Colombia, un ottobre con molta guerra e poca pace

di Francesco Cecchini www.ilperiodista.it

Manifestazioni di ex guerriglieri e indigeni contro gli omicidi in serie. Giorni caldi in Colombia, tra scioperi generali e minacce esplicite. Il vero nemico della pace, secondo le piazze, è sempre lo stesso: l’ex presidente Álvaro Uribe

La marcia degli ex guerriglieri: «Basta assassinarci»

In Colombia è in corso una marcia di ex guerriglieri, che arriverà a Bogotá il 30 ottobre e ha l’appoggio di diversi settori sociali. La marcia è promossa dai firmatari dell’accordo di pace delle Farc-Ep (Forze armate rivoluzionarie della Colombia – Esercito popolare) con il governo colombiano nell’aprile 2016, all’Avana, Cuba.

La mobilitazione richiede rispetto per la vita e la pace, oltre a respingere la violenza e l’inerzia dello Stato che ha portato all’assassinio di 236 ex combattenti delle Farc-Ep.

Il 24 ottobre la Gioventù Comunista Colombiana (Juco) di Bogotá ha dichiarato: «Sosteniamo il degno pellegrinaggio degli ex combattenti delle Farc-Ep che oggi, dopo aver firmato un accordo di pace nel 2016, sono vittime di uno sterminio brutale e sistematico. Iván Duque ferma il massacro!».

Il 20 ottobre il senatore Gustavo Petro ha denunciato l’assassinio di due dirigenti di Colombia Humana. Il 20 ottobre, in meno di 24 ore, hanno assassinato l’ex consigliere Eduardo Alarcón e il responsabile della campagna, Gustavo Herrera, entrambi membri di Colombia Humana.

Il 22 ottobre 2020 il gruppo paramilitare Autodifesa Gaitanistas de Colombia ha minacciato lo sterminio di 23 leader e affiliati dei movimenti politici Colombia Humana e Unión Patriótica e di organizzazioni sociali e sindacali.

Il 25 ottobre Carlos Antonio Lozada, senatore del partito Farc (Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune), ha denunciato l’omicidio degli ex combattenti Marcial Macías, nella regione del Cauca e Libardo Becerra, a San Vicente del Caguán, Caquetá.

La minga degli indigeni

Prima della marcia degli ex guerriglieri vi è stata quella dei popoli originari della minga. La parola minga deriva dal quechua minka, che si riferisce ad un’antica tradizione di lavoro comunitario o collettivo a fini sociali. Secondo l’Organizzazione nazionale indigena della Colombia (Onic) nel Paese ci sono 102 popolazioni indigene, di cui 18 in pericolo di scomparsa.

Continua, oltre all’assassinio di ex guerriglieri, quello di leader sociali e indigeni. È un massacro senza fine. Una minga di migliaia di indigeni della regione del Cauca si è radunata il 14 ottobre a Cali, dichiarando: «Oggi come popolo originario diciamo no alla violenza, sì all’accordo di pace e alla lotta degli indigeni (…). Sì al territorio, sì alla vita, sì alla pace, sì alla democrazia e che il mondo intero si dia conto di ciò di cui sono capaci le popolazioni originarie in Colombia».

Ha chiesto rispetto degli Accordi di pace del 2016. Ha chiesto inoltre un incontro con il presidente Iván Duque perché risponda alle loro richieste e ponga fine al dramma che stanno vivendo. Ma Iván Duque non ha risposto nè si è fatto vivo.

Gli effetti politici del rifiuto di Iván Duque di dialogare con la minga si faranno sentire nelle elezioni 2022. Di fronte alla minga, Duque si è mostrato moralmente ed eticamente inferiore. Gli è stata tolta la maschera democratica, rivelandosi indegno di portare il titolo di presidente di tutti i colombiani.

La minga ha vinto, quindi, ed è pronta a nuove mobilitazioni, ma viene accusata dall’uribista Fernando Londoño, ministro della Difesa, di essere infiltrata e narcotrafficante. Accuse dalle quali si difende con energia: «Identificare il Cric (Consejo Regional Indígena del Cauca) come un trafficante di droga si configura come un momento in più all’interno della strategia uribista, consistente nel distruggere i processi che non si inginocchiano con bugie su bugie, lasciando il palco aperto alla violenza. Chi non ha voluto finire, fa il suo lavoro per l’eliminazione fisica, il genocidio, l’etnocidio e l’espropriazione territoriale».

Sciopero nazionale con 104 proposte

Il 21 ottobre vi è stato uno sciopero nazionale contro la politica economica e sociale di Iván Duque, proclamato dalla Central Unitaria de Trabajadores (Cut), dalla Federación Colombiana de Trabajadores de la Educación (Fecode), dalla Asociación Distrital de Trabajadores y Trabajadoras de la Educación (Ade), e dal Movimiento Obrero Independiente y Revolucionario (Moir), oltre che da organizzazioni di docenti e studenti.

Il comitato dello sciopero nazionale ha avanzato un’ampia lista di richieste, ben 104: tra queste una riforma sanitaria globale, la protezione dei leader sociali e un maggiore intervento statale per migliorare l’economia del paese.

Le manifestazioni si sono tenute nelle principali città del Paese. A Bogotá è terminata con un concerto davanti al palazzo del Nariño.

Il bilancio dello sciopero da parte degli organizzatori è positivo, tanto che hanno in mente di organizzarne uno più grande. «Paralizzeremo tutte le città, compresa Cartagena», ha affermato il leader sindacale Falcón Prasca.

Le minacce di morte ai sindacati

La Central Unitaria de Trabajadores de Colombia (Cut) e il Dipartimento dei diritti umani denunciano proccupati di aver ricevuto minacce contro il presidente della Central, José Diógenes Orjuela García, oltre che contro il comitato esecutivo della Federazione colombiana degli educatori, Fecode, in mezzo all’ondata di omicidi di leader sociali ed ex combattenti. Così le due sigle: «Lunedì 26 ottobre sono arrivati presso la residenza del compagno Carlos Enrique Rivas Segura una corona, candele funerarie e libri liturgici con il nome di ogni dirigente Fecode e del presidente della nostra centrale. Chiediamo, convochiamo e invitiamo il movimento sindacale nazionale e globale, il movimento dei difensori dei diritti umani e il movimento sociale, a denunciare questi eventi e alla solidarietà. Chiediamo al governo nazionale le garanzie costituzionali per l’esercizio dei diritti sindacali e avvertiamo ogni singolo membro della continuazione della violenza contro il sindacalismo».

La senatrice di Colombia Humana – Unión Patriótica, Aída Avella, ha espresso la sua totale solidarietà alla Federación Colombiana de Educadores e al suo consiglio di amministrazione, osservando: «Minacce e massacri sono una politica sistematica contro i lavoratori ei cittadini, per evitare la trasformazione sociale. Quello che succede in Colombia non è democrazia».

«Respingiamo le minacce di morte contro i leader della Fecode e del Cut, queste sono una minaccia diretta per l’intero movimento sociale in Colombia – è la dichiarazione di Sena, Servicio Nacional de Aprendizaje -. Chiediamo che il governo non generi più violenza stigmatizzando la protesta sociale».

Alirio Uribe, avvocato e difensore dei diritti umani, ha scritto: «Mentre il partito del governo Duque stigmatizza la Fecode, queste aquile nere inviano una corona e minacce ai loro leader. Minacce dello Stato?».

Infine, la consigliere dell’Unión Patriótica di Bogotá Heidy Sánchez Barreto ha chiesto «solidarietà con Fecode e i membri del suo consiglio di amministrazione, vittime di nuove minacce. Continuano le intimidazioni e gli omicidi contro leader, uomini e donne ed ex combattenti».

Va ricordato che lo sciopero nazionale è stato preceduto dalle manifestazioni di settembre per l’omicidio di Javier Ordóñez. Manifestazioni contro la violenza sproporzionata delle forze dell’ordine, con omicidi – una decina -, arresti arbitrari, scioglimento delle proteste senza alcuna giustificazione, uso eccessivo di lacrimogeni e altre armi dissuasive e uso di armi da fuoco da parte di persone che si trovano vicino alle forze di polizia.

Uribe e l’uribismo contro la pace

In Colombia circola da poco il documentario La Paz di Tomás Pinzón Lucena. Il documentario è stato girato nei cinque mesi vissuti in un’area di addestramento e reincorporazione territoriale (Etcr) durante il cessate il fuoco, un campo situato nelle montagne del Cauca, dove viveva con i guerriglieri dell’ex blocco Alfonso Cano che voleva smobilitare.

Il link con il trailer con sottotitoli in spagnolo è il seguente:

https://www.youtube.com/watch?v=sfjd8YKpsFU.

La Paz racconta il desiderio di pace, prima dell’Accordo definitivo, di donne e uomini che stavano per deporre le armi. Ricorda che quel desiderio è stato ed è sabotato dall’ex presidente Álvaro Uribe, dal presidente Iván Duque, suo uomo, e dall’uribismo.

Un referendum falsato

Il 2 ottobre 2016, al referendum, i colombiani avrebbero potuto esprimere la loro volontà di pace. Álvaro Uribe e l’uribismo, come successivamente confermato dal direttore della campagna del No, Juan Carlos Vélez, scelsero di diffondere false notizie per falsificare e distorcere la realtà. Grazie a ciò il No ottenne 6.431.372 voti e il Sì 6.377.464.

La vergogna dei falsi positivi

La storia criminale di Álvaro Uribe contro la pace ha radici lontane. Basti pensare ai falsos positivos, che sono consistiti nell’assassinare, a opera dell’esercito, persone innocenti e farle passare per guerriglieri delle FARC-EP o dell’ELN, per ottenere riconoscimenti e premi dai superiori e ricompense dal governo nazionale. I falsos positivos sono per lo più avvenuti durante i due governi di Uribe, dal 7 agosto 2002 al 7 agosto 2010.

Manuel Santos è stato ministro della Difesa nell’ultimo governo Uribe. Indagini svolte negli ultimi anni hanno messo in chiara evidenza la responsabilità diretta di alte sfere dell’esercito e di quelle politiche del governo, quindi di Uribe e Santos. Uribe è stato denunciato anche dal Collettivo Madri di Soacha, che riunisce madri e parenti di falsi positivi, almeno 2.248 civili, secondo il conteggio della procura.

Una denuncia ritortasi contro: Uribe e le accuse

Il 4 agosto la Corte suprema di giustizia colombiana ha deciso gli arresti domiciliari per l’ex presidente Álvaro Uribe, accusato di subornazione di testimoni, frode procedurale e corruzione. Dopo aver ascoltato la sentenza, vari settori sociali hanno celebrato la decisione con marce e cacerolazos. Da parte sua, il presidente Iván Duque è intervenuto in sua difesa, denunciando una «persecuzione politica» contro il capo del suo partito. Paradossalmente, il processo giudiziario era iniziato con la denuncia di Uribe contro il senatore Iván Cepeda che lo accusava di guidare un gruppo di falsi testimoni, ma la Corte ha finito per reindirizzare le indagini sull’ex presidente.

ll 10 ottobre, dopo poco più di 60 giorni di detenzione domiciliare nella sua tenuta di 1.500 ettari di terra conosciuta come El Uberrimo, la giudice Clara Ximena Salcedo Duarte del tribunale di Bogotà ha accolto la domanda della difesa, sostenuta dalla fiscalía general de la Nación e dal ministerio público, di annullare le misure di detenzione domiciliare imposte a Uribe dalla Corte suprema di giustizia.

Iván Cepeda, pur esprimendo il suo rispetto per la giustizia, ha annunciato un ricorso contro la decisione della giudice Clara Ximena Salcedo.

Álvaro Uribe, appena uscito, si è subito dedicato alla sua principale attività chiedendo l’abolizione della Jurisdicción Especial para la Paz (Jep).

Le vicende giuridiche di Uribe continuano, la procura sta accusando Diego Cadena, l’avvocato di Álvaro Uribe, per uso di falsi testimoni, i casi sono molti. La causa che oggi affronta l’avvocato Diego Cadena è iniziata l’11 aprile 2012. Quel giorno, Iván Cepeda intervenne alla Camera su come i paramilitari si formarono ad Antioquia, negli anni ’90, e accusò l’allora governatore, Álvaro Uribe, di essere il loro sponsor. Cepeda ha rivelato le testimonianze degli ex paramilitari in prigione Pablo Hernán Sierra e Juan Guillermo Monsalve, i quali hanno affermato che tra i creatori del Metro Block dei gruppi di autodifesa c’erano i fratelli Santiago e Álvaro Uribe Vélez. Questi testimoni hanno affermato di essere membri di quel gruppo armato, di base alla fattoria Guacharacas, di proprietà della famiglia Uribe Vélez.

Per un cambio politico e sociale in Colombia, quindi, serve la sconfitta dell’uribismo.

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