La legge bavaglio dei golpisti boliviani

José Luis Méndez Méndez  www.cubadebate.cu

traduzione Matthias Moretti

Nel corso del 2019 si è segnalata un’apparente diminuzione degli omicidi di giornalisti rispetto agli ultimi 16 anni. Senza dubbio però i dati mostrano un’altra faccia della realtà riguardo le esecuzioni di coloro che hanno il compito di divulgare le notizie con etica, oggettività e tempestività.

Un elemento di novità è che sono aumentate le loro morti in paesi ritenuti “democratici” ed in scenari esterni alle zone di guerra, oltre all’aumento degli arresti, aggressioni e dubbi procedimenti giudiziari contro i professionisti dell’informazione. Forse il dato più allarmante è proprio che 29 giornalisti sono morti in zone di pace e solo 20 in zone di conflitto.

Le relazioni annuali delle organizzazioni che seguono le notizie sull’andamento della libertà di stampa nel mondo registrano che lo scorso anno è stato quello meno con il minor numero di omicidi di giornalisti dal 2003, ma è stato anche l’anno nel quale è aumentato il numero dei professionisti arrestati. Le cifre rivelano una cruda realtà: 49 omicidi, 57 sequestri e 389 giornalisti dietro le sbarre. Il 63% degli omicidi sono stati commessi in modo deliberato, mentre il 37% è morto nell’esercizio della propria professione.

È positivo il bilancio che mostra che mentre nel 2012 le eliminazioni arrivarono a 143, cifra record che ha cominciato a scendere fino ad arrivare al centinaio nel 2016 per continuare con l’incoraggiante diminuzione dell’ultimo anno del decennio passato, pur con i chiarimenti già forniti.

Ma l’America Latina, dichiarata Zona di Pace nel 2014, è diventata un luogo “letale” per la stampa, e rispetto al numero totale ufficiale, 14 giornalisti sono stati uccisi in questa regione, e dieci casi ulteriori sono ancora oggetto di indagini in Cile, Honduras e Brasile, cosa che potrebbe aumentare il bilancio dei morti. Chi segue da vicino l’impegno della stampa dice che la regione è “particolarmente instabile e pericolosa per i professionisti dell’informazione”.

Le incarcerazioni aumentano e s’incrementano i sequestri. Il numero di giornalisti detenuti va aumentando negli ultimi anni. Nel 2019 ha raggiunto la cifra di 389 giornalisti dietro le sbarre, il 12% in più che nel 2018, e questo dato ignora inoltre i giornalisti detenuti arbitrariamente per alcune ore, giorni o persino settimane, quelli che anche sono vittime di sequestri “express” diretti all’intimidazione affinché cessino le loro denunce, come avvertimenti di rappresaglie che potrebbero subire se non interrompono il proprio lavoro. Una stima non definitiva afferma che attualmente ci siano 57 giornalisti sequestrati nel mondo. Un altro metodo impiegato per imbavagliarli è costringerli all’esilio per sfuggire a procedimenti giudiziari abusivi.

Un esempio vicino è quello del colpo di Stato in Bolivia dello scorso novembre, quando due professionisti della stampa di origine argentina sono stati attaccati, e uno di questi, Sebastián Moro, è apparso incosciente, agonizzante nel suo appartamento, e giorni dopo è morto in ospedale. È stato dichiarato che la morte è stata dovuta ad un attacco ischemico, ma il suo corpo presentava segni di colpi contundenti. Inoltre nella sua casa non si è trovato né un quaderno, né un registratore, né il gilet da giornalista, evidentemente era stata “ripulita” da ogni prova che avrebbe potuto spiegare l’accaduto, ed il fatto ha suggerito che si trattasse di un’esecuzione extragiudiziale.

Un giorno prima che si consumasse il colpo di Stato in Bolivia, quando ormai la situazione boliviana era già convulsa e i gruppi paramilitari avevano iniziato puntualmente ad agire contro i funzionari del governo di Evo Morales e i loro familiari, si era perduto ogni contatto con Moro.

Prima ancora di formulare qualunque ipotesi, la sua famiglia non ha dubbi che Moro rappresentasse un “nemico” per i gruppi violenti che già portavano avanti nelle strade l’attacco golpista. Il fatto è che il giornalista argentino lavorava come redattore nella rivista Prensa Rural, appartenente alla Confederazione Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia (CSUTCB), un mezzo d’informazione chiaramente vicino al governo legittimo da far cadere.

Tra l’altro solo il giorno prima il direttore della radio Comunidad, appartenente alla stessa Confederazione contadina, José Aramayo, era stato sequestrato, legato a un albero e umiliato da parte delle squadracce che hanno scatenato il terrore nelle strade boliviane. Quella mattina, Sebastián aveva già capito che la situazione iniziava ad essere di piena persecuzione per la stampa, motivo per cui decise di lavorare da casa sua per diffondere notizie alla comunità indigena e contadina di quel paese, bersaglio prioritario per la repressione dei razzisti golpisti.

L’altro, Facundo Morales Schoenfeld, agonizza circondato da esigue attenzioni mediatiche, accusato di un numero esorbitante di delitti in realtà predisposti dalle autorità golpiste, che hanno emanato il giorno stesso del golpe militare una ferrea “legge bavaglio” per nascondere ciò che è accaduto immediatamente dopo l’inquietante 10 novembre, quando orde paramilitari, poliziotti e soldati hanno massacrato il popolo boliviano, bruciato case e luoghi istituzionali per sistemarsi al potere a suon di sangue e fuoco, oltre ad incolpare i governanti deposti e i dirigenti politici oppositori del disordine generalizzato del quale hanno approfittato per consolidarsi al comando.

Emittenti locali sono state silenziate con la forza per impedire che denunciassero i disordini nelle zone indigene e trasmettessero le notizie nelle lingue locali. Varie autorità di paesi latinoamericani si sono unite alla richiesta di riconoscere la violenza contro la stampa che si è prodotta dopo il golpe militare. In particolare il governo uscente dell’Argentina ha sollecitato le autorità che sono nell’esercizio del potere in Bolivia a vigilare sulla sicurezza e l’integrità fisica degli operatori dei media argentini presenti sul territorio boliviano che lavorano nella copertura degli avvenimenti che sono di pubblico interesse. L’allora ambasciatore argentino a La Paz, Normando Álvarez, ha informato che i giornalisti aggrediti si trovavano già in quella sede diplomatica e ricevevano protezione. L’Associazione delle Organizzazioni Giornalistiche Argentine (ADEPA), che riunisce 180 aziende mediatiche, ha denunciato “le aggressioni e la minaccia” alle troupe giornalistiche argentine dei canali televisivi A24, Crónica TV, Telefé e Todo Noticias, che sono state trattate brutalmente dai gruppi militari incaricati della repressione.

Il caso del fotoreporter argentino Molares Schoenfeld sembra essere un chiaro esempio della violenza sproporzionata esercitata dai golpisti boliviani. Molares è arrivato in Bolivia come corrispondente della rivista argentina Centenario, per registrare attraverso il suo obiettivo gli avvenimenti che si sarebbero prodotti a partire dal trionfo elettorale di Evo Morales, minacciato di non essere riconosciuto dall’opposizione già dallo stesso 20 di ottobre. Gran parte della stampa straniera che ha dato copertura alle elezioni generali, visto il clima di tensione esistente nel paese, ha deciso di fermarsi alcuni giorni in più. Tra loro Molares Schoenfeld. È stato brutalmente aggredito e derubato dei suoi strumenti di lavoro per essere rinchiuso in carcerazione preventiva nel carcere di Palmasola, dopo essere stato arrestato il 12 di novembre a Yacapaní, con gravi ferite, che sono arrivate a costringerlo nello stato clinico di coma indotto, e per essere poi indagato secondo quanto detto dal procuratore capo di Santa Cruz de la Sierra, Mirael Salguero Palma.

Nell’immediato gli si fabbricano addosso accuse esagerate, difficili da dimostrare per le circostanze nelle quali si suppone che si siano prodotte le azioni di cui lo si accusa, tra le altre quella di omicidio, associazione a delinquere e istigazione pubblica a delinquere, per la sua supposta partecipazione agli avvenimenti accaduti nella zona del Puente de la Amistad e nel quartiere Cofadena del municipio di Montero, Santa Cruz. Tutta questa è una gran montatura per giustificare maggiore repressione.

Per intorbidire e falsificare il suo reale impegno come fotoreporter in Bolivia, gli accusatori hanno fatto appello ai precedenti politici di Molares in Colombia, dove è appartenuto a strutture ormai disciolte di gruppi armati che sono passate all’inserimento nella società colombiana come risultato degli Accordi di Pace, riconosciuti a livello nazionale ed internazionale. Si è precisato che si unì al processo di pace e si ritirò prima che questo terminasse, nel 2017, di modo da non avere, due anni dopo, nessun collegamento attivo con la disciolta guerriglia colombiana, e nemmeno ha carichi pendenti con la giustizia colombiana. Era nel pieno esercizio del suo ruolo di corrispondente.

Nonostante il suo delicato stato di salute, con un trauma encefalo-cranico grave, e contro il parere dei medici che lo avevano assistito all’Ospedale Giapponese, quando vi è entrato il 12 novembre per problemi renali e respiratori che hanno obbligato a intubarlo, le autorità repressive hanno ordinato il suo trasferimento nel temibile carcere di Palmasola, a Santa Cruz, conosciuto come il più pericoloso della Bolivia, dove viene ammassato il 36% dei detenuti; progettato per 800 ospiti, ne accumula più di 4000 in condizioni disumane, con un isolamento totale, e sono frequenti le rivolte e gli scontri tra gruppi rivali. Il più recente ha prodotto sei morti e decine di feriti. Dopo di che, il 6 dicembre 2019, lo spostano in un’altra struttura simile, quella di Chonchocoro, situata a 4000 metri di altitudine e con temperature estreme, afflitto da polmonite.

Le autorità di fatto cercano di giustificare la repressione che esercitano e per quello producono storie come quella imbastita contro Molares, che secondo suo padre Hugo Molares, giudice di pace di Trevelin, provincia di Chubut, Argentina, è un grande essere umano, privo di preoccupazioni materiali e sempre occupato a cercare il bene della collettività.

I suoi precedenti lavorativi ce lo raccontano come un perito forestale, amante della scrittura e professionista della fotografia, con una piena conoscenza politica della realtà latinoamericana, impegnato nella sua professione di giornalista, che stava realizzando quando è stato aggredito.

Gli usurpatori del potere in Bolivia sono messi all’angolo, non potranno dimostrare le accuse contro Molares, le menzogne che giustificano il suo arresto illegale svaniranno con l’arrivo della verità sulle loro manovre. La vita di questo giornalista argentino è in pericolo, le organizzazioni in difesa dei diritti umani e che proteggono il libero esercizio della stampa sono impegnate a evitare un nuovo assassinio che metterebbe a tacere la realtà del caso Facundo, la quale deve ottenere la solidarietà mondiale ben oltre quella “legge bavaglio” che gli usurpatori continuano a mantenere.

(tratto da Resumen Latinoamericano)


Ley mordaza de los golpistas bolivianos

Por: José Luis Méndez Méndez

El año 2019, marcó un aparente descenso de los asesinatos de periodistas en los últimos 16 años. Sin embargo, los indicadores muestran otra cara de la realidad sobre la ejecución de los encargados de divulgar los acontecimientos con ética, objetividad e inmediatez.

Un elemento novedoso es, que aumentó sus muertes en países preciados de “democráticos” y en escenarios fuera de zonas de guerra, además del incremento en las detenciones, agresiones y dudosos manejos judiciales contra los profesionales de la información. Quizás el dato más alarmante es que 29 periodistas fueron muertos en zonas de paz y solo 20 en zonas de conflicto.

Informes anuales de organizaciones que siguen las noticias sobre la libertad de prensa en el mundo, registra que el pasado año fue el de menos asesinatos a periodistas desde 2003, pero también fue el año en el que aumentó el número de profesionales detenidos. Las cifras revelan una cruda realidad: 49 asesinatos, 57 secuestros y 389 periodistas entre rejas. El 63% de los homicidios se cometieron de manera deliberada, mientras que el 37% murieron en el ejercicio de su profesión.

Es positivo el registro que muestra que mientras en el 2012, las eliminaciones sumaron 143, cifra pico, que comenzó a descender hasta llegar a la centena en 2016 y continuar en el declive alentador en el último año de la pasada década, con las aclaraciones ya realizadas.

Pero América Latina, declarada Zona de Paz en el 2014, se ha convertido en “letal” para la prensa, del total reconocido 14 periodistas fueron ultimados en la región, pero diez casos más aún son investigados en Chile, Honduras y Brasil, lo cual podría aumentar la cifra de fallecidos. Quienes siguen de cerca el desempeño de la prensa han expresado que la región es “particularmente inestable y peligrosa para los profesionales de la información”.

Los encarcelamientos aumentan y los secuestros se incrementan. La cifra de periodistas detenidos va en aumento en los últimos años. En 2019, alcanzó los 389 reporteros entre rejas, un 12% más que en 2018, se ignora, además, a los periodistas detenidos arbitrariamente durante unas horas, días o incluso semanas, aquellos que también son víctimas de secuestros “exprés” dirigidos a la intimidación de ellos para que cesen en sus denuncias, como advertencia de represalias que podrían sufrir de no interrumpir su labor. Un estimado no conclusivo afirma que 57 periodistas siguen secuestrados en el mundo. Otro método empleado para amordazarlos es forzarlos al exilio para escapar de procesos judiciales abusivos.

Un ejemplo cercano es el golpe de Estado en Bolivia en noviembre pasado, cuando dos profesionales de la prensa de origen argentino fueron atacados, uno de ellos Sebastián Moro, apareció inconsciente, agonizante en su apartamento, días después murió en un hospital. Se declaró que su deceso fue debido a un ACV Isquémico pero su cuerpo presentaba golpes contundentes. Además, en su casa no se encontraron un cuaderno, un grabador ni el chaleco de periodista, evidentemente había sido “limpiado” de toda evidencia, que explicara lo sucedido y el hecho sugería una ejecución extrajudicial.

Un día antes de que se consumara el golpe de Estado en Bolivia, cuando ya la realidad boliviana era convulsa y los grupos paramilitares habían comenzado puntualmente a actuar contra los funcionarios del gobierno de Evo Morales y sus familiares, se había perdido todo contacto con Moro.

Antes de cualquier hipótesis, su familia no duda en que Moro representaba un “enemigo” por parte de los grupos violentos que ya en las calles promovía el asalto golpista. Es que el periodista argentino se desempeñaba como redactor en el periódico Prensa Rural, perteneciente a la Confederación Sindical Única de Trabajadores Campesinos de Bolivia (CSUTCB), un medio claramente afín al gobierno legítimo a derrocar.

Tan solo el día anterior, el director de la radio Comunidad perteneciente a esa Confederación campesina, José Aramayo, había sido secuestrado, atado a un árbol y humillado por parte de cuadrillas que desataron el horror en las calles bolivianas. Esa mañana, Sebastián ya había advertido que la situación comenzaba a ser de pleno hostigamiento para la prensa, por lo que decidió trabajar desde su casa para difundir para la comunidad indígena y campesina de ese país, blancos priorizados de los racistas golpistas para ser reprimidos.

El otro, Facundo Morales Schoenfeld, agoniza en medio de precarias atenciones médicas y acusado de un grupo exorbitante de delitos fabricados por las autoridades golpistas, que desataron desde el mismo día del zarpazo castrense una férrea “ley mordaza” para ocultar lo que aconteció inmediatamente después del siniestro 10 de noviembre, cuando hordas paramilitares, policías y soldados masacraron al pueblo boliviano, quemaron viviendas e instituciones para instalarse en el poder a sangre y fuego, además de culpar a los gobernantes depuestos y a dirigentes políticos opositores del desorden generalizado aprovechado para consolidarse en el mando.

Emisoras comunitarias fueron silenciadas por la fuerza para impedir que denunciaran los desmanes en zonas indígenas y que transmitieran las noticias en lenguas locales. Varias autoridades de países latinoamericanos, se unieron al reclamo de reconocer la violencia contra la prensa que se produjo después del golpe militar. En particular el gobierno saliente de Argentina solicitó a las autoridades en ejercicio del poder en Bolivia velar por la seguridad e integridad física de los medios argentinos presentes en territorio boliviano, trabajando en la cobertura de los sucesos que son de público conocimiento. El entonces embajador argentino en La Paz, Normando Álvarez, informó que la prensa agredida ya se encontraba en dicha sede diplomática, recibiendo protección. La Asociación de Entidades Periodísticas Argentinas (ADEPA), que agrupa a 180 empresas mediáticas, repudió “las agresiones y amenaza” a los equipos periodísticos argentinos de los canales de televisión A24, Crónica TV, Telefé y Todo Noticias, quienes fueron sometidos brutalmente por los grupos militares encargados de reprimir.

El caso del reportero gráfico argentino Molares Schoenfeld, parece ser un claro ejemplo de la violencia desmedida ejercidita por los golpistas bolivianos. Molares llegó a Bolivia como corresponsal de la revista Centenario de Argentina, para registrar desde su lente los acontecimientos, que se producirían ante el triunfo electoral de Evo Morales, amenazado con ser desconocido por la oposición desde el mismo 20 de octubre. Gran parte de la prensa extranjera que dio cobertura a las elecciones generales, visto el clima de tensión existente en el país, decidió quedarse unos días más. Molares Shoenfeld entre ellos. Fue brutalmente agredido y despojado de sus medios de trabajo para ser internado con detención preventiva al penal de Palmasola, después de ser detenido el 12 de noviembre en Yacapaní, con graves heridas, que llegaron a colocarlo en el estado clínico de coma inducido, para ser indagado, según informó el fiscal departamental de Santa Cruz de la Sierra, Mirael Salguero Palma.

De inmediato se le fabricaron desmedidos cargos, difíciles de demostrar por las circunstancias en que supuestamente se produjeron los hechos a los cuales se le vincula, entre otros de homicidio, asociación delictuosa e instigación pública a delinquir por su supuesta participación en sucesos ocurridos en la zona del Puente de La Amistad y en el barrio Cofadena del municipio de Montero, Santa Cruz. Todo esto es un gran montaje para justificar más represión.

Para enturbiar y farsear su real desempeño como reportero gráfico en Bolivia, los acusadores apelaron a los antecedentes políticos de Molares en Colombia, donde perteneció a estructuras ya disueltas de grupos armados que pasaron a insertarse en la sociedad colombiana como resultado de los Acuerdos de Paz, refrendados nacional e internacionalmente en ese país. Se precisó, que se sumó al proceso pacificador y se retiró antes de culminar este, en el 2017, de manera que no tenía, dos años después, ningún nexo activo con las disueltas guerrillas colombianas, tampoco tiene deudas pendientes con la justicia colombiana. Estaba en el ejercicio pleno de su oficio como corresponsal.

A pesar de su delicado estado de salud, trauma encéfalo craneal de gravedad y contrario a la opinión de los médicos que lo asistieron en el Hospital Japonés, cuando ingresó el 12 de noviembre, además, por problemas renales y respiratorios que obligaron a entubarlo, las represores ordenaron su traslado para el temible penal de Palmasola, ubicado en Santa Cruz, calificado como el más peligroso de Bolivia, donde se hacina el 36 por ciento de los presos, diseñado para 800 internos, acumula más de 4 000 en condiciones infrahumanas, con total aislamiento, donde son frecuentes los motines y enfrentamientos entre grupos rivales. El más reciente, produjo seis presos fallecidos y decenas de heridos. Después, el 6 de diciembre de 2019, lo trasladan a otra similar, la de Chonchocoro, situado a 4 mil metros de altura y con temperaturas extremas, aquejado de pulmonía.

Las autoridades de facto buscan explicar la represión que ejercen y para ello tejen historias como la hilvanada contra Molares, quien según su padre Hugo Molares, juez de Paz de Trevelin, provincia de Chubut, Argentina, es un gran ser humano, sin preocupaciones materiales y siempre preocupado por el bien de los demás.

Sus antecedentes laborales lo señalan como perito forestal, amante de la escritura y profesional de la fotografía, con plena identificación política de la realidad latinoamericana, comprometido con su profesión periodística, que realizaba cuando fue agredido.

Los usurpadores del poder en Bolivia, están acorralados, no podrán demostrar los delitos contra Molares, las mentiras que justifican su ilegal encierro se escurrirán ante la llegada de la verdad de sus desmanes. La vida de esta periodista argentino corre peligro, las organizaciones defensoras de los derechos humanos y las protectoras del libre ejercicio de la prensa, están conminadas a evitar un nuevo asesinato que acalle la realidad del caso Facundo,  que concita a la solidaridad mundial, más allá de la “ley mordaza”, que los defraudadores persisten en mantener.

(Tomando de Resumen Latinoamericano)

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