La muraglia d’acciaio

Insieme al merito storico di aver guidato una Rivoluzione socialista nelle narici dell’impero, Fidel ha la virtù di aver costruito, centimetro per centimetro, l’unità dei cubani

Juan Antonio Borrego  www.granma.cu

Dopo che gli aveva domandato di tutto, Ignacio Ramonet rimase con il suo successivo percorso preparato, quando Fidel lo anticipò e gli pose sul tavolo la questione dell’inclusione dei religiosi nelle file del Partito a partire dal 1991.

“All’inizio si ebbe anche conflitti tra la Rivoluzione ed alcune chiese, pregiudizi che alimentarono gli antisocialisti da un lato e gli antireligiosi dall’altro -gli confessò Fidel-. Il Partito adottò la drastica misura di non ammettere credenti nei suoi ranghi. Io mi ritengo con una parte importante di tale responsabilità, perché l’abbiamo visto come rischio di un possibile conflitto di lealtà… ».

La questione fu risolta dopo la sua discussione con tutta la militanza politica dell’isola nel contesto della celebrazione del IV Congresso del Partito Comunista di Cuba (PCC), che accordò l’inclusione nell’organizzazione politica di tutti quei rivoluzionari, che accettassero i suoi Statuti e Programma indipendentemente dalla loro fede religiosa.

Lei finì per difendere quella tesi? gli domandò il giornalista, scrittore e politologo di origine spagnola al dirigente storico della Rivoluzione, quando ancora ‘Cento ore con Fidel’ era in fase progettuale.

“Sebbene la mia posizione fosse diversa quando si stabilì l’esclusione al crearsi il Partito, io quasi fui dei primi difensori dell’idea dell’ingresso dei credenti”, gli rispose il Comandante in Capo, forse la persona che meglio poteva spiegare il duro scontro ideologico inscenato nei primi anni del processo rivoluzionario ed il freno di pregiudizi e sfiduce tra credenti e non credenti, che ne sopravverrebbe per molto tempo.

Due decenni fa, mentre rispondeva a una domanda simile a Frei Betto, che poi sarebbe stata pubblicata come ‘Fidel e la religione’, un libro essenziale per comprendere la profondità della questione nel nostro paese, il dirigente cubano avrebbe dedicato un poster al domenicano brasiliano con un testo così suggestivo come inaspettato: “Non c’è ancora riuscito, ma se qualcuno può far di me un credente è Frei Betto…”.

Il fatto che i religiosi possano, dal 1991, militare nel Partito Comunista di Cuba è solo una delle tante prove dell’impegno personale di Fidel a costruire quello che chiamò “un Partito d’acciaio” e anche espressione di quel suo impegno per fare dell’unità nazionale una muraglia, che in ogni circostanza preserva la salute della Rivoluzione.

GLI INSEGNAMENTI DELLA STORIA

 

Se il generale Máximo Gómez aveva fatto cantare il suo machete da Pinos de Baire sino ai recinti di Camagüey e poi i villarenos lo cacciarono a spintoni dal centro del paese, non fu proprio a causa del potere degli ospiti spagnoli, che sì seppero sfruttare molto bene i disaccordi e le contraddizioni nella parte dei cubani.

Almeno a quella conclusione giunse Fidel quando un secolo dopo la rivolta di La Demajagua, il 10 ottobre 1968, osservò gli eventi della Guerra Grande con il prisma del tempo: «Quella eroica lotta fu sconfitta non dalle armi spagnole -riconobbe lui- ma sconfitta da uno dei peggiori nemici che ebbe sempre il processo rivoluzionario cubano, sconfitta dalle divisioni degli stessi cubani, sconfitta dalle discordie, sconfitta dal regionalismo, sconfitta dal caudillismo…».

Prima di lui, lo aveva capito José Martí, che ebbe talento e vocazione per aiutare a guarire vecchie ferite; fondare un partito -il Partito Rivoluzionario Cubano- non per fare politica, ma per fare la guerra; unire i vecchi guerrieri del ’68 con i vigorosi “pini nuovi” ed erigersi come dirigente di una lotta che lui si propose fosse “con tutti e per il bene di tutti”.

«Di Céspedes l’impeto, e di Agramonte la virtù. L’uno è come il vulcano, che proviene, tremendo ed imperfetto, dalle viscere della terra; e l’altro è come lo spazio blu che lo corona”, scrisse il Maestro, come colui che si propone equilibrare in una bilancia tutta la gloria che i due giganti avevano lasciato dispersa nei campi cubani.

Di quei disaccordi tanto umani quanto inutili; dell’ingiusta destituzione di Céspedes a Bijagual; della dolorosa pace di El Zanjón; degli eventi de La Mejorana, quando quei tre grandi (José Martí, Máximo Gómez e Antonio Maceo) discuterono attorno ad un tavolo del modo di fare la guerra; dell’intervento opportunista e dell’umiliazione dei mambi a Santiago; del licenziamento dell’Esercito Liberatore; della rivoluzione che finì nel ’33 e di tutta la debacle repubblicana, Fidel apprese che per sconfiggere nemici così potenti era necessario camminare uniti.

Ecco perché forse, nel 1956, non esitò a firmare la Lettera dal Messico in base alla quale il Movimento del 26 Luglio (M-26-7) ed il Direttorio Rivoluzionario 13 Marzo stabilirono il loro impegno di “unire solidamente i loro sforzi allo scopo di rovesciare la tirannia e portare a termine la Rivoluzione cubana».

Un’altra organizzazione ugualmente impegnata nel rovesciamento della dittatura batistiana, il Partito Socialista Popolare (PSP), che allora abbracciava tattiche di lotta molto diverse e aveva persino mostrato il suo disaccordo con l’assalto alla caserma Moncada, fu anche ben accolto nella Sierra Maestra , dove noti militanti come Armando Acosta e Carlos Rafael Rodríguez finirono per condividere la trincea con i guerriglieri del 26 Luglio, e a Yaguajay, a nord di Las Villas, il combattente Felix Torres ed il suo distaccamento del PSP ricevettero senza diffidenza e guarirono le ferite degli invasori della colonna Antonio Maceo al loro arrivo nell’area.

Farina di altro sacco sarebbe la storia della lotta guerrigliera nell’Escambray, dove nonostante i malintesi e gli intrighi del cosiddetto Secondo Fronte, il comandante Che Guevara, per espresso mandato di Fidel, fece l’indicibile per sommare questa forza, numerosa e ben armata, ai canali della lotta rivoluzionaria.

NELLA BUONA E CATTIVA SORTE

 

Quando due decenni fa il governo USA ed il suo sistema giudiziario hanno chiuso gli occhi di fronte al sequestro del bambino Elián González, Fidel non pensò di offrire denaro in cambio del suo ritorno, né inviare un commando nel sud della Florida per salvarlo, pensò alla forza ed all’unità del popolo.

“Tranquillo, a partire da domani stesso l’intera nazione si rivolta per rivendicare il ritorno di tuo figlio”, ha detto a Juan Miguel González, nella tarda notte del 2 dicembre 1999, quando il padre del bambino lo consumava un sentimento combinato di rabbia ed ansia in quell’ufficio del Consiglio di Stato, che mai aveva pensato di visitare.

Ciò che Fidel chiamò la battaglia per Elián iniziò con la prima marcia il 5 dicembre di fronte all’allora Ufficio degli Interessi USA a L’Avana, ma poi si infiammò, si estese, prima in tutto il paese e poi in mezzo mondo, e si concluse solo quando il bambino mise i suoi piedi sulla lastra dell’aeroporto internazionale José Martí, il 28 giugno 2000, dopo più di sei mesi di lotta.

Non fu l’unica volta in cui Fidel avrebbe convocato il popolo come attore protagonista: la Campagna di Alfabetizzazione, la Lotta Contro i Banditi, la raccolta dello zucchero degli anni ’70, il processo di rettifica di errori e tendenze negative, la lotta contro gli attentati terroristici, il periodo speciale, la Battaglia d’ Idee e la ricerca del consenso sulle leggi più importanti del paese, per citare solo alcuni esempi, confermano uno stile di direzione e di permanente interscambio con le masse e dimostrano la vocazione unitaria del dirigente storico della Rivoluzione.

«Fidel ci ricordò con particolare enfasi che la Rivoluzione è unità -ha sottolineato il nostro Presidente, Miguel Díaz-Canel Bermúdez, parlando durante il XXIV Incontro del Forum di San Paolo (L’Avana, 17 luglio 2018)-. Essa, in effetti, è stata una delle chiavi per capire perché siamo stati in grado di affrontare con successo aggressioni esterne di ogni tipo ed anche risolvere, in stretto rapporto tra il popolo ed il vertice del paese, i più delicati problemi legati all’edificazione del socialismo».

Su tale merito di Fidel si riferì, in modo illuminante, il Secondo Segretario del Comitato Centrale del Partito, José Ramón Machado Ventura, in occasione del 50esimo anniversario della creazione del Comitato Centrale e della nascita del giornale Granma, quando ha ricordato la determinante partecipazione del Comandante in Capo a tutto il processo di unificazione del comando rivoluzionario e della sua visione sulla costruzione dell’organizzazione d’avanguardia nel paese, compito in cui fu anche determinante la partecipazione di Raul e di altri capi.

Machado ha ricordato un’idea espressa da Fidel, l’11 aprile 1962, sulle relazioni tra il Partito e le masse, valida per i tempi attuali e anche per quelli a venire: «La rivoluzione è fatta dalle masse e per le masse -espresse allora Fidel-. Questa è la ragione dell’esistenza del Partito, e tutto il suo prestigio, tutta la sua autorità sarà in relazione con il reale legame che abbia con la massa. Quel Partito non avrà autorità davanti alla massa per essere Partito, ma che sarà Partito per l’autorità ed il prestigio che abbia davanti alle masse. Se non ha alcun legame con le masse, nessun prestigio ed autorità davanti alle masse, non è Partito; diventa un’organizzazione rachitica, povera, e sarà sempre meno Partito, perché la sua ragion d’essere stava nella sua connessione con le masse.


La muralla de acero

Junto al mérito histórico de haber lidereado una Revolución socialista en las narices del imperio, Fidel tiene la virtud de haber labrado, centímetro a centímetro, la unidad de los cubanos

Autor: Juan Antonio Borrego

Después que le había preguntado por lo humano y lo divino, Ignacio Ramonet se quedó con su próxima recta preparada, cuando Fidel se le adelantó y le puso sobre la mesa el tema de la inclusión de los religiosos a las filas del Partido a partir del año 1991.

«Al principio también hubo conflictos entre la Revolución y algunas iglesias, prejuicios que alimentaron antisocialistas por un lado y antirreligiosos por otro –le confesó Fidel–. El Partido adoptó la drástica medida de no admitir creyentes en sus filas. Yo me considero con parte importante de esa responsabilidad, porque lo veíamos como riesgo de un posible conflicto de lealtades…».

El asunto quedó zanjado luego de su discusión con toda la militancia política de la Isla en el contexto de la celebración del iv Congreso del Partido Comunista de Cuba (pcc), que acordó la inclusión en la organización política de todos aquellos revolucionarios, que aceptasen sus Estatutos y Programa con independencia de su fe religiosa.

¿Usted acabó por defender esa tesis?, le preguntó el periodista, escritor y politólogo de origen español al líder histórico de la Revolución, cuando todavía Cien horas con Fidel estaba en proyecto.

«Aunque mi posición era distinta cuando se estableció la exclusión al crearse el Partido, yo casi fui de los primeros defensores de la idea del ingreso de los creyentes», le contestó el Comandante en Jefe, quizá la persona que mejor podía explicar el duro enfrentamiento ideológico escenificado en los primeros años del proceso revolucionario y la rémora de prejuicios y desconfianzas entre creyentes y no creyentes, que sobrevendría por mucho tiempo.

Dos décadas atrás, mientras respondía un cuestionario similar a Frei Betto, que luego terminaría editado como Fidel y la religión, un libro imprescindible para comprender la hondura del asunto en nuestro país, el líder cubano le dedicaría un afiche al dominico brasileño con un texto tan sugerente como inesperado: «Aún no lo ha logrado, pero si alguien puede hacer de mí un creyente es Frei Betto…».

Que los religiosos puedan, desde 1991, militar en el Partido Comunista de Cuba es apenas uno de las tantas evidencias del empeño personal de Fidel por construir lo que él llamó «un Partido de acero» y también expresión de ese empeño suyo por hacer de la unidad nacional una muralla, que en cualquier circunstancia preserve la salud de la Revolución.

LAS ENSEÑANZAS DE LA HISTORIA

Si el general Máximo Gómez había hecho cantar su machete desde Pinos de Baire hasta los potreros de Camagüey y luego los villareños lo sacaron a empujones del centro del país no fue precisamente por el poder de las huestes españolas, que sí supieron aprovechar muy bien las desavenencias y las contradicciones en el bando de los cubanos.

Al menos a esa conclusión llegó Fidel cuando un siglo después del alzamiento de La Demajagua, el 10 de octubre de 1968, miró con el prisma del tiempo los acontecimientos de la Guerra Grande: «Aquella lucha heroica fue vencida no por las armas españolas –reconoció él–, sino vencida por uno de los peores enemigos que tuvo siempre el proceso revolucionario cubano, vencida por las divisiones de los mismos cubanos, vencida por las discordias, vencida por el regionalismo, vencida por el caudillismo…».

Antes que él, lo había comprendido José Martí, quien tuvo talento y vocación para ayudar a sanar viejas heridas; fundar un partido –el Partido Revolucionario Cubano–, no para hacer política, sino para hacer la guerra; juntar a los viejos guerreros del 68 con los pujantes «pinos nuevos» y erigirse en líder de una contienda que él se propuso fuera «con todos y para el bien de todos».

«De Céspedes el ímpetu, y de Agramonte la virtud. El uno es como el volcán, que viene, tremendo e imperfecto, de las entrañas de la tierra; y el otro es como el espacio azul que lo corona», escribió el Maestro, como quien se propone equilibrar en una balanza toda la gloria que los dos gigantes habían dejado dispersa en los campos cubanos.

De aquellas desavenencias tan humanas como inútiles; de la injusta destitución de Céspedes en Bijagual; de la dolorosa paz de El Zanjón; de los sucesos de La Mejorana, cuando aquellos tres grandes (José Martí, Máximo Gómez y Antonio Maceo) discutieron en torno a una mesa el modo de hacer la guerra; de la intervención oportunista y de la humillación de los mambises en Santiago; del licenciamiento del Ejército Libertador; de la revolución que se fue a bolina en el 33 y de toda la debacle republicana, aprendió Fidel que para vencer a enemigos tan poderosos era preciso andar unidos.

Por eso quizá, en 1956, no titubeó en firmar la Carta de México en virtud de la cual el Movimiento 26 de Julio (M-26-7) y el Directorio Revolucionario 13 de Marzo establecieron su compromiso de «unir sólidamente su esfuerzo en el propósito de derrocar a la tiranía y llevar a cabo la Revolución Cubana».

Otra organización igualmente comprometida con el derrocamiento de la dictadura batistiana, el Partido Socialista Popular (PSP), que para entonces abrazaba tácticas de lucha muy diferentes e incluso había mostrado su desacuerdo con el asalto al cuartel Moncada, también fue bien recibida en la Sierra Maestra, donde conocidos militantes como Armando Acosta y Carlos Rafael Rodríguez terminaron compartiendo trinchera con los guerrilleros del 26 de Julio, y en Yaguajay, al norte de Las Villas, el luchador Félix Torres y su destacamento del psp recibieron sin recelos y curaron las llagas a los invasores de la columna Antonio Maceo a su llegada a la zona.

Harina de otro costal sería la historia de la lucha guerrillera en el Escambray, donde a pesar de los desaires y las intrigas del llamado Segundo Frente, el Comandante Che Guevara, por mandato expreso de Fidel, hizo lo indecible por sumar esta fuerza, numerosa y bien armada, a los cauces de la lucha revolucionaria.

EN LAS VERDES Y EN LAS MADURAS

Cuando hace dos décadas el Gobierno de Estados Unidos y su sistema de justicia se hicieron los de la vista gorda ante el secuestro del niño Elián González, Fidel no pensó en ofrecer dinero a cambio de su devolución, ni en enviar un comando al sur de La Florida para rescatarlo, pensó en la fuerza y unidad del pueblo.

«Tranquilo, a partir de mañana mismo se vuelca la nación completa a hacer el reclamo por el regreso de tu hijo», le dijo a Juan Miguel González entrada la noche del 2 de diciembre de 1999, cuando al padre del niño lo consumía un sentimiento combinado de rabia y de zozobra en aquel despacho del Consejo de Estado, que nunca había pensado visitar.

Lo que Fidel denominó la batalla por Elián comenzó con la primera marcha el 5 de diciembre frente a la entonces Oficina de Intereses de Estados Unidos en La Habana, pero enseguida se inflamó, se extendió, primero por todo el país y luego por medio mundo, y solo concluyó cuando el niño puso sus pies en la losa del aeropuerto internacional José Martí, el 28 de junio de 2000, tras más de seis meses de pelea.

No fue la única vez que Fidel convocara al pueblo como actor protagónico: la Campaña de Alfabetización, la Lucha Contra Bandidos, la zafra del 70, el proceso de rectificación de errores y tendencias negativas, la lucha contra los atentados terroristas, el periodo especial, la Batalla de Ideas y la búsqueda del consenso en torno a las más importantes leyes del país, por solo citar algunos ejemplos, confirman un estilo de dirección y de intercambio permanente con las masas y prueban la vocación unitaria del líder histórico de la Revolución.

«Fidel nos recordó con especial énfasis que Revolución es unidad –señaló nuestro Presidente, Miguel Díaz-Canel Bermúdez, al intervenir en el XXIV Encuentro del Foro de Sao Pablo (La Habana, 17 de julio de 2018)–. Ella, en efecto, ha sido una de las claves para entender por qué hemos podido encarar con éxito agresiones externas de todo tipo, y también resolver, en estrecha relación entre el pueblo y la máxima dirección del país, los más sensibles problemas relacionados con la edificación del socialismo».

Sobre ese mérito de Fidel se refirió de manera esclarecedora el Segundo Secretario del Comité Central del Partido, José Ramón Machado Ventura, en ocasión del aniversario 50 de la creación del Comité Central y el nacimiento del periódico Granma, cuando recordó la determinante participación del Comandante en Jefe en todo el proceso de unificación del mando revolucionario y su visión sobre la construcción de la organización de vanguardia en el país, tarea en la que también fue determinante la participación de Raúl y de otros jefes.

Machado recordó una idea expresada por Fidel el 11 de abril de 1962 acerca de las relaciones entre el Partido y las masas, que resulta válida para los tiempos que corren y también para los que están por venir: «La revolución se hace por las masas y para las masas –expresó entonces Fidel–. Esa es la razón de existir del Partido, y todo su prestigio, toda su autoridad estará en relación con la vinculación real que tenga con la masa. Ese Partido no tendrá autoridad ante la masa por ser Partido, sino que será Partido por la autoridad y el prestigio que tenga ante las masas. Si no tiene conexión con las masas, ni prestigio y autoridad ante las masas, no es Partido; se vuelve una organización raquítica, pobre, y será cada vez menos Partido, porque su razón de ser estaba en su vinculación con las masas».

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