La corsa che non finisce mai: salvare vite

L’edificio in cui si trova l’ospedale, un giorno, tornerà ad essere un centro culturale ricreativo. Saranno tempi migliori. Ma da qualche altra parte del pianeta, i medici ed infermieri della Brigata Henry Reeve inizieranno o finiranno un’altra corsa. Coloro che salvano vite sono maratoneti.

Enrique Ubieta Gómez  www.granma.cu

Elena è rumena. E’ stata la centesima paziente ad essere dimessa dall’ospedale. Approfitto della visita di un suo amico, il dottor Luis Miguel, a casa sua, per intervistarla. La sua storia di vita è complicata. I ricordi che ha dell’infanzia sono meravigliosi. Tuttavia, suo nonno fu “un oppositore” nel periodo socialista -lo avevano espropriato della sua società di olio e delle sue terre-; ma lei studiò pedagogia ed economia all’università e si sposò con uno studente di energia e petroli. Hanno avuto una figlia.

Nel 1989, all’età di 27 anni, quando il paese abbandonò il corso socialista, divenne dirigente del dipartimento economico di una grande azienda. I suoi subordinati erano molto più anziani. Era felice. «Avevo studiato molto -dice- e avevo un buono stipendio. Pensavo che avrei avuto una buona pensione e che avrei portato i miei nipoti a viaggiare per il mondo, che avrei visitato Babbo Natale. Quello era il mio sogno». Ma la crisi economica si mise di mezzo. A 48 anni, nel 2009, il Presidente della Repubblica dimezzò i salari e sentì che le avevano rubato i suoi soldi. Suo marito lavorava in Medio Oriente ed ella decise di andare, prima in Israele -ma considerò che potesse essere pericoloso- e poi in Italia.

Qui divenne assistente infermieristica. «Mia zia mi raccomandò di studiare nella sanità, in modo da poter lavorare in qualche ospedale. A quel punto avrei avuto 48 o 49 anni e pensai: ricominciare da capo? Ma l’unica cosa che mi interessava era guadagnare soldi per riprendermi la responsabilità della mia famiglia. Quindi ricominciai da zero. Iniziai a capire come vengono eseguite tutte le procedure. Giunsi alla scuola sanitaria il lunedì, dopo essere arrivata sabato a Padova, per il mio colloquio. E lì iniziò la fase più difficile, perché di notte studiavo e durante il giorno lavoravo. Così per due anni.

«Durante quel periodo comparvero dolori articolari, perché in questa parte d’Europa, dove si trova il mare Adriatico, c’è molta umidità. E pensai che dovevo trasferirmi in una regione dove non ci fosse il mare. Quindi cercai lavoro a Torino. Ho lavorato in diversi ospedali e mi sono contagiata col covid-19; non so come sia successo, perché avevo rispettato tutte le regole. A Torino ho condiviso un appartamento con un’amica.

«Quando sono andata all’ospedale Martini, perché i reni mi facevano male, non avevo alcun sintomo di covid, ma dopo due tamponi negativi i dolori alle articolazioni sono aumentti. Quindi, il terzo tampone era già positivo. Ho iniziato a respirare male e con la sars-cov-2 è iniziata la tragedia. Hanno dovuto operarmi. Alla fine mi hanno portato all’OGR.

«Ho lavorato, per un periodo, al Cottolengo ed ho protestato, perché mi sono detta, perché all’OGR? Ma all’arrivo ho incontrato queste persone meravigliose. Il primo che ho incontrato è stato Miguel, e mi ha detto: io sono un medico pneumologo cubano. Ah, bene -ho risposto- ho parlato con un’amica che è neurologa, e le ho detto, mi mandano all’OGR e lei mi ha detto, stai calma perché lì è giunta una squadra di medici cubani e sono molto bravi, non ti preoccupare. Se hai qualche problema chiamami, ma tranquilla. Da quando sono arrivata, il dottor Miguel ed il dottor Luis Miguel, che potrebbe essere mio figlio, mi hanno curato».

L’8 giugno, un giorno prima di lasciare l’ospedale, ha saputo che sua madre era morta. La conversazione è durata un’ora e mezza. Elena mi ha confessato che scrive un libro sulla sua vita. Poi ha chiesto a Luis Miguel informazioni su alcuni farmaci e procedure. Ci scambiamo gli indirizzi elettronici. La vita continua, ed Elena, un giorno, tornerà in Romania, per riunirsi con sua figlia e suo marito.

Si avvicina la fine della missione a Torino. Sento il respiro sincopato e profondo dei maratoneti. Questo è il tratto più difficile, quando il traguardo è abbastanza vicino da essere avvistato e abbastanza lontano da richiedere un ultimo sforzo. Non possiamo perdere il ritmo, non possiamo rilassarci, neppure possiamo pensare alla vittoria. Siamo maratoneti. Gli spettatori iniziano ad applaudire, anticipano, ma nulla è cambiato, nulla, fino a quando si calpesta la meta. Inizia il mese di luglio ed inizia il conto alla rovescia. La prossima settimana l’ospedale, il nostro ospedale di Torino, chiude; almeno per alcuni mesi. Si prepara l’addio, ma noi ancora corriamo.

Siamo venuti per un’emergenza e ci ritiriamo quando cessa. Che l’emergenza sia soppressa è una vittoria. Ma ci sono ancora circa 20 pazienti in ospedale, alcuni da molto tempo ed amati, come Martina e María, le due amiche. Un tampone ha appena dato la negatività a Maria, ma Martina è ancora positiva. Martina ed io ci scriviamo tramite facebook. Legge le mie cronache, tradotte dal signor Google. Mi ha inviato le foto dei pazienti “ammutinati” salutandomi ed un breve video in cui tutti gridano all’unisono, OGR! … Se lei non si cura, la vittoria non è completa. Non sapremo altro del destino di questi uomini e donne? Ci saranno sempre maratoneti, la corsa non termina mai, siamo noi quelli che finiscono, ora, qui, per continuare domani là o in qualsiasi altro luogo. La meta è provvisoria, personale, consegnamo il testimone ad altri corridori. Ma ci lasciamo dietro affetti, belle esperienze, soddisfazioni incomparabili.

Questo edificio, un giorno, tornerà ad essere un centro culturale ricreativo. Nell’enorme zona rossa, spogliata di cubicoli e letti, si riunirà una folla di giovan pronta a ballare fino all’alba. Sul palco, una banda rock scuoterà le pareti dell’OGR e le luci colorate attraverseranno gli angoli in cui prima hanno lottato per la vita malati e medici. Saranno tempi migliori. Ma da qualche altra parte del pianeta, medici ed infermieri della Brigata Henry Reeve inizieranno o finiranno un’altra corsa. Coloro che salvano vite sono maratoneti. Non c’è riposo per loro. Gli applausi iniziano a farsi sentire, ma continuiamo a correre. Non smetteremo mai di correre.

Voglio, oggi, fare riferimento anche alla solidarietà anonima, quella che riceviamo senza trambusto, senza orpelli né prime pagine; ci sono i volti di quei giovani volontari che si prendono cura di noi e ci coccolano, volti che per noi rappresentano la città di Torino e che non dimenticheremo. Ilham, la italomarocchina, oggi ci ha portato suo padre ed altri rappresentanti della sua comunità per salutarci, perché dicono che sanno com’è vivere lontano dalla Patria e apprezzano anche il sacrificio che facciamo. Continua a sventolare, nell’edificio degli studenti, situato di fronte al nostro, la bandiera cubana che mani anonime hanno messo lì durante il periodo di isolamento fisico. E Max non smette di inviarci foto dei membri del suo gruppo, Cuba Va, innalzando la stessa bandiera o manifesti di ringraziamento.

Non esiste l’Italia egoista, ingrata che alcuni descrivono e temono, non la percepisco. Nemmeno al mercato, quando non riusciamo a trovare un prodotto, e diciamo “potresti aiutarmi, sono cubano”, e la prima risposta non è “sì”, ma “grazie Cuba”. Torino sembra non accorgersi della nostra presenza, tale è il suo ritmo altero di città industriale, stirandosi dalla sonnolenza prodotta dal confinamento forzato. Ma la gente sa. E qualcosa si sta preparando per l’addio.


La carrera que nunca termina: salvar vidas

El edificio donde está el hospital, alguna vez, volverá a ser un centro cultural recreativo. Serán mejores tiempos. Pero en algún otro lugar del planeta, los médicos y enfermeros de la Brigada Henry Reeve iniciarán o terminarán otra carrera. Los que salvan vidas son maratonistas.

Autor: Enrique Ubieta Gómez

Elena es rumana. Fue la paciente número cien en recibir el alta médica en el hospital. Aprovecho la visita de su amigo, el doctor Luis Miguel, a su casa, para entrevistarla. Su historia de vida es complicada. Los recuerdos que guarda de su infancia son maravillosos. Sin embargo, su abuelo fue «opositor» en la etapa socialista –le habían expropiado su empresa de aceites y sus tierras–; pero ella estudió pedagogía y ciencias económicas en la Universidad y se casó con un estudiante de energía y petróleos. Tuvieron una hija.

En 1989, a los 27 años, cuando el país abandonó el rumbo socialista, se convirtió en jefa del departamento económico de una gran empresa. Sus subordinados eran mucho mayores. Fue feliz. «Yo había estudiado mucho –dice–, y tenía un buen sueldo. Pensaba que obtendría una buena jubilación y que llevaría a mis nietos a pasear por todo el mundo, que visitaría a Papá Noel. Ese era mi sueño». Pero la crisis económica se interpuso. A los 48 años, en 2009, el Presidente de la República recortó los salarios a la mitad, y sintió que le habían robado su dinero. Su esposo trabajaba en el Medio Oriente, y ella decidió irse, primero a Israel –pero consideró que podía ser peligroso–, y luego a Italia.

Aquí se hizo auxiliar de enfermería. «Mi tía me recomendó que estudiara sanidad, que así podría trabajar en algún hospital. Ya para entonces tendría 48 o 49 años, y pensé, ¿volver a empezar otra vez?, pero lo único que me interesaba era ganar dinero para retomar la responsabilidad de mi familia. Entonces empecé otra vez desde cero. Comencé a entender cómo se hacen todos los procederes. Llegué a la escuela sanitaria el lunes, después de haber arribado el sábado a Padua, para mi entrevista. Y ahí se inició la etapa más dura, porque de noche estudiaba y de día trabajaba. Así durante dos años.

«En ese periodo me aparecieron dolores en las articulaciones, porque en esta parte de Europa, donde está el Mar Adriático, hay mucha humedad. Y pensé que tenía que mudarme a una región donde no hubiese mar. Entonces busqué trabajo en Turín. He trabajado en diferentes hospitales, y me contaminé con la covid-19; no sé cómo pasó, porque había respetado todas las reglas. En Turín compartía con una amiga un apartamento.

«Cuando fui al hospital Martini, porque me dolían los riñones, no tenía ningún síntoma de la covid, pero después de dos tampones negativos, los dolores en mis articulaciones aumentaron. Entonces, el tercer tampón ya fue positivo. Empecé a respirar mal, y con el sars-cov-2 ha empezado la tragedia. Tuvieron que operarme. Finalmente me llevaron para la ogr.

«Yo trabajé durante un tiempo en el Cotolengo y protesté, porque me dije, ¿por qué en la ogr? Pero al llegar he encontrado a estas personas maravillosas. Al primero que encontré fue a Miguel, y me dijo, yo soy un médico neumólogo cubano. Ah, qué bien –respondí–, he hablado con una amiga que es neuróloga, y le dije, me envían a la ogr, y ella me dijo, quédate tranquila porque allí ha llegado un equipo de médicos cubanos y son muy buenos, no te preocupes. Si tienes algún problema me llamas, pero tranquila. Desde que llegué, el doctor Miguel y el doctor Luis Miguel, que podría ser mi hijo, me han atendido».

El 8 de junio, un día antes de salir del hospital, supo que su madre había fallecido. La conversación se extendió durante hora y media. Elena me confesó que escribe un libro sobre su vida. Después le consultó a Luis Miguel sobre algunos medicamentos y procederes. Nos intercambiamos las direcciones electrónicas. La vida sigue, y Elena volverá algún día a Rumanía, para reencontrarse con su hija y su esposo.

Se acerca el fin de la misión en Turín. Siento la respiración sincopada y profunda de los maratonistas. Este es el tramo más difícil, cuando la meta está lo suficientemente cercana para ser avistada y lo suficientemente lejana, para exigirnos un último esfuerzo. No podemos perder el ritmo, ni relajarnos, ni siquiera podemos pensar en la victoria. Somos maratonistas. Los espectadores empiezan a aplaudir, se anticipan, pero nada ha cambiado, nada, hasta que se pisa la meta. Comienza el mes de julio y se inicia el conteo regresivo. La semana que viene el hospital, nuestro hospital en Turín, cierra, al menos por unos meses. Se prepara la despedida, pero nosotros todavía corremos.

Hemos venido por una emergencia y nos retiramos cuando cesa. Que la emergencia se suprima es una victoria. Pero aún hay alrededor de 20 pacientes en el hospital, algunos muy antiguos y queridos, como Martina y María, las dos amigas. Un tampón acaba de darle negativo a María, pero Martina aún es positiva. Martina y yo nos escribimo por Facebook. Ella lee mis crónicas, las traduce el señor Google. Me ha enviado fotos de los pacientes «amotinados», diciéndonos adiós y un pequeño video en donde todos claman al unísono ¡ogr!… Si ella no se cura, la victoria no es completa. ¿No sabremos más del destino de esos hombres y mujeres? Siempre habrá maratonistas, la carrera nunca termina, somos nosotros los que terminamos, ahora, aquí, para seguir mañana allá, o en cualquier otro lugar. La meta es provisoria, personal, entregamos el batón a otros corredores. Pero dejamos atrás afectos, bellas experiencias, satisfacciones incomparables.

Este edificio, alguna vez, volverá a ser un centro cultural recreativo. En la enorme zona roja, despojada de cubículos y camas, se reunirá una muchachada dispuesta a bailar hasta la madrugada. En el escenario, una banda de rock estremecerá las paredes de la ogr y las luces de colores recorrerán los rincones donde antes lucharon por la vida enfermos y médicos. Serán mejores tiempos. Pero en algún otro lugar del planeta, los médicos y enfermeros de la Brigada Henry Reeve iniciarán o terminarán otra carrera. Los que salvan vidas son maratonistas. No hay descanso para ellos. Empiezan a escucharse los aplausos, pero aún corremos. Nunca dejaremos de correr.

Quiero referirme hoy también a la solidaridad anónima, la que recibimos sin aspavientos, sin oropeles ni primeras planas; ahí están los rostros de esos jóvenes voluntarios que nos atienden y miman, rostros que para nosotros representan la ciudad de Turín y que no olvidaremos. Ilham, la italomarroquí, hoy se trajo a su padre y a otros representantes de su comunidad para despedirnos, porque dicen que saben lo que es vivir lejos de la Patria, y agradecen también el sacrificio que hacemos. Sigue ondeando en el edificio de estudiantes, situado frente al nuestro, la bandera cubana que manos anónimas situaron allí durante el periodo de aislamiento físico. Y Max no cesa de enviarnos fotos de los miembros de su agrupación, Cuba Va, enarbolando la misma bandera o carteles de agradecimiento.

No existe la Italia egoísta, la desagradecida que algunos describen y temen, no la percibo. Ni siquiera en el mercado, cuando no encontramos un producto, y decimos, «pudiera ayudarme, es que soy cubano», y la primera respuesta no es «sí», sino «gracias Cuba». Turín parece no percatarse de nuestra presencia, tal es su ritmo altivo de ciudad industrial, desperezándose de la modorra producida por el confinamiento obligado. Pero la gente sabe. Y algo se prepara para la despedida.

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