Venezuela, il febbraio ribelle di Euclides Campo Aponte – intervista

di Geraldina Colotti

Il Maggior generale Euclides Campo Aponte ha accompagnato Hugo Chavez nella ribellione civico-militare del 4 febbraio 1992, come responsabile della comunicazione. Lo abbiamo incontrato durante l’ultima seduta dell’Assemblea Nazionale Costituente, nel corso della quale Aponte ha illustrato i termini della nuova dottrina militare, proposta al massimo organo plenipotenziario del Venezuela.

Come si è costruita la ribellione civico-militare del 4 febbraio e come la racconteresti ai giovani?
Siamo a 28 anni dall’origine di un movimento che nacque con l’obiettivo di risvegliare il popolo da un lungo sonno di sottomissione, prima all’Europa e poi agli Stati Uniti. Il mio comandante Chavez con il suo esempio, le sue parole, la sua ferma convinzione ci ha fatto vedere la realtà di un paese che tutti vivevamo ma della quale non eravamo coscienti. Innalzando la bandiera di Bolivar, facendoci conoscere la sua dottrina, ha toccato il cuore e la coscienza di tutti quei soldati, ufficiali e civili che, come me, hanno partecipato al 4F. Per me, tutto è cominciato nel 1981. Ero entrato all’Accademia militare nel 1978 e mi sarei laureato nel 1982. Nell’81 ho conosciuto il mio comandante durante un’attività culturale in accademia e l’anno dopo sono cominciati gli incontri con lui e con gruppi di cadetti. Un sabato ci siamo riuniti solo noi due nell’attuale Scuola di artiglieria di Caracas.

Cosa disse in quell’incontro?
Cominciò allora un’attività che non era ancora di natura cospirativa, ma di apprendimento, per risvegliare la coscienza. Chavez non ci offriva incarichi o denaro, ma solo la prospettiva di costruire una patria differente, e per noi era sufficiente. Iniziò con una valutazione della situazione del paese, ci parlò del deterioramento morale della forza armata, della corruzione, della povertà e dell’assenza di diritti. Sapeva come risvegliare l’entusiasmo di noi giovani, e motivarci. E’ stato così in ogni situazione. Lo rividi nell’83 e poi di nuovo nel 1991, in Maracay. Allora iniziai a rendermi conto della consistenza del movimento in cui stavo militando: sergenti, capitani, sottotenenti. Pianificavamo le riunioni con molta prudenza per evitare fughe di informazioni. Chavez ci parlava della rivolta del Caracazo, di come, il 27 febbraio del 1989, la Forza armata fosse stata utilizzata dall’oligarchia e indotta a rivolgere le armi contro il popolo. Una macchia da cancellare, perché noi eravamo parte del popolo e non della élite, e dovevamo aiutare le classi popolari a ricostruire il paese. Durante il Caracazo ero al Forte Tiuna, seguivo la scuola di comunicazione, ci dedicavamo allo studio e non avevamo compiti militari. Da lì si sentivano gli spari. Quando si rese conto che il popolo non si sarebbe arreso alle decisioni del governo che intendeva imporre le ricette del Fondo Monetario Internazionale, la Forza armata usò armi da guerra e fu un massacro.

Allora eri di sinistra?
Più che catalogarmi di sinistra, direi che ero una persona consapevole. Allora quasi tutti militavano o nel partito Acción Democratica o nel Copei. Mio padre era iscritto a Ad, ma nei comportamenti era un socialista come altri mai. Fu sempre un esempio di lotta e di solidarietà. Io vedevo come aiutava i giovani, come li orientava e li appoggiava. E da lì proveniva la mia consapevolezza che occorresse cambiare la società aiutandoci tutti mutualmente.

Che ruolo hai avuto nell’operazione militare del 4F?
Per mesi, il mio comandante Chavez aveva pianificato tutto. Dovevano svolgersi varie operazioni nel Zulia, nel Carabobo, a Caracas, dove si sarebbe dovuto prendere il controllo e ridare dignità al popolo. Per me, tutto cominciò alle tre della notte precedente il 4 di febbraio. Stavo formando i compagni nell’attività di comunicazione, quando Chavez passa e mi dice: Campo oggi è il giorno. E io: con chi vado?, gli chiedo. Tu vieni con me, prepara il veicolo, coordina con il tenente … che ti dia il veicolo, e monta l’apparato di radio e comunicazione. Così mi dice. La sera del 3 febbraio, verso le 10,30 partiamo per Caracas a bordo sia di autobus civili che di veicoli militari. Durante tutto il viaggio, il mio comandante Chavez non ha mai mostrato ripensamenti o paura. Cantava e ogni tanto mi chiedeva: Come va la comunicazione, Campo? Era un uomo con caratteristiche speciali, capace di passare sotto il naso delle forze di repressione guidando la rivolta di oltre 2.000 uomini. Ne nasce uno così ogni 200 anni. Dovevamo arrivare al Museo Storico senza farci scoprire, ma prima volevamo andare alla sede della Rctv per diffondere un video. In quella sede, però, non c’erano trasmettitori, ma solo uffici… Ci siamo recati al Museo Storico. Il mio comandante ha detto che eravamo lì per rafforzare la sicurezza e ci hanno lasciato passare. Poi ha convinto i militari all’interno a non usare le armi e abbiamo preso il controllo dell’edificio.

E poi cosa accadde?
Era già passata la mezzanotte. Arrivarono altri compagni con gli autobus, ma rimanemmo per molte ore nell’incertezza sul resto dell’operazione. Considera che allora non c’erano i cellulari, e la mancanza di comunicazione fra le varie unità operative fu una delle principali ragioni per la quale non riuscimmo nell’intento. Nel corso della notte, il ministro della Difesa chiamò il mio comandante, ma lui mi fece dire che era occupato e il ministro non si fece più sentire. Verso le 2,30 riuscimmo a comunicare con la unità che si trovava nell’aeroporto militare della Carlota, ma subito cadde la linea e non abbiamo saputo niente fino all’alba, fino all’arrivo di una commissione di due generali, uno dei quali era Santeliz. Chavez li ricevette e così abbiamo saputo che i nostri non avevano catturato il presidente Pérez, che il governo e alcuni partiti avevano già preso posizione, che il punto centrale della ribellione, la capitale, a differenza degli altri nel paese non era sotto il nostro controllo. Gli aerei da combattimento avevano cominciato a volare sul quartiere 23 enero. Se avessimo usato le armi avrebbero bombardato la popolazione. Allora il comandante Chavez ci riunì e ci chiese se eravamo disposti a deporre le armi. Fummo tutti d’accordo. Ci ringraziò e disse che in tribunale lui si sarebbe assunto tutte le responsabilità. E così fece. Verso le 9,30 del mattino venne un contingente delle Forze armate del quale faceva parte il generale Santeliz, che era come un salvacondotto per la vita del mio comandante. Noi fummo prelevati verso le due. Ci portarono prima alla polizia militare a Forte Tiuna e poi al Cuartel San Carlo, dove c’erano molti altri compagni. Eravamo comunque allegri, perché avevamo fatto il nostro dovere. Mi liberarono dopo circa tre mesi e quando tornai in caserma, mi trasferivano continuamente, e così accadde ad altri compagni.

Quando hai incontrato di nuovo Chavez?
Lo rividi nel 1995, un anno dopo la sua uscita dal carcere. Mi chiese di riorganizzare i compagni, il popolo, la comunità, ma questa volta senza armi, dovevamo cercare una strada alternativa. Lo incontrai ancora nel 1997. Dopo la sua vittoria alle elezioni, mi chiamò a lavorare nella comunicazione in Casa Militar, e poi a dirigere l’esercito dal 2010 al 2012. In quell’anno, mentre era convalescente, conversammo in occasione del mio passaggio di consegne al Generale Alcalá. Mi chiese due volte dove volessi andare e per due volte gli risposi che ero un soldato e che sarei andato ovunque vi fosse stato bisogno. Lo accompagnammo nella sua ultima vittoria elettorale e poi nel suo ultimo viaggio. Successivamente, l’Almiranta Carmen Melendez mi affidò l’incarico di dirigere l’impresa Venalun in Guayana dove mi dedicai a formare la riserva attiva nel lavoro per il bene del paese. Nel 2017, sono stato eletto all’ANC, e qui stiamo, a difendere la patria.

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