Verità e post-verità

Non possiamo commettere l’errore di pensare che la realtà si costruisca nel virtuale. Dobbiamo far prevalere l’inno delle strade, delle montagne e dei solchi, perché il futuro si decide lì

Ernesto Estévez Rams  www.granma.cu

Uscirono di casa essendo ancora bambini, gli misero sulle spalle uno zaino ed al suo interno, tra altre cose, quaderno e matita.

Se non mi hanno raccontato male, le colazioni erano scarse; il poco condiviso dai loro anfitrioni. I pranzi si facevano con quello che si aveva, che non era molto.

Arrivavano tante notizie quante stazioni radio si potevano sintonizzare; tra queste, molte venivano da ‘fuori’, simulando che lo facessero da dentro.

Una formazione ed una volontà sostituivano le carenze pedagogiche. Un giorno riferirono che uno di loro era morto, poi un altro e poi un altro ancora. Continuarono ad insegnare. Altre storie più eroiche furono raccontate senza conoscerne la loro veridicità. Temo che raccontarle oggi ci farebbe apparire come Juan Candela (personaggio di un racconto ndt), senza la virtù del pico fino (raccontare bene le cose ndt).

Erano giovani e sostenevano con i loro quaderni l’inizio dello sforzo più colossale mai fatto a Cuba per vincere l’ignoranza. Nessuno parlava loro della realtà rurale dello sfruttamento, quella era un’esperienza diretta, tangibile. Si apprendeva guardandolo in volto, come vincere l’analfabetismo.

Si alzavano all’alba, prima del resto dell’accampamento, per preparare la brodaglia di colazione. Se non ricordo male, le lattine di latte in polvere russe avevano un colore alluminio, chiusura sostituibile e lattina multiuso riutilizzabile. Si aprivano a decine versandole nella pentola gigante di acqua, mescolando in attesa dell’ebollizione. Dopo fatta, ognuno arrivava con la propria brocca improvvisata o meno, dove, dal profondo mestolo, servivano la porzione che gli toccava. I più vivaci aspettavano la fine, per “cacciare” il fondo incollato e semi-bruciato, con quel sapore particolarmente delizioso. Alcuni erano tossicodipendenti, senza speranza, e con un po’ di zucchero, adoravano lo scricchiolio della polvere tra i denti.

Altre invenzioni più sofisticate furono raccontate senza conoscere la loro veridicità. Temo che raccontarli oggi ci farebbe sembrare come Juan Candela, senza la virtù del pico fino.

Erano giovani e sostenevano con le loro braccia il piano agrumicolo del paese, che divenne uno dei maggiori esportatori del mondo. Nessuno parlava loro della campagna, era un’esperienza diretta, tangibile. Si imparava da dove veniva ciò che finiva nel piatto.

Quando le cose si fecero difficili, chiesero ai medici cubani. Dopo gli aggiustamenti tra i paesi e le autorità sanitarie internazionali, partirono nel cuore dell’epidemia di Ebola. Se non ho letto male, nonostante il caldo brutale dovevano indossare una tuta da cosmonauta e, anche così, uno si contaminò della letale malattia. Lì videro i poveri del mondo, le cosiddette fogne della terra dove non c’è apparizione televisiva che riesca ad ornarla per renderla passabile e, quindi, non appaiono in alcun media e solo come aneddoto sulle reti sociali. Lì, la fame morde più dell’ebola, ed è un sogno irraggiungibile per molti godersi almeno un po’ di latte in scatola. Altri orrori furono raccontati senza conoscerne la loro veridicità. Temo che raccontarli oggi ci farebbe sembrare come Juan Candela, senza la virtù del pico fino.

Erano medici e sostenevano con le braccia lo sforzo per controllare una delle malattie più letali del pianeta. Nessuno parlò loro della povertà, quella era un’esperienza diretta, tangibile. Si apprendeva osservando le conseguenze dei fetori del pianeta.

Ogni contatto con l’immediatezza della “realtà reale” contribuisce al fatto che non getti radice, nelle coscienze, la rappresentazione manipolata della verità. Quando pretendiamo che la realtà sia sostituita dalla sua rappresentazione, perdiamo la nozione di ciò che conta. Se reggi il gioco, finisci in ostaggio delle dinamiche artificiali che ti impongono, delle urgenze che ti fabbricano.

Non possiamo commettere l’errore di pensare che la realtà si costruisca nel virtuale, pensare che in esso si chiudano tutti gli scenari, senza renderci conto che lo scenario è necessariamente un montaggio. Dobbiamo far prevalere l’inno delle strade, delle montagne e dei solchi, perché il futuro si decide lì.

Qui siamo per salvare la Rivoluzione, non per far finta di salvarla.


Verdad y posverdad

No podemos cometer el error de pensar que la realidad se construye en la virtualidad.Tenemos que hacer prevalecer el himno de las calles, de los montes y de los surcos, porque el futuro se decide allí

Autor: Ernesto Estévez Rams

Se marcharon siendo niños de la casa, les pusieron al hombro una mochila y dentro de ella, entre otras cosas, cuartilla y lápiz.

Si no me contaron mal, los desayunos eran magros; lo poco compartido por sus anfitriones. En los almuerzos se pasaba con lo que se tenía, que no era mucho.

Llegaban tantas noticias como estaciones de radio se podían sintonizar; entre ellas, varias venían desde «afuera», simulando que lo hacían desde adentro.

Una capacitación y una voluntad sustituían las carencias pedagógicas. Un día avisaron que uno de ellos había muerto, luego otro, y luego otro más. Siguieron enseñando. Otras historias más heroicas fueron contadas sin saber de su veracidad. Me temo que hacerlas hoy, nos haría parecer a Juan Candela, sin la virtud del pico fino.

Eran jóvenes y sostenían con sus cuadernos el comienzo del esfuerzo más colosal que se haya hecho en Cuba por vencer a la ignorancia. Nadie les hablaba de la rural realidad de la explotación, esa era una experiencia directa, tangible. Se aprendía, mirándole el rostro, cómo vencer al analfabetismo.

Se levantaban de madrugada, antes que el resto del campamento, a preparar el brebaje de desayuno. Si no recuerdo mal, las latas de leche en polvo rusa tenían color aluminio, cierre reponible y lata multipropósito, reusable. Se abrían por decenas vertiéndose en la olla gigante de agua, revolviendo en espera de la ebullición. Luego de hecha, cada cual llegaba con su jarra improvisada o no, donde, desde el cucharón hondo, le servían la porción que le tocaba. Los más vivos esperaban al final, para «cazar» el fondo pegado y semiquemado, con ese sabor tan peculiarmente delicioso. Algunos eran adictos irremediables, y con un poco de azúcar, adoraban el crujir del polvo entre los dientes.

Otros inventos más sofisticados fueron contados sin saber de su veracidad. Me temo que hacerlos hoy, nos haría parecer a Juan Candela, sin la virtud del pico fino.

Eran jóvenes y sostenían con sus brazos el plan citrícola del país, que llegó a ser uno de los mayores exportadores del mundo. Nadie les hablaba del campo, era una experiencia directa, tangible. Se aprendía de dónde salía lo que terminaba en el plato.

Cuando la caña se puso «a tres trozos», pidieron a los médicos cubanos. Luego de los ajustes entre los países y las autoridades sanitarias internacionales, ellos partieron al corazón de la epidemia del ébola. Si no leí mal, a pesar del calor brutal tenían que usar un traje de cosmonauta y, aun así, uno se contaminó de la letal enfermedad. Allí vieron a los pobres del mundo, las pretendidas cloacas de la tierra donde no hay apariencia televisiva que logra adornarla para hacerla pasable y, por eso, no aparecen en ningún medio y solo como anécdota en las redes sociales. Allí el hambre muerde más que el ébola, y es un sueño inalcanzable para muchos disfrutar al menos de alguna leche enlatada. Otros horrores fueron contados sin saber de su veracidad. Me temo que hacerlos hoy, nos haría parecer a Juan Candela, sin la virtud del pico fino.

Eran médicos y sostenían con sus brazos el esfuerzo por controlar una de las enfermedades más letales del planeta. Nadie les habló de la pobreza, esa era una experiencia directa, tangible. Se aprendía viendo las consecuencias de los hedores del planeta.

Todo contacto con la inmediatez de la «realidad real» contribuye a que no eche raíz en las conciencias la representación manipulada de la verdad. Cuando pretendemos que la realidad se sustituya por su representación, perdemos la noción de lo que importa. Si le haces el juego, terminas de rehén de las dinámicas artificiales que te imponen, de las urgencias que te fabrican.

No podemos cometer el error de pensar que la realidad se construye en la virtualidad, pensar que en ella se cierran todos los escenarios, sin percatarnos de que la escenografía es necesariamente un montaje. Tenemos que hacer prevalecer el himno de las calles, de los montes y de los surcos, porque el futuro se decide allí.

Aquí estamos para salvar a la Revolución, no para hacer como si la estuviéramos salvando.

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