Cuba. Storie per un Nobel per la Pace

Orlando Oramas León, Resumen Latinoamericano

Il lavoro delle brigate mediche cubane, leggasi cooperazione sanitaria internazionale della piccola isola, merita il premio Nobel per la Pace, almeno così lo propongono personalità ed organizzazioni di diverse parti del pianeta.

Quest’anno non lo sarà, dal momento che la candidatura è già chiusa, probabilmente neanche l’altro, perché quel comitato non è esente da pressioni quando si tratta di assegnare un premio che è prestigioso a livello mondiale.

Ma la verità è che, sebbene sarebbe ben accolto, il lavoro degli esperti cubani della salute nel mondo si ricompensa con le vite salvate ed il riconoscimento di pazienti, cittadini ed autorità in numerosi paesi.

Soprattutto in questi tempi di pandemia, quando Cuba ha dispiegato i suoi medici ed altri esperti della salute su richiesta di oltre trenta nazioni.

In ciò c’è un prima, ora e dopo. Quando è iniziata la pandemia, c’erano migliaia di collaboratori sanitari cubani, a migliaia, in 59 nazioni, la maggior parte in paesi del Terzo mondo.

Molti di loro operano negli “angoli più oscuri” del pianeta a cui, colui che fu presidente degli USA, George W. Bush, promise di bombardare a destra a manca.

Non posso dimenticare la mia esperienza di corrispondente in questi luoghi remoti.

Ebbi l’opportunità di coprire, in Paraguay, il paese che ricevette la prima brigata medica di Cuba nel cono sudamericano.

Comincio quel viaggio, accompagnando il dott. Osnay Mederos, attraverso l’inospitale regione del Chaco. Era il precedente dell’attuale secolo ed il mio compatriota visitò una vecchia segnata da rughe e disturbi.

Mederos fu il primo medico che la visitava nella sua umile dimora. “Mia nonnina, le disse il dottore, la prossima settimana le porto i suoi rimedi”.

“Non prendermi in giro”, scattò la paziente, a questo punto incredula per ciò che descrisse come promesse di politici e malattie senza assistenza.

Tornammo; ci costò nove ore spingendo un camionetta quattro per quattro nel pantano in cui si convertono le strade del Chaco, di quel paese, in periodi di pioggia.

È solo un esempio di ciò che vissi in Paraguay, nazione che, tempo addietro, si era portata avanti di un secolo e poi fu costretta da sanguinose guerre trilaterali, imperi coinvolti, alla distorsione della storia ed al sottosviluppo.

Ricordo di quei mesi un popolano di Caaguazú, che descriveva i dottori caraibici come angeli.

Devo ricordare un altro medico con il quale viaggiai in una specie di canoa rustica attraverso gli estuari del Paraná, per visitare isolotti in quella dolina dove lo aspettavano file di pazienti.

Conservo il nome del dottor Félix Contreras, un mulatto che insegnava arti marziali ai bambini di Pozo Colorado, un’altra città del Chaco paraguaiano.

Per arrivarci c’è una strada a doppio senso, pascoli qui, pascoli là. Un intero paesaggio monotono ed una strada retta che intorpidisce, fino a a giungere ad una curva adornata da croci funerarie, esponente di molteplici incidenti.

Lì arrivai. C’era un incidente; corpi gettati nelle adiacenze. Il cubano, riconoscibile per il colore della pelle e camice bianco, diligente, accompagnato da un capo della polizia.

Non so se questo viene insegnato nelle facoltà mediche dell’isola, ma quel compatriota improvvisò barelle, diede conforto, ordini, in breve, si fece carico di quell’incidente.

Diceva tra sé ed io ascoltavo e prendevo appunti questo: frattura dell’anca, l’altro: del bacino, ecc.

Anonimamente, lo aiutai a caricare i feriti sul pick-up della polizia municipale.

“Acere de p…” frase inconfondibile con cui i cubani si identificano e che gli dissi già in un viaggio nel letto del camion.

“Accidenti, sei cubano”, rispose senza sapere che un giorno avrei scritto il libro “Póhanora (guaritori, guaraní), Medici cubani in Paraguay”.

O quell’altro aneddoto paraguaiano in cui un dottore caraibico, anche lui nel fango, controllò manualmente l’emorragia di un uomo ferito con un arma bianca e portarlo, dopo ore di angoscia, ad un buono e salvifico destino.

Più di una nascita si decise così nella storia di quella prima brigata medica cubana in quella nostra regione, dove fino a poco tempo prima il dittatore Alfredo Stroessner proibiva le barbe in stile Fidel Castro ed anche le trasmissioni di Radio Habana Cuba.

E mentre scrivo, si sommano i ricordi, come quell’altro medico della provincia occidentale di Pinar del Río, destinato ad una località al confine con il Brasile, dove predominano i cosiddetti brasiguayos, un’occupazione che nasconde l’espansione del gigante brasiliano.

Il cubano viveva in una camera di assi, con fessure, accolto nella sua missione umanitaria da una giovane coppia bionda che parlava spagnolo con un accento portoghese. Loro me l’hanno raccontato: “era una mattinata gelida (sotto zero) e noi preoccupati per il cubano; alla fine lo troviamo ipotermico, ci abbracciamo a lui, ed ha recuperato la sua temperatura normale”.

Quell’abbraccio, tra altre storie che ho compilato, mi rafforzano la convinzione che i medici e gli specialisti cubani della salute meritano il Nobel, benché mai glielo assegnino.

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