La risposta migliore è comunicare la Rivoluzione

Da molto tempo l’élite capitalista statunitense va sviluppando, nei territori che desidera dominare a livello politico ed economico, modalità d’intervento negli affari interni con marcate caratteristiche di ingerenza

di Karima Oliva Bello, dal Granma

Se accediamo al sito web della Banca Mondiale (BM), la prima cosa che troveremo è uno slogan che annuncia che la sua missione fondamentale è la lotta alla povertà. Tuttavia, la Banca Mondiale è stata una delle principali istituzioni finanziarie internazionali, insieme al Fondo Monetario Internazionale (FMI), nello spiegamento di politiche neoliberali che hanno aggravato la situazione di povertà in gran parte di questo mondo. Anche se la Banca Mondiale lo sa meglio di noi, non ce lo dirà mai.

Piuttosto, finanzia una solida ricerca per descrivere come vivono i poveri, cosa causa la loro povertà e cosa deve essere fatto per sradicarla. La BM ovviamente non ha bisogno di indagare su questo, sa che nelle regioni in cui ha contribuito a imporre il neoliberismo la povertà è estremamente dura, senza garanzie o protezioni di alcun tipo. Sa anche che la povertà verrebbe eliminata con cambiamenti strutturali in direzione opposta alle politiche che promuove, cioè la creazione di posti di lavoro dignitosi con diritti e garanzie per i settori sfruttati, oltre al libero accesso a carattere universale e inalienabile alla salute e all’istruzione, per esempio.

Ma questi cambiamenti non saranno guidati dalla BM. Allora perché si occupa della povertà? Per poter gestire il malcontento sociale che essa genera, senza che si trasformi in un’azione politica contro lo status quo neoliberista. La BM aiuta a produrre povertà e gestisce i modi in cui essa dovrebbe essere percepita e affrontata, neutralizzando qualsiasi traccia di analisi o azione sociale che faccia propria la lotta di classe e la critica contro il capitalismo.

Questo metodo non è esclusivo della BM. Da molto tempo l’élite capitalista statunitense va sviluppando, nei territori che desidera dominare a livello politico ed economico, modalità d’intervento negli affari interni con marcate caratteristiche di ingerenza, utilizzando un insieme di organizzazioni governative o non governative, che, come la BM, operano sotto una facciata, in questo caso quella della difesa della democrazia, dei diritti umani e delle libertà civili.

Nel 1997, il New York Times riferiva che la National Endowment for Democracy (NED), fondata nel 1983 durante l’amministrazione di Ronald Reagan dal Congresso degli Stati Uniti con lo scopo di combattere il comunismo, stanziava allora 30 milioni di dollari all’anno per sostenere “partiti politici, sindacati, movimenti dissidenti e mezzi di comunicazione” alleati agli interessi del governo degli Stati Uniti. Nel caso di Cuba è documentato come, ad oggi, la NED continui a essere un mezzo per finanziare persone, organizzazioni e media che lavorano per un cambio di regime nell’Isola.

La Open Society Foundations (OFS), dal canto suo, è un’organizzazione filantropica fondata dal magnate americano George Soros nel 1993, che investe milioni di dollari in “migliaia di sovvenzioni ogni anno per la costruzione di democrazie inclusive e vibranti”, dice sul suo sito web. Formano gli opinion leader locali con sovvenzioni fino a 40.000 dollari all’anno e finanziano progetti per quello che secondo loro è il potenziamento della società civile.

Messa così, si tratta di un impegno nobile e disinteressato, ma quello che fanno davvero è fabbricare campagne di opinione e gestire movimenti sociali in alcuni paesi come un pezzo chiave nella strategia di dominazione capitalistica degli Stati Uniti. Così, l’OFS è stata collegata, ad esempio, alla caduta dei regimi politici dell’Europa Orientale e delle ex repubbliche sovietiche e all’arrivo al potere di governi non necessariamente più democratici, ma alleati degli interessi statunitensi.

Non sto dicendo che nelle società in cui si interviene attraverso questo tipo di organizzazioni non ci siano problemi sociali che riguardano settori della popolazione e che richiedono una soluzione politica, economica, legislativa, eccetera, ma interventi per scopi estranei agli interessi della popolazione non faranno altro che complicare un panorama già complesso, senza alcuna garanzia di effettivo beneficio per la maggioranza. Le situazioni sociali sono intrappolate in un meccanismo di manipolazione politica. Gestire il malcontento sociale che li circonda per renderlo proficuo per gli interessi di certi gruppi di potere negli Stati Uniti è un fatto di per sé piuttosto perverso.

Ho fornito l’esempio della NED e dell’OFS, perché sono due delle organizzazioni che hanno sostenuto e promosso la controrivoluzione cubana, che è andata diversificando il proprio profilo nell’ultimo decennio.

Una società civile mediatica e le sue campagne d’opinione

 

Nel dicembre 2010, le rivelazioni di WikiLeaks hanno portato alla luce una comunicazione riservata del capo diplomatico statunitense all’Avana, Jonathan Farrar, in cui criticava aspramente la natura “personalistica”, “senza radicamento sociale” e l’“eccessiva preoccupazione per il denaro” dei dissidenti cubani, riconoscendo che “i dissidenti sono poco conosciuti a Cuba al di fuori della cerchia dei diplomatici stranieri e della stampa”.

In questo modo parte delle strategie per promuovere e sostenere la controrivoluzione cubana, in linea con il cambiamento della politica statunitense nei confronti di Cuba avvenuto durante l’amministrazione Obama (2009-2017), è stata modificata con l’intenzione di produrre un altro tipo di dissidenza. Da allora, uno dei punti nodali dell’azione di organizzazioni come la NED e l’OFS è stato quello di sostenere, da un lato, la creazione di un insieme di piattaforme e media digitali – che si presentano come indipendenti, ma nella misura in cui sono media privati o pagati dal governo degli Stati Uniti non lo sono – e dall’altro, il reclutamento e l’assunzione di persone provenienti dal mondo accademico e giornalistico per farli diventare attori mediatici che, in queste piattaforme finanziate dall’estero, si sono espressi come portabandiera nella difesa di alcuni diritti e gruppi sociali.

La strategia è orientata in due direzioni complementari: la creazione di una sorta di società civile mediatica (aspetto nuovo nel caso cubano per il modo in cui viene gestita, grazie alla maggiore connettività e all’accesso dei cubani ai social network su internet) e la produzione, allo stesso tempo, di un insieme di campagne di opinione per creare le condizioni soggettive favorevoli al cambiamento del sistema politico.

Tra le questioni che questi media digitali e i loro attori capitalizzano, spicca un insieme di problematiche sociali reali e sensibili, che riguardano alcuni settori della popolazione e che sono state poco affrontate dalle organizzazioni, dalle istituzioni e dai media di Cuba. Prendiamo ad esempio la violenza di genere, anche se non è l’unico problema che viene capitalizzato, per evidenziare i punti chiave delle strategie di realizzazione delle campagne di opinione.

Un aspetto fondamentale è quello di forzare un’analogia tra la realtà cubana e quella di qualsiasi società latinoamericana. Ciò si ottiene attraverso un’analisi a-storica e decontestualizzata da dati, cifre e fatti, che permette di equiparare, senza alcuna considerazione a riguardo, la qualità con cui il fenomeno della violenza di genere emerge nel nostro paese e come si verifica in altri contesti. Perché si insiste tanto sull’equivalenza? Il tema dell’equivalenza è fondamentale, perché:

  1. Permette di amplificare il problema, poiché, senza smettere di considerare che ogni atto di violenza è grave di per sé e merita tutta l’attenzione, in altri contesti la violenza emerge come espressione di dinamiche socio-economiche molto più complesse e, quindi, diverse da quelle che si verificano nel contesto cubano a causa dell’intreccio della violenza di genere con altri tipi di violenza tipici delle società capitalistiche.
  2. Si delegittima il socialismo come modello di società efficace. Se si ignorano tutta una serie di questioni strutturali e sistemiche per concludere che i problemi sociali si verificano nel socialismo con la stessa qualità che nelle società capitalistiche, allora perché lo difendiamo?
  3. Si fabbrica l’idea del vuoto istituzionale. Si utilizza l’insufficiente trattamento mediatico di questi temi da parte delle istituzioni e dei mezzi di comunicazione a Cuba per trasmettere l’idea che non si fa nulla, invece di quella per cui bisogna perfezionare e affrontare ciò che si sta facendo. Lo Stato cubano deve essere percepito come uno Stato fallito, cosa che amplifica il malcontento e, allo stesso tempo, legittima l’importanza di mettere altre voci “alternative”, cioè crea la piattaforma per il posizionamento politico di altre leadership.
  4. Permette di importare forme di lotta da altri contesti spesso caratterizzati da un’opposizione frontale allo Stato attraverso scioperi o mobilitazioni sociali. Una delle aspirazioni di questa nuova controrivoluzione sarebbe quella di raggiungere a un certo punto un potere di convocazione che permetta un’esplosione sociale per facilitare l’agognato intervento straniero. Gestire il malcontento in modo da portare alcuni settori in strada e creare le condizioni per un confronto sociale o una situazione di conflitto e destabilizzazione del paese sarebbe l’ideale per i loro propositi di un colpo di Stato morbido.

In questo scenario, disegnato con la punta di un pennello d’importazione, il presidente Díaz-Canel ha dichiarato che lo Stato cubano, le sue istituzioni e organizzazioni, hanno lavorato al perfezionamento dei meccanismi per affrontare questi problemi sociali, in accordo con l’essenza umanista della Rivoluzione; allo stesso tempo, è un compito politico di primo piano produrre contenuti e leadership collettiva per la sua riuscita mediatica.


La mejor respuesta es comunicar la Revolución

Hace mucho tiempo que la élite capitalista estadounidense viene desarrollando, en los territorios que desea dominar política y económicamente, formas de intervenir en los asuntos internos con un marcado carácter injerencista

Autor: Karima Oliva Bello 

Si accedemos al sitio web del Banco Mundial (BM), lo primero que vamos a encontrar es un eslogan anunciándonos que su misión fundamental es combatir la pobreza. Sin embargo, el Banco Mundial ha sido una de las instancias financieras internacionales protagonistas, junto al Fondo Monetario Internacional (FMI), del despliegue de las políticas neoliberales que han agravado la situación de pobreza en gran parte de este orbe. Este dato, aunque el Banco Mundial lo conoce mejor que nosotros, nunca nos lo dirá.

En cambio, financia robustas investigaciones para describir cómo viven los pobres, cuáles son las causas de su pobreza y qué se debe hacer para erradicarlas. El BM, obviamente, no necesita investigarlo, sabe que en las regiones donde ha ayudado a imponer el neoliberalismo la pobreza es de una dureza extrema, sin garantías ni protecciones de ningún tipo. También sabe que la pobreza se eliminaría con cambios estructurales en un sentido inverso a las políticas que promueve, o sea, la creación de empleos dignos con derechos y garantías laborales para los sectores explotados, más el acceso gratuito con carácter universal e inalienable a la salud y a la educación, por ejemplo.

Pero estos cambios el BM no los impulsará. Entonces, ¿para qué se ocupa de la pobreza? Para poder gestionar el descontento social que ella genera, sin que este devenga en una acción política contra el statu quo neoliberal. El BM ayuda a producir la pobreza y administra las formas en que esta debe ser percibida y afrontada, neutralizando cualquier matriz de análisis o acción social que asuma la lucha de clases y la crítica contra el capitalismo.

Este método no es exclusivo del BM. Hace mucho tiempo que la élite capitalista estadounidense viene desarrollando, en los territorios que desea dominar política y económicamente, formas de intervenir en los asuntos internos con un marcado carácter injerencista, valiéndose de un conjunto de organizaciones gubernamentales o no, que, como el BM, operan bajo una fachada, en este caso, la de defender la democracia, los derechos humanos y las libertades civiles.

En 1997, The New York Times informaba que la National Endowment for Democracy (NED), fundada en 1983, durante el gobierno de Ronald Reagan por el Congreso de EE. UU. con el objetivo de combatir el comunismo, gastaba entonces 30 millones de dólares al año para apoyar «partidos políticos, sindicatos, movimientos disidentes y medios de comunicación» aliados a los intereses del Gobierno estadounidense. En el caso de Cuba está documentado cómo, hasta la fecha, la NED sigue siendo una vía de financiamiento de personas, organizaciones y medios de comunicación que trabajan para un cambio de régimen en la Isla.

Por su parte, la Open Society Foundations (OFS) es una organización filantrópica fundada por el magnate estadounidense George Soros, en 1993, que invierte millones de dólares en «miles de subvenciones cada año para la construcción de democracias inclusivas y vibrantes», según expresa en su página web. Forman líderes de opinión locales con becas de hasta 40 000 dólares anuales y financian proyectos para lo que, según ellos, es el empoderamiento de la sociedad civil.

Dicho así, resulta un noble y desinteresado empeño, pero lo que realmente hacen es fabricar matrices de opinión y gestionar movimientos sociales en determinados países como pieza clave dentro de la estrategia de dominación capitalista de EE. UU. Así, la OFS. ha estado vinculada, por ejemplo, a la caída de regímenes políticos en Europa del Este y las exrepúblicas soviéticas y la llegada al poder de gobiernos, no necesariamente más democráticos, pero sí aliados a los intereses estadounidenses.

No estoy diciendo que en las sociedades intervenidas a través de este tipo de organizaciones no existan problemáticas sociales que afecten a sectores de la población y que requieran una solución política, económica, legislativa, etc., pero la intervención con fines extrínsecos a los intereses de los pueblos lo que viene es a enrarecer un panorama ya de por sí complejo, sin garantía alguna de beneficio efectivo para las mayorías. Las situaciones sociales quedan entrampadas en un mecanismo de manipulación política. Administrar el descontento social en torno a ellas para hacerlo redituable a intereses de determinados grupos de poder en EE. UU. es un hecho en sí bastante perverso.

He puesto como ejemplo a la NED y a la OFS. porque son dos de las organizaciones que han apoyado y promovido a la contrarrevolución cubana, que ha ido diversificando su perfil en la última década.

UNA SOCIEDAD CIVIL MEDIÁTICA Y SUS MATRICES DE OPINIÓN

En diciembre de 2010, revelaciones de WikiLeaks dieron a conocer un cable del jefe diplomático de EE. UU. en La Habana, Jonathan Farrar, en el que este criticaba duramente el carácter «personalista», «sin arraigo social» y de «excesiva preocupación por el dinero» de la disidencia cubana, reconociendo que «los disidentes son poco conocidos en Cuba fuera del círculo de los diplomáticos extranjeros y la prensa».

De modo que parte de las estrategias para promover y apoyar la contrarrevolución cubana, a tono con el cambio de política de EE. UU. hacia Cuba que se produjo durante el mandato de Obama (2009-2017), se modificó con la intención de fabricar otro tipo de disidencia. Desde entonces, uno de los puntos nodales de la acción de organizaciones como la NED y la OFS. ha sido apoyar, por una parte, la creación de un conjunto de plataformas y medios digitales –que se presentan como independientes, pero en la medida en que se trata de medios privados o pagados por el Gobierno de Estados Unidos no lo son–, y por otra parte, el fichaje y reclutamiento de personas provenientes del mundo académico y periodístico para convertirlas en actores mediáticos que, en esas plataformas financiadas desde el extranjero, se han venido expresando como abanderados en la defensa de determinados derechos y grupos sociales.

La estrategia está dirigida en dos direcciones que se complementan: la fabricación de una especie de sociedad civil mediática (aspecto novedoso para el caso cubano por la forma como se va gestionando, a raíz de una mayor conectividad y acceso de los cubanos a las redes sociales en internet) y la producción, a la par, de un conjunto de matrices de opinión para crear las condiciones subjetivas favorables para el cambio de sistema político.

Entre los temas que estos medios digitales y sus actores capitalizan se destaca un conjunto de problemáticas sociales reales y sensibles, que afectan a determinados sectores de la población y que han sido poco abordadas mediáticamente por las organizaciones, instituciones y medios de comunicación en Cuba. Tomemos de ejemplo la violencia de género, aunque no es la única problemática que se capitaliza, para poner de relieve los puntos clave de las estrategias de conformación de las matrices de opinión.

Un aspecto fundamental es forzar una analogía entre la realidad cubana y la de cualquier sociedad latinoamericana. Esto se logra gracias a un análisis ahistórico y descontextualizado de datos, cifras y hechos, que permite equiparar, sin ninguna consideración al respecto, la cualidad con que emerge el fenómeno de la violencia de género en nuestro país y cómo se da en otros contextos. ¿Por qué se insiste tanto en la equivalencia? El tema de la equivalencia es clave, porque:

  1. Permite amplificar el problema, ya que, sin dejar de considerar que cualquier acto de violencia es grave en sí mismo y merece toda la atención, en otros contextos la violencia emerge como expresión de dinámicas socioeconómicas mucho más complejas y, por tanto, diferentes de las que se dan en el contexto cubano por el entrecruzamiento entre las violencias de género con otros órdenes de violencias propios de las sociedades capitalistas.
  2. Se deslegitima al socialismo como modelo de sociedad efectivo. Si se obvian toda una serie de cuestiones estructurales y sistémicas para poder concluir que en el socialismo las problemáticas sociales se dan con la misma cualidad que en sociedades capitalistas, entonces para qué lo estamos defendiendo.
  3. Se fabrica la idea del vacío institucional. Se aprovecha el insuficiente tratamiento mediático de estos temas por parte de la institucionalidad y los medios de comunicación en Cuba para transmitir la idea de que no se hace nada en lugar de que lo que se está haciendo tiene que ser perfeccionado y abordado mediáticamente. El Estado cubano tiene que ser percibido como un Estado fallido, lo que amplifica el descontento y, al mismo tiempo, legitima la importancia de colocar otras voces «alternativas», o sea, crea la plataforma para el posicionamiento político de otros liderazgos.
  4. Permite importar formas de lucha de otros contextos que se caracterizan muchas veces por una oposición frontal al Estado a través de paros o movilizaciones sociales. Una de las aspiraciones de esta nueva contrarrevolución sería alcanzar en algún momento un poder de convocatoria tal que permitiese un estallido social para facilitar la añorada intervención extranjera. Administrar el descontento de forma tal que se consiga volcar a determinados sectores hacia la calle y crear las condiciones para una confrontación social o situación de conflicto y desestabilización del país sería idóneo para sus propósitos de un golpe blando.

En este escenario, que se dibuja con la punta de un pincel importado, el Presidente Díaz-Canel ha planteado que el Estado cubano, sus instituciones y organizaciones, vienen trabajando en perfeccionar los mecanismos de atención a esas problemáticas sociales, en concordancia con la esencia humanista de la Revolución; al mismo tiempo, es tarea política de primer orden producir contenidos y liderazgos colectivos para su posicionamiento mediático.

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