ha visto l’avvio di quella Quarta Trasformazione tra i cui obiettivi vi è anche l’avvio di una serie di programmi sociali. Proprio per garantire che tale politica assistenziale continui anche dopo il termine dell’attuale mandato, è stata inviata alla Camera una proposta governativa che prevede l’inserimento in Costituzione dell’obbligo di istituire un sistema sanitario nazionale per le persone a basso reddito, un sistema previdenziale per portatori di handicap e anziani privi di pensione contributiva e appoggi economici per gli studenti poveri di ogni ordine e grado.

Un altro cambiamento fondamentale riguarda l’atteggiamento nei confronti dei movimenti di protesta: Amlo ha tenuto fede alla promessa di non utilizzare metodi repressivi e gli accampamenti dei vari gruppi sociali che per diverse ragioni stazionano davanti al Palacio Nacional non sono stati sgomberati. Il presidente si è più volte incontrato con i familiari dei 43 studenti di Ayotzinapa scomparsi nel 2014, anche se la sua crociata per la verità e la giustizia si scontra con ancora troppe sacche di impunità.

Diminuzione della povertà e dell’emarginazione, riduzione della disoccupazione e dell’abbandono scolastico: sono questi gli strumenti evocati da López Obrador per combattere la criminalità organizzata, che trova terreno fertile nei giovani privi di prospettive per il futuro. Si tratta di un cambiamento netto di strategia rispetto alla guerra al narcotraffico dichiarata dai precedenti governi, che aveva portato a decine di migliaia di vittime senza minimamente intaccare il potere dei cartelli della droga. Ma non è una soluzione miracolistica: si spiega così la mancanza di risultati visibili in questi primi dodici mesi.

E continuano anche gli omicidi di giornalisti, ambientalisti, attivisti sociali. In luglio viene uccisa nel Michoacán Zenaida Pulido Lombera, militante della lotta per la ricerca dei desaparecidos. In agosto nell’Estado de México è assassinata Nancy Flores García, della Comisión Nacional de los Derechos Humanos. In ottobre nello Stato di Chihuahua viene incontrato il corpo senza vita di Cruz Soto Caraveo, membro di un collettivo di famiglie sfollate a causa della delinquenza: era stato sequestrato pochi giorni prima. La stessa sorte è riservata in novembre ad Arnulfo Cerón, dirigente del Frente Popular de la Montañanello Stato del Guerrero.

Sul tema dell’insicurezza insistono le opposizioni per parlare di fallimento dell’attuale presidenza. Già da tempo infatti la destra interna e internazionale è scesa in campo contro il governo di López Obrador. La recente sortita di Donald Trump, che ha annunciato l’intenzione di dichiarare i cartelli della droga “organizzazioni terroristiche”, rappresenta solo l’ultimo di una serie di attacchi, più o meno velati, contro le istituzioni messicane. Un tale provvedimento non si limiterebbe ai confini statunitensi: sappiamo come la lotta al terrorismo abbia giustificato, fin dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush, ogni tipo di intervento armato in paesi sovrani. Tanto per chiarire la portata della sua minaccia, Trump ha aggiunto di aver proposto ad Amlo “di lasciarci entrare e ripulire tutto, ma per il momento lui ha respinto l’offerta”.

“Il Messico non ammetterà mai nessuna azione che significhi la violazione della sua sovranità”, è stata la ferma risposta del ministro degli Esteri Marcelo Ebrard. Resta però l’incognita di una serie di sanzioni economiche che Washington potrebbe adottare, accusando il governo messicano di non fare abbastanza per combattere le attività terroristiche. Sanzioni che costringerebbero il paese a parziali concessioni, come già avvenuto in giugno con la questione dei migranti.

Il pretesto addotto dal presidente statunitense per questo aperto atto di ingerenza è la presunta incapacità del governo messicano di affrontare con successo la lotta ai narcos. Due episodi hanno fornito supporto a questa accusa. Il primo: il fermo e successivo rilascio del figlio del Chapo Guzmán, il boss del cartello di Sinaloa attualmente in carcere negli Usa. La cattura il 17 ottobre a Culiacán, capitale dello Stato di Sinaloa, di Ovidio Guzmán López aveva scatenato la rivolta del cartello e un sanguinoso scontro con le forze di sicurezza, con il bilancio di otto morti e sedici feriti. Per evitare ulteriori spargimenti di sangue, in cui sarebbe rimasta coinvolta la popolazione civile, le autorità avevano deciso la liberazione del fermato. Un indubbio fallimento per lo Stato, di cui López Obrador si era assunto la responsabilità. Nella ricostruzione dell’accaduto rimangono però punti oscuri, che hanno indotto alcuni commentatori a parlare di una sorta di trappola costruita ad arte per indebolire la posizione del governo. In particolare viene citata la misteriosa visita a Culiacán, qualche settimana prima, di alti funzionari della Dea e dell’ambasciata statunitense e il loro incontro con il governatore priista dello Stato, Quirino Ordaz.

Ancora più grave il secondo episodio, l’imboscata del 4 novembre nello Stato di Sonora contro due automezzi in cui viaggiavano alcuni membri della famiglia LeBarón, appartenente alla comunità mormone e dalla doppia nazionalità messicano-statunitense. Nove persone, tre adulti e sei bambini, venivano uccise. Un agguato dai motivi ancora oscuri (un errore dei killer o una provocazione?) che comunque ha dato fiato a quanti negli Usa chiedono un intervento oltre frontiera, da The Wall Street Journal a una serie di congressisti repubblicani, al sottosegretario per la Sicurezza Nazionale David Glawe.

Quanto all’opposizione interna, è scesa in campo anche questo primo dicembre con una contromanifestazione, mentre prosegue attraverso i media e nelle reti sociali la diffusione di fake news con cui si cerca di delegittimare e screditare il governo, secondo un piano già messo in atto con successo in altri paesi. Tra le decisioni contestate dalla destra, l’aver concesso asilo politico a Evo Morales, costretto a dimettersi dopo l’ennesimo golpe in Bolivia.

Vi è poi da registrare il discorso, dai toni apertamente golpisti, pronunciato il 22 ottobre dal generale Carlos Gaytán Ochoa (un militare ora a riposo, che nel suo curriculum ha anche un corso di specializzazione presso la tristemente nota School of Americas). “Viviamo oggi in una società politicamente polarizzata perché l’ideologia dominante, quando non maggioritaria, si sostiene su presunte correnti di sinistra, che durante gli anni hanno accumulato un grande risentimento”, ha affermato Gaytán tra gli applausi degli alti vertici dell’esercito e dell’aviazione. Pur ammettendo che l’attuale presidente rappresenta legittimamente circa trenta milioni di messicani (tanti i voti ottenuti da Amlo il primo luglio 2018), l’oratore ha aggiunto: “I fragili meccanismi di contrappeso esistenti hanno permesso un rafforzamento dell’esecutivo che sta favorendo decisioni strategiche che, per dirla con moderazione, non hanno convinto tutti”. E ancora: “Questo ci preoccupa dal momento che tutti noi qui presenti siamo stati formati con valori che si scontrano con il modo in cui il paese è oggi diretto”.

Un attacco, da parte di un militare alle istituzioni civili, senza precedenti nella storia del Messico postrivoluzionario. Anche se nei giorni successivi altri alti ufficiali (il titolare del Ministero della Difesa Nazionale, generale Luis Cresencio Sandoval, e quello della Marina, ammiraglio Rafael Ojeda Durán) hanno ribadito la loro lealtà al presidente López Obrador, le dichiarazioni di Gaytán restano un segnale preoccupante dell’esistenza di tendenze eversive all’interno delle forze armate.

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