Venezuela, si vota il nuovo parlamento. Contro il coronagringos

Geraldina Colotti  www.lantidiplomatico.it

A cinque anni dalle precedenti, come prevede la costituzione bolivariana, il 6 di dicembre si svolgono le elezioni parlamentari. Per una serie di ragioni, interne e internazionali, queste legislative hanno un significato che trascende il mero appuntamento elettorale. C’è da dire che, da quando Hugo Chavez ha fatto inaspettatamente il pieno di voti, vincendo inaspettatamente la presidenza del Venezuela, il 6 di dicembre del 1998, la “democrazia partecipata e protagonista” ha costituito un poderoso elemento di discontinuità nella ritualità della IV Repubblica, che, sotto l’ombrello di Washington, garantiva un’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra in una “democrazia” molto lodata da quelle borghesi occidentali.

La principale promessa elettorale di Chavez era stata quella di un’Assemblea Nazionale Costituente, che mettesse davvero nelle mani del popolo l’istituzione di nuove regole collettive non più a vantaggio delle elite ma dei settori popolari, gran parte dei quali – popolazione indigena, poveri, donne lasciate a servizio nelle case dei ricchi – non aveva nemmeno la carta d’identità.

Da allora, il Venezuela bolivariano, come si definisce per riprendere lo spirito indipendentista del padre della patria, il Libertador Simon Bolivar, è diventato una grande agorà. Un paese in assemblea permanente che ha aggiunto alla nozione di democrazia periclea la possibilità che siano i dannati della terra, i discendenti degli indigeni sterminati e degli schiavi deportati, le donne, i poveri delle periferie, a determinare il nuovo corso di decisioni. Nella “democrazia partecipata e protagonista” del Venezuela che si vuole “in transizione verso il socialismo”, le elezioni sono da allora diventate un momento di verifica del potere popolare, costruito in una permanente dialettica tra conflitto e consenso.

Da allora a oggi, in 21 anni di una rivoluzione bolivariana che ha resistito a tentativi di colpi di stato, tentate stragi, boicottaggi internazionali e, dal 2015, resiste a un criminale blocco economico-finanziario da parte dell’imperialismo USA e dell’Unione Europea, si sono svolte 24 elezioni, tutte con lo stesso spirito. Questa – particolarmente osteggiata dai grandi poteri internazionali – sarà la n. 25.

Anche i detrattori più inveterati del socialismo bolivariano hanno dovuto e devono prendere atto delle moltitudini di bandiere rosse, delle moltitudini di volti indigeni, afrodiscendenti, giovani e donne, che agiscono e votano in un paese che sembra “in assemblea permanente”. Tanto che, ogni volta che l’imperialismo si è servito della parola “democrazia” per i suoi tentativi di destabilizzare il paese, ha dovuto letteralmente falsificare le immagini, diffuse dai grandi conglomerati mediatici al suo servizio.

La borghesia, in Venezuela, ha denaro e potere economico, ma non ha le masse. Sicuramente, dispone di una bella fetta di classe media e medio-alta, e di uno zoccolo duro di manovalanza, mercenaria e fascista, ma non ha le masse. Un dato contro il quale sono finora naufragati i tentativi di rovesciare i governi bolivariani, prima quello di Chavez e ora quello di Nicolas Maduro.

Per questo, l’imperialismo ha inventato e dispiegato la farsa delle autoproclamazioni che, per quanto riguarda il Venezuela, hanno avuto il battesimo a gennaio del 2019 con quella di Juan Guaidó: un deputato del partito di estrema destra Voluntad Popular che, quanto a consenso popolare, non poteva esibire neanche un risultato eccellente in termini di consenso nel suo schieramento.

Ma che importa? Non si basa forse, il capitalismo, su alcune finzioni fondamentali che occultano la vera natura del rapporto tra capitale e lavoro, il ruolo tutt’altro che regolativo del mercato, la falsa uguaglianza del cittadino di fronte allo stato, e l’esaltazione dei “diritti” come cortina di fumo rispetto alla loro definizione di classe?

Se l’ipotesi dell’autoproclamato e di chi lo sostiene – oltre 50 paesi che lo hanno riconosciuto, strombazzano i media egemoni, dimenticando che tutta l’altra parte del mondo, interi continenti, non accettano soluzioni imposte dall’esterno – fosse radicata in Venezuela, perché non si è deciso di farla finita col chavismo imponendo un’altra maggioranza nelle urne, dove la destra ha stravinto nel 2015 e con lo stesso sistema elettorale?

Perché l’obiettivo della cricca autoproclamata e dei suoi burattinai non è il consenso, ma il malloppo. Continuare nella farsa del governo parallelo e virtuale, significa intascare fiumi di denaro dalle banche che bloccano il denaro del popolo venezuelano in Europa, incamerarsi imprese di stato che risiedono all’estero, eccetera. Solo l’arroganza neocoloniale dell’Europa e degli USA, un paese dove persino l’ex presidente Trump afferma che “esiste un sistema elettorale da terzo mondo” – evita di immedesimarsi con quanto sta passando in Venezuela. Perché se qualcuno si autoproclamasse presidente “a interim” in Italia, in Francia, in Svizzera, verrebbe portato in carcere o in un reparto psichiatrico, mentre in Venezuela no?

Non si è ancora riflettuto abbastanza sulle conseguenze che può avere la pratica delle autoproclamazioni e delle sostituzioni di governi veri e di istituzioni esistenti e funzionanti con altre artificiali. Con il laboratorio Venezuela, l’imperialismo sta cercando di porre la sbarra ancora più in alto di quanto aveva fatto con la Libia e con la Siria costruendo all’estero una realtà parallela (quella dei “ribelli libici” o dell’”osservatorio libero siriano”).

Nel caso del Venezuela, si è dato corso a una duplice farsa: all’estero, con finte ambasciate e un finto Tribunal Supremo de Justicia “in esilio”, impiantato in Colombia da malfattori autonominatesi magistrati, e che proprio in questi giorni è tornato a farsi sentire per supportare il sabotaggio elettorale. All’interno del paese, con il burattino dell’imperialismo e il suo “governo di Narnia” 2.0.

Una farsa che oggi riguarda il Venezuela, ma domani potrebbe allargarsi ad altri continenti, nelle attuali condizioni di scontro tra chi vuole costruire un mondo multicentrico e multipolare e quanti seguono il modello nordamericano. Un modello che anche il nuovo presidente Joe Biden vorrà rinnovare proseguendo nello schema egemonico che ha come motore il complesso militare-industriale. E allora cosa succederebbe se l’imperialismo egemone cominciasse a dire che in un determinato paese occidentale “non ci sono le garanzie” per votare secondo le regole di quello stato?

È quanto va dicendo la destra golpista rappresentata da Guaidó, il quale ancora oggi campeggiava a tutta pagina di un giornale italiano a grande tiratura in una intervista “esclusiva”. Più che un’intervista, una sequela di affermazioni pretestuose graziosamente spalmate sulla pagina da un’intervistatrice compiacente. Ne esce il quadro di un paese in preda al terrore imposto da un “dittatore sanguinario” che gli eroici cowboy liberatori stanno per deferire alla Corte Penale Europea, o che magari lasceranno – questo il sottinteso – nelle mani del “governo di transizione” che i gringos presto installeranno in Venezuela secondo il modello libico. Guaidó, la cui autoproclamazione decade platealmente con il rinnovo del nuovo parlamento, che si installa il prossimo 5 gennaio, ora aspetta l’osso da Biden, il cui gabinetto composto in maggioranza da uomini e donne agli ordini del complesso militare-industriale, lo fa ben sperare. Dagli Stati Uniti, Elliott Abrams raccomanda di prolungarne il periodo, così come intendeva fare l’Unione Europea, imponendo al Venezuela di soprassedere alla propria costituzione per far spazio al burattino autoproclamato. E così come chiede la Conferenza Episcopale venezuelana, sempre pronta a benedire i golpisti. E, intanto, l’autoproclamato, usa il denaro rubato al popolo e quello elargitogli dai “donatori” occidentali, per organizzare una nuova farsa totalmente illegale: quella di una presunta consultazione popolare, tra il 7 e il 12 dicembre, per “legittimare” il sabotaggio del voto in Venezuela.

Al contrario, guardare al sistema elettorale, alle procedure di voto, alla costruzione dell’appuntamento con le urne, alla preparazione tecnica prima, durante e dopo la votazione, sarebbe un’ottima chiave per comprendere il paese. Il voto, in Venezuela, è un processo “integrale”. Riguarda l’economia, perché, tra una elezione e l’altra, vi sono fabbriche di operai che costruiscono, mantengono, custodiscono e trasportano a destinazione le macchinette elettroniche e tutto il materiale per i seggi. Riguarda la ricerca tecnologica nell’aggiornamento dei software. Dopo le violenze della destra che ha tentato a tutti i costi di impedire lo svolgimento del voto per l’Assemblea Nazionale Costituente, sono state distrutte molte macchinette elettorali e altrettanti dispositivi, e molti chavisti hanno anche rischiato di perdere la vita. Quella è stata, però, anche l’occasione per sviluppare un sistema ancora più inattaccabile e con tecnologia informatica prodotta in Venezuela, con il supporto della Cina. Allo stesso modo, si sono dotate le macchine di ulteriore autonomia per far fronte agli eventuali sabotaggi elettrici. In Venezuela, non solo il risultato del voto si ha dopo qualche ora, ma chi vota riceve anche una ricevuta, la cui copia viene messa in un’urna, che consente di verificare la corrispondenza con il voto elettronico. Un controllo che viene fatto su un campione di oltre 50% delle schede scrutinate, a comprova dell’esistenza di una completa garanzia. Il voto è anche cultura e memoria storica, com’è costume della rivoluzione bolivariana. In una fabbrica che produce i macchinari elettorali, nei dintorni di Caracas, abbiamo visitato un suggestivo museo che racconta questo processo “integrale” come autopromozione di un popolo deciso a essere libero. Un messaggio raccolto dalle altre parti del continente dove il vento del socialismo non è ancora arrivato, e dove i settori popolari chiedono a gran voce un’Assemblea Nazionale Costituente. Un messaggio che può fornire suggerimenti persino in paesi come l’Italia, dove la necessaria critica della democrazia borghese è naufragata in una parodia di agorà virtuale, proposta un tempo dal Movimento 5 Stelle, ma senza respiro di classe.

Quello del 6 di dicembre, in Venezuela, è dunque un voto per sfrattare una banda di malfattori che si è dedicata al furto delle risorse pubbliche e alla destabilizzazione golpista, con il supporto delle grandi istituzioni internazionali.

I partiti della destra che partecipano alle elezioni, vogliono trasformare il voto in “un plebiscito contro Maduro”. “Accetto la sfida” – ha detto il presidente, annunciando che, se vince la destra, si dimetterà. Ma se la rivoluzione bolivariana riesce a passare anche attraverso questo nuovo collo di bottiglia, si entrerà in una nuova fase di transizione nella quale anche la dialettica parlamentare non più determinata dalle ingerenze esterne, potrà dedicarsi con meno affanno ad affrontare i gravi problemi provocati all’economia dal feroce blocco economico-finanziario. E potrà dedicarsi, anche, alla rimessa in marcia delle alleanze solidali sud-sud, di segno totalmente diverso a quelle imposte alle classi popolari europee dal sistema NATO e dal quello dell’Unione Europea.

Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei, recita un vecchio detto popolare. Se ne dovrebbero ricordare quei parlamentari e senatori che, in modo “bipartisan”, sia in Italia che in Francia, danno lezioni di “democrazia”, ma sono pronti a sostenere nuovamente un ladrone autoproclamato che nessuno ha eletto, ricevuto in una conferenza virtuale anche dal senato francese. Contro di loro, prosegue la mobilitazione della Rete europea di solidarietà con la rivoluzione bolivariana.

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