Arlacchi: «A Miami i soldi della corruzione venezuelana anti-Maduro»

Il Periodista ha intervistato Pino Arlacchi, ex vicesegretario dell’ONU e architetto della strategia antimafia italiana, sulla situazione in Venezuela.

Calabrese di Gioia Tauro, 69 anni, dal 1997 al 2002 Arlacchi è stato vicesegretario generale dell’Onu – il segretario generale era Kofi Annan – e direttore esecutivo dell’Undcp, l’Ufficio per il controllo delle droghe e per la prevenzione del crimine delle Nazioni Unite.

Professore ordinario di Sociologia, già deputato, senatore e parlamentare europeo, Pino Arlacchi è stato l’architetto della strategia antimafia italiana degli anni ’80 e ’90.

Grande amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Arlacchi è stato presidente onorario della Fondazione Falcone e ha redatto il progetto esecutivo della Dia (Direzione Investigativa Antimafia).

Quando Totò Riina fece i nomi dei suoi tre principali nemici, uno era lui, «quell’Arlacchi che scrive libri» .

Tra i risultati delle sue attività a livello internazionale, l’approvazione della Convenzione di Palermo contro la criminalità transnazionale e la drastica riduzione delle colture di coca e di oppio da eroina, come nell’Afghanistan pre-11 settembre 2001: un lavoro vanificato dall’invasione statunitense, che ha permesso ai signori della guerra di riprendere a controllarne la produzione e l’esportazione.

Da qualche mese, Arlacchi è consigliere del governo Maduro per riformare il sistema giudiziario venezuelano. Un servizio che il sociologo ha già svolto in passato in diversi Paesi, come il Brasile di Luiz Inácio Lula, la Romania e il Messico, sia per quanto riguarda l’attività anticrimine sia per l’antiriciclaggio.

«Sempre a titolo gratuito – ci tiene a precisare -. Non ho altri scopi se non quello di aiutare a combattere la grande criminalità i governi che ne hanno bisogno. Ma mi faccia dire una cosa che non ho ancora detto e trovo importante».

Prego.

«In Venezuela il principale problema non è la criminalità organizzata ma la corruzione. Il tasso di corruzione è sempre stato molto alto, più dell’Italia pre-Mani pulite. È facile, visto l’andazzo, dare la colpa al governo Maduro, ma non è così».

Perché?

«Innanzitutto il sistema venezuelano è federale e decentrato: molti Stati e molte autorità locali sono governati dalla cosiddetta opposizione, quindi la corruzione si spalma su tutto il sistema politico e non solo su quello filogovernativo. La mia proposta iniziale, quando ho accettato l’incarico di consigliere, era di occuparmi di riformare il sistema giudiziario dal lato anti criminalità organizzata. Il presidente Nicolás Maduro, invece, mi ha chiesto di correggere il focus del mio lavoro e concentrarmi sulla lotta alla corruzione. I grandi gruppi della corruzione in Venezuela, infatti, sono strettamente collegati alla politica, in gran parte di opposizione, che è legata agli Usa. I profitti della grande e media corruzione in Venezuela, finivano e finiscono tutti nelle banche di Miami».

Quindi i profitti della corruzione venezuelana finiscono negli Stati Uniti?

«Esatto. Il tema fondamentale è il collegamento con i riciclatori americani, con un pezzo del sistema finanziario americano. Maduro ha tentato di combattere la corruzione di più alto livello come non mai e anche per questo viene messo attaccato».

Cos’ha fatto il governo per combattere la corruzione?

«In due ondate successive ha colpito tutta la dirigenza di PDVSA, la società petrolifera di Stato, che era il principale centro della corruzione in Venezuela. Tutti i vertici sono stati scoperti, sostituiti e incriminati. Per oltre dieci anni, fino a tre anni fa, questi ladri hanno depredato l’azienda petrolifera e lo Stato, prendendo una tangente di oltre il 10% su tutte le vendite del petrolio. Questo è stato il più grande caso di corruzione della storia, con profitti per oltre 50 miliardi di dollari, ovvero la metà del PIL attuale del Venezuela».

Sono stati arrestati?

«Molti di questi dirigenti sono fuggiti all’estero: un po’ negli Usa, un po’ in Europa. E ovviamente sono diventati un focolaio di opposizione politica antigovernativa molto potente, che corrompe giornali, politici e giornalisti. I tentativi del procuratore anticrimine del Venezuela di farli arrestare ed estradare sono finiti nel vuoto perché molti si sono astutamente trasformati in “pentiti” oppositori: l’Interpol considera le accuse contro di loro come motivate politicamente e quindi non dà seguito alle richieste di arresto internazionale.
Il governo Maduro, inoltre, ha smantellato un altro grande centro di corruzione legato all’ex procuratrice generale, Luisa Ortega, che faceva il bello e il cattivo tempo a livello nazionale, gestendo corruzione e racket estorsivo ad altissimo livello. Incriminata, Ortega è scappata con il bottino in Colombia, da dove spara a zero sul governo, dichiarandosi esule politica».

Venendo alle accuse di narcoterrorismo per Maduro e i suoi, lei ha parlato di «spazzatura politica». Perché?

«E lo confermo: sono accuse assurde. Mi occupo di droga da più di 40 anni, ho scritto un po’ di libri sul tema e sono stato ai vertici dell’antidroga mondiale. Non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela e non l’ho mai visitato quando ero all’ONU perché non ce n’era bisogno. Sono falsità clamorose: non c’è un solo rigo sul traffico di droga dal Venezuela agli Usa nei documenti americani e dell’ONU. Sono andato a rileggere tutti gli ultimi rapporti della DEA (Drug Enforcement Administration, ndr). L’ultimo è di tre mesi fa. La produzione e le rotte sono quelle classiche».

Quali?

«La produzione mondiale di cocaina è, grosso modo, così ripartita: in Colombia il 70%, in Perù il 20% e in Bolivia il restante 10%. La mediazione per arrivare negli Stati Uniti, che sono il principale mercato di consumo del mondo, avviene attraverso i narcos messicani, ma questo lo sanno anche i bambini. Dal lato del Pacifico ma anche dei Caraibi. Una rotta più marginale, poi, passa per Ecuador e Guatemala, quindi per l’America centrale. Ma questi sono tutti dati conosciutissimi, infatti nessuno sta prendendo sul serio queste accuse, nemmeno chi è contro Maduro».

È, quindi, l’ennesimo tentativo di ingerenza o di colpo di stato?

«Certo, è una guerra non convenzionale. Gli americani non possono più fare colpi di stato “alla vecchia maniera” con la CIA e i marines, anche perché Maduro ha un ottimo sistema di intelligence e protezione personale. Tentativi, comunque, ne sono stati fatti e ne vengono fatti, ma senza successo. Gli Usa non riescono a sottomettere il Venezuela anche perché con Guaidó hanno scelto una strategia totalmente sbagliata. Juan Guaidó è adesso totalmente isolato. Il blocco economico e finanziario non sta portando alla ribellione contro il governo. Scartata l’invasione militare, quindi, non resta che il character assassination, l’assassinio morale. Ma queste accuse sono un colpo a vuoto per qualunque osservatore obiettivo, un colpo che finirà per rafforzare l’idea che il Venezuela sia vittima di una aggressione da parte degli Stati Uniti».

Per quanto le forze armate venezuelane siano fedeli a Maduro, l’invasione militare non è un’opzione possibile?

«L’invasione non è attuabile, perché gli esperti di sicurezza al Pentagono sanno che la forza di Maduro risiede in un esteso consenso popolare, che coinvolge le forze armate. Queste sono un esercito popolare, e non un’entità distinta e contrapposta ai cittadini. A differenza della Bolivia, dove Evo Morales è caduto perché non ha riformato esercito e polizia. L’invasione del Venezuela, hanno ipotizzato i pianificatori militari, inizierebbe come l’Iraq e finirebbe come il Vietnam».

Il procuratore generale Barr, però, ha esplicitamente accostato Maduro a Manuel Noriega, rievocando l’invasione di Panama del 1989.

«Con la differenza che Noriega era un loro uomo senza alcun sostegno dal basso. Era un fantoccio di cui si sono sbarazzati quando ha iniziato a disobbedire ai loro ordini. Panama a quei tempi era la classica repubblica delle banane. Il caso del Venezuela è completamente differente. L’operazione militare sarebbe destinata al fallimento, anche perché nel Paese ci sono sette milioni di chavisti, molti dei quali pronti a prendere le armi per difendere il loro Paese, e un esercito molto attrezzato e motivato politicamente. E ciò è perfettamente noto al Pentagono, che sconsiglia qualunque invasione».

La situazione economica del Venezuela, comunque, è di grande difficoltà. A cosa è dovuta?

«Per l’80% è dovuta alle sanzioni statunitensi, poi all’ennesimo crollo del prezzo del petrolio. Il modello-Chávez poggiava anche sull’alto prezzo del petrolio».

Quali sono le conseguenze concrete delle sanzioni statunitensi?

«Le sanzioni riducono al minimo l’accesso del Venezuela ai mercati internazionali. Grazie a India, Cina e Russia il Paese riesce a sopravvivere, ma gli introiti della vendita del petrolio sono passati da 50 miliardi di dollari di dieci anni fa ai cinque di adesso. Le conseguenze, quindi, sono il crollo del PIL e un’emigrazione notevole, per un Paese caratterizzato da alti tassi di immigrazione».

Lo Stato sociale chavista resiste?

«È come una macchina con poco carburante. Molto avanzato, ma con risorse limitate. Prima di Chávez non esisteva lo Stato sociale. Non esistevano le pensioni! I soldi derivanti dal petrolio finivano tutti nelle banche americane. Il Venezuela pre-Chávez era governato da un’odiosa oligarchia: lo Stato era ridotto al minimo, garantiva solo alcuni servizi essenziali. Chávez ha fatto diminuire grandemente la povertà, azzerato l’analfabetismo e nazionalizzato le industrie petrolifere, quelle che Trump e soci vorrebbero riconsegnare ai vecchi proprietari e alle compagnie americane».

Cosa succederebbe se gli Usa tornassero padroni del Venezuela?

«Tornerebbe a spadroneggiare “l’élite compratrice” che campa all’ombra dello Zio Sam. Lo Stato sociale creato dal chavismo verrebbe distrutto. Le condizioni di vita della popolazione del Paese verrebbero devastate. E la gente è consapevole di ciò. Infatti, le sanzioni non spingono a ribellarsi contro il governo, ma lo rafforzano. Gli americani non vogliono elezioni in Venezuela perché sanno che il risultato sarebbe favorevole al governo attuale, come nelle 24 volte precedenti. Vogliono che Maduro se ne vada senza elezioni, così possono impiantare un regime fantoccio. Ma questo piano è destinato al fallimento anche perché, per fortuna, il mondo ormai è multipolare».

Lei ha parlato di una «rapina da cinque miliardi di dollari delle risorse finanziarie del Venezuela depositate nelle banche di 15 Paesi». Di cosa si tratta?

«Le principali banche internazionali hanno obbedito come un sol uomo all’ordine del Tesoro americano di congelare i soldi depositati presso di loro dal Venezuela. Il sequestro è illegale perché in nessuno di questi Paesi è avvenuto su ordine della magistratura. Se mettiamo insieme le sanzioni economiche, il blocco finanziario e la distruzione della moneta nazionale, il bolívar, tramite l’iperinflazione indotta, beh, siamo vicini a ciò che nel diritto internazionale si chiama tentato genocidio».

La crisi in corso riguarda anche la moneta, appunto. Un commento sulla dollarizzazione?

«Questo è un danno forse altrettanto grave delle sanzioni. Hanno distrutto il bolívar e quindi la sovranità monetaria del Venezuela, dove ora è il dollaro che impera. Un’azione criminale intrapresa con la complicità delle società di rating americane da un gruppo di speculatori che pubblicano regolarmente le quotazioni del mercato nero della valuta a sfavore del bolívar e a favore del dollaro. La fiducia nella valuta nazionale è crollata, e il Paese ha pagato un prezzo altissimo per questo».

È vero che il Fondo Monetario internazionale ha negato un finanziamento al governo Maduro?

«È vero che Maduro si è rivolto al FMI chiedendo un finanziamento di emergenza, ma la risposta ancora non è certa. Solo gli Usa si oppongono frontalmente, l’Ue è favorevole. Staremo a vedere».

www.ilperiodista.it

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