Intervista all’analista politico francese Romain Migus

di Geraldina Colotti

Romain Migus, giornalista e scrittore francese, ha da poco lanciato la pagina web Les2rives.info . Un sito di “informazione e azione” sull’America Latina, che sostiene il proceso bolivariano in Venezuela.

Il socialismo bolivariano non gode di buona stampa in Europa. Perché hai deciso di immergerti così a fondo in quella realtà?

Ero interessato a conoscere un’esperienza che, all’inizio del secolo, rompeva con il modello neoliberista, e che costituiva uno dei pochi focolai di resistenza. All’epoca c’era il movimento no-global, ma dal mio punto di vista non era strutturato, non si poneva la questione della presa del potere come invece accadeva in Venezuela. Sono andato a vedere. Avrei dovuto rimanere 6 mesi, e ci sono rimasto 12 anni, mettendo radici. Oggi, il mio interesse continua a essere politico, ma quell’esperienza ha costruito parte della mia identità, che ha incontrato il processo di costruzione dell’identità collettiva chavista.


Qual è la tua analisi della realtà Venezuelana? Perché c’è tanta cattiva informazione oppure disinteresse anche da parte di quelle aree che dovrebbero al contrario sentirsi più affini?

Il Venezuela è certamente vittima della cattiva informazione. Fin dall’inizio, si è scatenata una campagna contro il comandante Chavez e contro la rivoluzione bolivariana: perché era un “cattivo esempio” da combattere, giacché rompeva con il discorso post-novecentesco sulla “fine della storia”. Chavez è, invece, il ritorno della Storia, insopportabile per le corporazioni mediatiche che rispondono ai grandi gruppi economici. Non si poteva permettere la rinascita di un modello alternativo, e per giunta dal sud. Non si poteva permettere che quell’esempio “contaminasse” il continente com’è avvenuto nella prima decade del secolo in Brasile, Argentina, Ecuador, Bolivia, Honduras, Paraguay, con il ritorno al governo di Ortega in Nicaragua. Si doveva impedire che quel “cattivo esempio” tracimasse oltre il continente latinoamericano, mostrando come la pressione dei movimenti sociali possa trovare uno sbocco di potere. Il “pericolo” era costituito da due elementi: il fatto che, in Venezuela, la ricchezza petrolifera sia servita a saldare l’enorme debito sociale nei confronti degli esclusi, e che questo esperimento abbia scompaginato la narrazione capitalista e imperialista definendosi, dopo 6 anni di esistenza, socialista. Un “crimine” imperdonabile per i grandi gruppi economici e per le loro articolazioni mediatiche. Quanto all’Europa, l’interesse è minore perché si dà priorità ad altre aree, per la Francia, soprattutto l’Africa e il Medioriente. Prima di Chavez ci si immaginava un paese lontano, di petrolio e miss. Dopo la vittoria di Chavez, volenti o nolenti, il Venezuela si è fatto conoscere per il suo percorso politico, e la propaganda mediatica si è adoperata per presentarne una visione negativa, e per allontanarlo dai suoi alleati naturali, i popoli dell’Europa.

E perché, invece, il socialismo bolivariano dovrebbe interessare i movimenti popolari in Europa?

Perché i dibattiti che possiamo vedere in alcuni partiti e movimenti sociali sono discussioni che hanno già avuto luogo dieci anni fa, in Venezuela. E anche alcuni successi ottenuti nel “laboratorio” bolivariano potrebbero essere replicati in Europa: ovviamente non come calco, date le differenze storiche, economiche culturali, di struttura e anche considerati alcuni errori che si sono potuti compiere… Penso soprattutto alla democrazia partecipata e protagonista, alle comunas, al potere popolare, che, per alcuni movimenti in Europa potrebbero facilmente essere una bandiera da rivendicare a fronte della crisi della democrazia rappresentativa e della rappresentanza politica tradizionale. Per esempio, in Francia, una delle rivendicazioni dei gilet gialli è quella dell’Assemblea Nazionale Costituente e di un referendum revocativo. Il Venezuela continua a essere un laboratorio di idee per i movimenti popolari europei. La cosa triste è che molti di loro non lo sanno perché sono disinformati, per cui o adottano un linguaggio aggressivo o se ne disinteressano, mentre le loro lotte sono una copia di quelle portate avanti dal popolo venezuelano. La nascita e l’essenza del movimento dei gilet gialli ha molto a che vedere con la rivolta del Caracazo, la protesta che, nell’89, ha scosso il Venezuela e nella quale ci sono stati migliaia di morti. Nel caso della Francia, ci sono stati molti feriti e tanta repressione. Questo sorgere del popolo come soggetto politico, in Francia, è un passo molto importante, ed è stato un momento fondativo della rivoluzione bolivariana. Conoscere la realtà del Venezuela, non è solo importante per la solidarietà internazionale, ma anche per arricchire il discorso e la narrazione politica di un cambiamento strutturale.

Il 6 di dicembre ci saranno le elezioni parlamentari in Venezuela. Qual è a tuo avviso il quadro, visto dall’Europa e in particolare dalla Francia?

Il 6 di dicembre è molto di più di una elezione. Tutti ce l’hanno chiaro, sia i chavisti e chi sostiene la rivoluzione, sia quella parte dell’opposizione democratica che ha deciso di presentarsi alle elezioni. Si tratta di recuperare un cammino costituzionale, tornare a rimettere l’opposizione nei binari istituzionali, isolare quella vena golpista di partiti come Voluntad Popular che ha fatto tanti danni soprattutto negli ultimi due anni: organizzando una permanente azione destabilizzante, 6 operazioni militari nel 2019, due nel 2020, oltre alla richiesta continua del rafforzamento del blocco economico-finanziario, delle “sanzioni”, dell’isolamento internazionale. Il 6 Dicembre rappresenta una opportunità unica perché in Venezuela ritorni la dialettica democratica e che sia il popolo a decidere del suo futuro. Anche gli Stati uniti hanno ben presente la posta in gioco quando violano il loro stesso “statuto di transizione”, votato dall’Assemblea Nazionale venezuelana a maggioranza di opposizione nel 2019. Il capitolo 3, paragrafo 14 degli statuti di transizione, dice che “il presidente dell’Assemblea Nazionale assume la presidenza a interim”. Dal 4 agosto di quest’anno, invece, gli Usa considerano l’autoproclamato Guaidó, che nessuno ha eletto, presidente a vita, anche dopo l’elezione del nuovo parlamento, che non riconosceranno. Gli Stati Uniti hanno avuto l’opportunità di partecipare al negoziato tra governo e opposizione a proposito delle “garanzie elettorali”, ma hanno rifiutato. Bisogna anche ricordare che quei paesi che esigono osservatori elettorali in casa d’altri, li rifiutano in casa propria. Nelle elezioni presidenziali francesi del 2017 non ci furono osservatori internazionali né del Venezuela né di altri paesi. L’Unione Europea, che si è defilata e ha deciso di non inviare osservatori, ha aperto la strada al disconoscimento delle elezioni, e ha mostrato così il suo vero volto. La UE poteva scegliere se partecipare al rafforzamento del cammino elettorale e democratico in Venezuela o essere una stella in più sulla bandiera nordamericana, e ha scelto questa seconda strada. I paesi della UE hanno così mostrato che questo organismo sovranazionale non ha una politica estera autonoma, indipendente, ma che è subordinato agli interessi della politica estera USA. È importante che gli europei prendano atto di questa dimensione, già evidenziatasi in altri temi internazionali, ma molto chiara riguardo al Venezuela. Possiamo quindi già immaginare che il sistema mediatico europeo e alcune Ong cominceranno una campagna di diffamazione e calunnia contro le elezioni del 6D, scegliendo di appoggiare la via golpista e mafiosa scelta dalla banda di Guaidó piuttosto che quella istituzionale, scelta anche dalla frangia democratica dell’opposizione venezuelana.

Alcuni partiti che si pongono a sinistra del PSUV, hanno deciso di presentarsi da soli alle elezioni, e si è sviluppata un’accesa polemica, enfatizzata anche dai media di destra, secondo la quale Maduro e il PSUV avrebbero abbandonato gli obiettivi rivoluzionari. Come la vedi tu?

Fra i punti di garanzia del dialogo, frutto dei negoziati tra il chavismo e l’opposizione democratica, c’è la decisione del potere elettorale, il CNE di ampliare il numero dei deputati e deputate e di invertire la proporzione dei deputati eletti proporzionalmente e eletti per nomina. Nel 2015, il 70% dei deputati è stato eletto in forma nominale e il 30% in modo proporzionale. Nel 2020, il 52% sarà eletto per via proporzionale, con un numero più ampio di deputati e deputate e solo il 48% in forma nominale. Questa riforma favorisce perciò i piccoli partiti che con il proporzionale possono avere più deputati. Di conseguenza anche alcuni partiti alleati della rivoluzione bolivariana nel Gran Polo Patriotico (GPP) hanno deciso di presentare propri candidati in forma indipendente, e ora mettono l’accento sulle differenze politiche perché questo serve a smarcarsi dal PSUV e dal GPP. In questo contesto, non tanto da parte della direzione di questi partiti, quanto da parte di alcune aree militanti o di sostegno sta prendendo forma un discorso aggressivo contro la direzione politica della rivoluzione bolivariana. Sembra quasi che Maduro agisca come un presidente di destra. Non si tiene conto della congiuntura economico-politica, a cominciare dall’infame blocco economico-finanziario che riduce la possibilità di scegliere opzioni economiche importanti. La diffusione di un discorso simile sulle reti sociali può demoralizzare e dividere il campo chavista in una elezione in cui la posta in gioco è molto alta. Sul piano internazionale, poi, può creare confusione in alcuni partiti che finora hanno appoggiato la rivoluzione bolivariana. Invece, si dovrebbero abbassare i toni, pensando anche alle alleanze necessarie in futuro con il chavismo e il GPP, per non precludere un nuovo incontro. In ogni caso, saranno gli elettori e le elettrici a scegliere i rappresentanti delle diverse visioni politiche e i programmi proposti.

L’anno scorso, in Venezuela, a seguito del Foro di San Paolo, si sono svolti diversi congressi mondiali, uno dei quali ha riguardato la comunicazione. Cosa pensi si possa fare come comunicatori popolari per unire la battaglia delle idee, l’informazione e l’azione in Europa, considerando il livello quasi insormontabile del latifondo mediatico?

Per non arare nel mare, per non urlare al deserto, è importante l’unità. Inutile girarci attorno, non abbiamo con noi le folle, e tantomeno l’egemonia comunicativa in Europa. È quindi importante, non solo l’unità ma anche il coordinamento tra tutti quelli che appoggiano la rivoluzione bolivariana, Cuba, il Nicaragua, che appoggiano i movimenti popolari in America Latina in una prospettiva antimperialista, e che cercano di far sentire una voce diversa da quella dei grandi media. Dobbiamo guardare ai processi di unità che funzionano in Venezuela per cercare di costruire percorsi di unità anche qui da noi, mettendo da parte le piccole differenze per rafforzare un fronte comunicativo organizzato.

Tu sei tra i fondatori della Rete Europea di sostegno alla rivoluzione bolivariana. Cosa pensi si debba fare in questo momento per sostenere il socialismo bolivariano?

Alcuni passaggi sono già stati fatti nel senso a cui accennavo prima. Ora si deve fare un salto dalla controinformazione alla organizzazione di campagne, precisamente centrate su temi particolari che possono andare dalla difesa del processo democratico in Venezuela alla promozione di un’agenda comune propositiva. Credo che la Rete debba fare un passo in più verso una forma organizzativa che, pur rispettando l’autonomia delle strutture che ne fanno parte, promuova campagne e cerchi di raggiungere alcuni obiettivi comuni.

Pensi ci possa essere un’aggressione armata al Venezuela prima delle elezioni negli Stati Uniti?

In verità quest’aggressione militare è già in corso. È che quando pensiamo a un’aggressione armata ci riferiamo a forme di guerra come quella della prima o seconda guerra del Golfo in cui sbarcano le truppe, ammazzano il presidente e s’impadroniscono del paese e delle sue risorse. Nella guerra ibrida scatenata contro il Venezuela non funziona così. La si combatte su molti fronti: economico-politico attraverso il bloqueo criminale, istituzionale con la creazione di poteri fittizi e paralleli, sul piano diplomatico nell’intento di isolare il paese, sul piano psicologico attraverso il ruolo dei media che prendono a bersaglio il cervello dei cittadini come se fosse un obiettivo militare, e attraverso la grande criminalità, che cerca di impadronirsi di porzioni di territorio per farne una base da cui combattere contro lo Stato. Vi sono poi gruppi paramilitari e mercenari che, come nel caso dell’operazione Gedeon cercano di promuovere una vera e propria invasione militare. Purtroppo non agiscono solo alla frontiera con il Tachira o nel Zulia, ma hanno loro centri anche nel paese, dove si trovano cellule dormienti o attive. Uno dei capi del gruppo criminale Los Rastrojos, amici di Guaidó, è stato catturato a Valencia, ben lontano dunque dalla frontiera. Agiscono anche mercenari disertori, coadiuvati dalla presenza di elementi dell’esercito di altri paesi che li stanno preparando a salire di livello nella violenza. Un’invasione vera e propria come abbiamo visto, per esempio, in Iraq, mi sembra poco probabile a due mesi dalle elezioni USA perché potrebbe costare molto cara a Trump, impantanandolo in un lungo conflitto dagli esiti incerti, anche perché il Venezuela conta con alleati internazionali ben attrezzati a livello militare. Mi sembra più probabile, invece, che si accentui la guerra ibrida per logorare la resistenza del popolo aumentandone la sofferenza.

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