La storia di Elián

Alessandra Riccio https://nostramerica.wordpress.com

Raccontare una bella storia dopo che ne ha scritto Gabriel García Márquez, è davvero un gesto ardito. Ci provo motivata dai venti anni appena celebrati del ritorno del piccolo Elián González, fra le braccia del padre, nella sua Cuba, il 28 giugno del 2000.

Questa bella storia comincia male, malissimo: la giovane Elizabeth Brotons, un’operatrice turistica che opera a Varadero ha incontrato un nuovo amore, un giovane molto intraprendente e decisamente contrario a vivere nei limiti e nelle ristrettezze di una società rivoluzionaria sottoposta –come è noto- ad un embargo che dura da circa sessanta anni. Lui ha preparato tutto, la piccola lancia di cinque metri e mezzo, il motore fatiscente (ma sul mercato non c’è di meglio), la partecipazione di vari parenti e perfino qualche passeggero disposto a pagare 1.000 dollari per un passaggio nel breve, ma pericoloso stretto della Florida. Ma così bisogna fare perché una legge statunitense decreta che chi arriva da Cuba, paese liberticida e tirannico, con i “piedi secchi”, cioè senza aver messo in pericolo la propria vita, rischia di essere rispedito al mittente. Ma chi arriva con i “piedi bagnati” riceverà subito il permesso di soggiorno, la casa, offerte di lavoro e tutti i premi immaginabili per aver “scelto la libertà”. C’è un problema però. Elizabeth ha un bambino, frutto laborioso del suo primo matrimonio con Juan Miguel González, arrivato dopo una serie di aborti, desideratissimo e battezzato usando le iniziali di lei e le ultime lettere di lui: Elián.

Elián ha cinque anni e vive un po’ con mamma e un po’ con papà; la separazione dei genitori è stata concorde e anche Juan Miguel ha un’altra compagna dalla quale ha avuto un bambino, un fratellino per Elián. In quel fine settimana di dicembre 1999, Juan Miguel è tranquillo: Elián è dalla mamma e lunedì sarà a scuola come sempre. Ma la città di Cárdenas è piccola e corre voce che Elisabeth “se fue” (se ne è andata) come si dice in gergo per chi ha scelto di attraversare pericolosamente lo stretto della Florida per cambiare vita. Juan Miguel è disperato e chiama parenti e conoscenti a Miami per sapere del bambino che, invece, è ancora su una spiaggia dell’isola a causa di un’avaria di quella improbabile imbarcazione. Si dice che quell’attesa fosse molto penosa per il bambino il cui pianto irritava il capo carovana. Così testimoniano due sopravvissuti dal prevedibile naufragio che hanno raccontato la tragedia e il gesto di Elizabeth di mettere il piccolo su uno dei tre pneumatici in dotazione con una bottiglia d’acqua, affidandolo alle onde. Elián ha poi raccontato la morte della madre, sempre più lontana e poi scomparsa alla sua vista, mentre lui, solo e spaesato, è stato salvato da due pescatori floridiani che dopo questa miracolosa pesca, hanno allertato tutta la numerosa comunità cubana di Miami. E’ comparso un fratello di un nonno materno di Elián che si è subito impossessato del piccolo Mosè, scampato dalle acque e dal tirannico faraone. Dall’altra parte dello stretto, l’angosciato Juan Miguel, non rassegnato né alla fuga né all’ipotesi di morte di ex moglie e figlio, riesce a sapere che il bambino è vivo. A Miami la notizia ha fatto enorme scalpore e ormai Elián, appena rimesso dalla disidratazione, è stato affidato ai parenti che lo esibiscono come un trofeo, lo riempiono di piccole moto, armi giocattolo, peluche di enormi dimensioni sostenuti, aiutati e sponsorizzati dai vari gruppi di controrivoluzionari di Miami, prima fra tutti la famigerata Fundación cubano-americana, organizzatrice di numerosi attentati e destabilizzazioni contro l’isola. Per sette lunghi mesi, il giardinetto dello zio/nonno è sotto il bersaglio dei flash e ad Elián si chiede di mettersi in posa con la bandiera degli USA, di imbracciare le armi giocattolo, di inforcare la moto. Lui, scombussolato, stravolto, obbedisce, si lascia baciare ed abbracciare da parenti sconosciuti che compaiono sempre più numerosi. E’ uno spettacolo indecente che suscita le proteste di chi ha a cuore la protezione dell’infanzia, ma scontentare la irosa controrivoluzione miamense mettendo fine all’indecenza non era cosa facile, neanche per lo stesso Presidente Clinton per nulla disposto a scontentare il potente elettorato della Florida. Tutto sommato, si stava affidando l’orfano ai parenti, trascurando il piccolo particolare che a Cuba vi erano un padre e dei nonni fermamente decisi a riportare il bambino in famiglia, una volta saputo che il piccolo, che era stato sottratto all’insaputa, non era finito in pasto ai pescecani ma che era miracolosamente sopravvissuto. E quel padre, con un piccolo impiego nel settore turistico, una nuova famiglia e lo choc di aver creduto morto il figlio tanto desiderato sa a che santo votarsi; parla con Fidel Castro con cui sostiene il diritto e il desiderio suo e di tutti i membri della famiglia di riavere il bambino e, da quel momento la storia dei González diventa un affare di stato e una questione di politica internazionale delicatissima. Sette mesi di battaglie legali, di viaggi e di testimonianze; le nonne a colloquio con il nipotino per pochi minuti e sorvegliate dallo zio/orco; associazioni per la protezione dell’infanzia statunitensi in guerra per far valere le leggi vigenti; testimonianze rese a tribunali ostili, ben consapevoli che su quella creatura si stava giocando il prestigio del paese, la più commovente delle quali fu quella resa dalla mamma di Elizabeth che implorava il ritorno di Elián a Cárdenas, all’affetto del padre e della famiglia della madre già provata dalla perdita della figlia. Sette mesi di viaggi, sette mesi di battaglie, di ostilità delle famiglie cubane di Elián in “territorio nemico” non solo per l’assurda contesa sul bambino, ma anche per la loro posizione di sostegno al governo rivoluzionario di Cuba. Sono corse offerte di denaro, tentativi di corruzione, coinvolgimenti di politici di ogni livello finché una giudice ligia alla legalità sentenzia che il padre la cui patria potestà è fuori discussione, deve riavere suo figlio e il Dipartimento di Giustizia emette l’ordine di restituire il piccolo naufrago il 13 aprile 2000. Giustizia è fatta? Non per lo zio/nonno e i suoi sostenitori che si rifiutano di consegnare Elián e si barricano in casa mentre il villino è circondato dai controrivoluzionari decisi tenerselo, come fosse uno scalpo, una preda di guerra; deve intervenire la procuratrice generale degli Stati Uniti, Janet Reno, obbligata a far rispettare la legge anche con la forza. E fu così che una squadra speciale, armata fino ai denti e con le armi spianate ha fatto irruzione nella villetta e ha scovato il bambino tenuto nascosto in un armadio e col terrore negli occhi per quello che stava accadendo.

Per la sua cronaca, García Márquez ha scelto un titolo che dipinge magistralmente l’espressione spaventata del piccolo: “Naufrago in terra ferma” ma salvato ancora una volta. Siamo al 28 giugno e le foto della famiglia González –il padre con Elián in braccio, la nuova moglie col suo bambino- che scende dall’aereo all’aeroporto dell’Avana, commuove tutto il paese. Per il ritorno di Elián González a Cuba si è mobilitata per sette mesi tutta l’isola. Oggi il ragazzino è un uomo, lavora, è sposato e aspetta un figlio. Vive nella sua cittadina di Cárdenas vicino alle sue nonne coraggiose, al suo padre tenace e alla gente che conosce la sua storia e ne ha fatto parte. In occasione del ventesimo anniversario del suo ritorno, gli hanno chiesto se serbasse rancore nei riguardi di sua madre. Elián ha risposto che di lei ricorda solo un gesto, quello di avergli messo accanto, nel pneumatico salvatore, una bottiglia d’ acqua.

(14.7.2020)

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