La questione del Potere in America Latina

Potreste sorprendervi del fatto che scelga di parlare di questo tema.

Un fatto molto significativo delle scienze sociali in America Latina negli ultimi anni è la scomparsa di una serie di temi dall’agenda di lavoro che, invece, ne erano il perno centrale durante la fase più critica e creativa, e cioè a cavallo degli anni 60 e 70.

Oggi, temi come l’imperialismo, la dipendenza, la lotta di classe, la rivoluzione, il futuro del capitalismo – sui quali si discuteva e si studiava molto prima della grande ondata neoliberale che si è abbattuta su di noi dalla fine degli anni ’70 e che ancora persiste – sono scomparsi dall’agenda, hanno cessato di essere oggetto di indagine e motivo di dibattito.

Le cose, però, stanno cambiando. Come infatti afferma -a ragione- Roberto Fernàndez Retamar, siamo stati autorizzati a riprendere a parlare di imperialismo grazie alla pubblicazione di Impero, e parlo senza alcuna esagerazione drammatica. Prima della pubblicazione, nel 2000, del libro di Michael Hardt e Tony Negri, chiunque osasse nominare il tema veniva considerato un folle, un matto fuggito da un manicomio nel quale avrebbe dovuto essere riportato. D’altronde a chi poteva mai interessare parlare di impero, o meglio di imperialismo, quando erano sulla cresta dell’onda quelle teorie che raccontavano della fine della storia e del trionfo del mercato e della globalizzazione!!  Nonostante l’interminabile sequela di errori contenuti nel libro, gli va riconosciuto il merito – quasi l’unico merito che gli riconosco- di aver reso possibile la riapertura della discussione sul tema in America Latina. Ed è –lo riconosco- un contributo molto positivo.

Ma – potreste chiedermi – perché mai discutere del Potere?

Per due ragioni: la prima, perché non esiste alcun dibattito su questo tema nonostante la sua fondamentale rilevanza e –la seconda- per essere in grado di risolvere da sinistra la crisi che sta affrontando il neoliberismo, dobbiamo necessariamente discutere del Potere. Di come si conquista, di come si mantiene e di come si perde, come già consigliava 5 secoli fa Machiavelli.

Non è un caso che proprio mentre il progetto neoliberale si avvia alla crisi, abbiamo rinunciato a discutere sul tema, anzi: in realtà siamo sommersi dalla proliferazione di teorie che riguardano il potere, ma queste si concentrano sulla sua presunta irrilevanza. La più netta di queste teorie si trova negli scritti di Jhon Holloway, autore irlandese che vive da molti anni in Messico, il cui libro si intitola Come cambiare il mondo senza conquistare il potere, e nel quale l’autore sviluppa una dettagliata argomentazione sul perché è necessario espungere il tema del Potere dai dibattiti delle forze di sinistra. A parere suo, la storia del secolo ventesimo insegna che quelli che hanno sognato di cambiare il mondo attraverso la conquista del potere hanno fallito. Non sto semplificando, è che davvero l’autore non dice niente più di questo. Non riesce a trovare nemmeno una piccola differenza tra la rivoluzione russa del 1917, la rivoluzione cinese del 1949, quella cubana del 1959 o la sandinista del 79; per lui tutte sono rivoluzioni sono la stessa cosa, e tutte terminarono con un fallimento. C’è da dire, al riguardo, che la differenza principale tra vittoria e fallimento dipende esclusivamente dal proprio orizzonte interpretativo.

Non che abbia dubbi nelle buone intenzioni di Holloway. Sarà certamente un intellettuale che lavora con passione per l’avvento della società comunista, il tempo libero, l’emancipazione dalla schiavitù del lavoro e tutto il resto…  eppure sarebbe da approfondire come –nonostante le buone intenzioni- il suo libro contribuì obiettivamente a rinforzare gli interessi delle forze reazionarie contribuendo ad espungere dall’ agenda dei movimenti popolari, dei partiti politici e delle forze sociali, un tema di fondamentale importanza qual è quello del potere; rendendo -in questo modo- un servizio di incalcolabile utilità per la classe dominante.

Permettetemi di approfondire questa ultima affermazione e rendervi –così- evidente di come non si tratti di una mera discussione accademica, bensì della cronaca di fatto storico che ha avuto effetti reali:

Il libro di Holloway è stato scritto in Messico eppure –curiosamente- viene pubblicato prima in Argentina dove esercita un’enorme influenza sull’opinione pubblica durante la grande crisi politica ed economica degli anni 2001/2002. Fu letto e discusso ampliamente tra i movimenti popolari e – dato l’infelice momento storico in cui iniziò a circolare – i suoi assunti cominciarono ad essere considerati come una vera e propria alternativa di sinistra – però più praticabile, possibile- utile a sostenere il conseguimento di una vittoria di cruciale importanza alle successive elezioni per l’elezione del Capo del Governo della città di Buenos Aires. Se la sinistra avesse conquistato Buenos Aires –nonostante ci sia da specificare che l’Argentina è molto di più, e non può certo essere identificata nella sua capitale- avrebbe potuto provocare un effetto domino enorme nelle altre elezioni provinciali. Avevamo un candidato, Luis Zamora, che era nella posizione ideale per guidare un ampio fronte di sinistra e centrosinistra, chiaramente di orientamento anti-neoliberale. Eppure, da quando il libro di Holloway finì tra le sue mani, tutto cambiò.

Questo mi ricorda una citazione di Hamlet Lima Quintana, secondo la quale i libri non cambiano il mondo perché il mondo lo cambiano gli uomini e le donne. Certo, ma è anche vero che i libri cambiano quegli uomini e quelle donne a cui, poi, tocca di cambiare il mondo!

E la lettura di questo libro convinse questo candidato dell’inutilità di presentarsi alle elezioni, nonché dell’opportunità di desistere da ogni tentativo di conquistare alcun potere, compreso quello per cui avrebbe dovuto concorrere a Buenos Aires: se il potere e l’ossessione per la sua conquista hanno prodotti tanti fallimenti, che senso avrebbe replicare tali formule?

Non vi sto parlando di una preoccupazione da eruditi, ma di un vero e proprio problema politico: reazioni come quelle di Zamora si insinuano anche in altri luoghi –potenzialmente interessanti- in America Latina, ed è da qui che viene la necessità di impiantare un dibattito che non sia solo teorico, ma teorico e pratico allo stesso tempo, sul Potere.

Affrontare il tema del potere.

Come va affrontato questo tema? Prima di tutto è necessario evitare qualsiasi discussione meramente astratta, non ha senso che discutiamo di Potere come se fosse un’entità metafisica: dobbiamo discuterne inquadrando il tema a partire dalla società nella quale viviamo, che in America Latina -con qualche onorevole eccezione- è una società capitalista, tra l’altro caratterizzata da ingiustizie feroci che appaiono ineradicabili che trasformano le donne, gli uomini e l’ambiente in merce.

E’ da questa cornice che deve partire il ragionamento, per poter avanzare in qualche direzione.

Il punto di partenza fondamentale, quindi, è identificare in quale tipo storico di società si inscrive il discorso sul Potere, e questo tipo storico ha un nome: capitalismo. Il principale errore dei libri di Holloway e Negri è appunto questo: non lo nominano mai. Non tengono in alcun conto le conseguenze che derivano dalle loro riflessioni –in concreto- nel quadro di uno o di un altro tipo di società.

E la società capitalista, come sapete, è strutturalmente divisa in classe sfruttatrice ed espropriatrice che si contrappone ad un ampio fronte sociale di sfruttati e oppressi, con –in aggiunta- una massa crescente di chi non può nemmeno essere sfruttato e che viene espulso dal sistema. Le classi dominanti hanno istituito questo ordine sociale, che consacra i privilegi della minoranza proprietaria e che – attraverso una complessa catena di intermediari – consegna nelle mani dei capitalisti il controllo dell’economia, della politica, della cultura ed in pratica di tutti i settori della vita sociale.

Questo ordine che garantisce il dominio a questo settore minoritario, a volte assume sembianze democratiche: in questo modo – occultati efficacemente i meccanismi di sfruttamento ed oppressione- si proietta una falsa immagine di consenso molto ampio intorno all’ordine sociale vigente, consacrato – a parere dei beneficiari – nell’incondizionato rispetto che garantisce alle libertà individuali.

Le classi dominate, però, hanno risposto a questo processo di istituzione dell’ordine classista con varie forme di lotta -a volte pacifica, a volte violenta – distinte le une dalle altre quanto sono le trame della Storia e come lo sono i paesi in cui si è tentato di arrivare alla conquista del Potere. C’è stata la via istituzionale, come fu il caso di Salvatore Allende in Cile nel 1970, o il più recente di Lula in Brasile nel 2002; e la via dell’insurrezione, come è stato per il movimento 26 Julio di Cuba nel ‘59. In sintesi: abbiamo differenti vie di accesso al potere.

Il nucleo centrale di tutte queste lotte è costituito dal confronto che si svolge tra la classe dominante -che pretende di istituire un ordine capitalista- e le classi dominate, che cercano di sovvertire questo ordine. E’ questo il nucleo centrale di ogni discussione sul Potere.

Non dobbiamo trascurare -come altro presupposto- che l’analisi marxista della conquista del Potere e della costruzione di un nuovo ordine sociale è funzionale alla costituzione di una società senza classi, dopo la quale lo Stato come istituzione di dominio politico, come istituzione di dominazione politica per eccellenza, si estingue. MI sembra giusto precisare che non è certo di questo che ciarlano Holloway e i suoi seguaci.

Dispositivi di rafforzamento della società di classi.

L’altra questione che dovremmo porci riguarda i meccanismi mediante i quali le classi dominanti hanno impedito la sovversione dell’ordine sociale, palesemente ingiusto e sfruttatore. Ossia, come è stato possibile mantenere l’obbedienza dei grandi settori maggioritari della popolazione che vivono in condizione di povertà e oppressione di ogni tipo? Com’è possibile che uomini e donne -nel corso del tempo- hanno accettato, con maggiore o minore rassegnazione o contestazione, l’esistenza di una società di classi tanto ingiusta quanto quella in cui viviamo?

Emergono vari fattori. Anche se quelli che andrò ad elencare non hanno alcuna pretesa di esaustività, credo che permetteranno di illustrarne alcuni aspetti fondamentali:

Primo: la sopravvivenza di un ancestrale abitudine all’obbedienza delle classi subalterne. A questo proposito dobbiamo richiamare un concetto esiziale: mi riferisco all’ esistenza di meccanismi di disciplinamento sociale, di manipolazione ideologica, di controllo delle coscienze, i quali fanno in modo che la gente ammetta come una condizione di normalità quelle situazioni che mai -in nessun modo- dovrebbero essere considerate come tali. Per esempio l’estrema povertà, l‘ indigenza e le esclusioni di tutti i tipi.

Secondo: il ruolo dell‘ ideologia dominante. Ruolo assolutamente cruciale, artefice principale del fatto che le classi dominate non percepiscano -tanto meno comprendano- quale sia la vera natura del proprio ruolo nell’ordine sociale. A questo scopo esistono tutta una serie di grandi ideologie giustificatrici dell’ordine sociale, la maggior parte delle quali -nonostante la loro vetustà- continuano ad esercitare i loro effetti ancora oggi. Quella che deriva, ad esempio, da una certa lettura della cosmovisione cristiana -la chiamano visione sacerdotale, propria della chiesa gerarchica e burocratica -ed opposta alla visione profetica alla base della teoria della liberazione- che coltiva l’idea del mondo come una valle di lacrime da attraversare nella maniera più serena e rassegnata possibile, perché così sarà benvenuto nel regno dei cieli. A partire dalla promessa della vita eterna nell’Altro Mondo, si offre una legittimazione alle disuguaglianze di Questo Mondo. Od anche nel caso dell’induismo ed il ruolo estremamente conservatore della dottrina della reincarnazione, il cui precetto fondamentale è la possibilità di reincarnarsi in un essere superiore, ma solo attraverso l’accettazione del destino che ci è toccato in questa vita.

Come potete osservare, esistono – e sono esistiti – tutta una serie di dispositivi ideologici i quali, nel corso del tempo, hanno impedito che le classi dominate percepissero la situazione (è proprio a questo proposito che Marx definì, causticamente, la religione come l’oppio dei popoli!). Ai giorni nostri, in questo mondo più secolarizzato dominato dal capitalismo, quello che impera è un’ideologia la quale – pur prescindendo dalla religione- ha lo stesso fine di giustificare la miserabile esistenza di una società di classi.

Una società dove l’illusione della libertà individuale è ancorata al feticismo della merce, dove l’ opacità dei meccanismi di espropriazione classista nasconde la sua dipendenza dallo sfruttamento, deve necessariamente inventarsi nuovi apparati e strategie di controllo ideologico. Si fa perno sulla auto-colpevolezza delle classi popolari: se i poveri sono poveri e non riescono a prosperare in una società aperta come quella capitalista -dove chiunque può diventare Bill Gates- sicuramente sarà dovuto ai loro vizi, ai disordini dei loro appetiti, alla loro poca voglia di lavorare, alla loro poca intelligenza, la dipendenza dall’alcol o dal gioco d’azzardo, od anche ai disordini della loro vita privata. Questo meccanismo ideologico ha lo scopo di rendere innocente il capitalismo, di sollevarlo da qualsiasi responsabilità nella produzione della povertà.

Ci sono molti studi, molto interessanti, che dimostrano come tale ideologia autoaccusatoria penetrò nelle classi popolari sin dall’inizio della Rivoluzione Industriale: “sono libero qui, e se non trionfo la colpa non è della società bensì mia” ed in nessun Paese è penetrata più a fondo che negli Stati Uniti.

L‘assioma del sogno americano è – infatti – l’assunto che in quel paese chiunque può arrivare ad essere un milionario perché una società aperta, libera dai limiti ereditati dal denso passato pre-capitalista e feudale dell’Europa. Pertanto chi non riesce ad essere Bill Gates, è solo perché non ne ha il talento necessario, o perché non lavora a sufficienza e perciò dimostra di essere solo un fallito incapace di cogliere le opportunità offerte dalla società capitalista! Questi sono solo alcuni dei potenti ed efficaci fondamenti ideologici di questo nostro ordine disuguale ed ingiusto.

Ricapitolando: abbiamo individuato due gruppi di dispositivi di potere che spiegano la sottomissione “volontaria” ad un ordine sociale ingiusto: la tradizione ancestrale di sottomissione e il ruolo rafforzatore di certa ideologia, religiosa o secolare. Tutti, però, sappiamo che esiste un terzo fattore a sostenere in maniera molto più visibile l’ordine capitalista: la repressione.

La repressione si applica in tutte le sfere della vita sociale, con maggiore o minore sottigliezza, con un duplice obiettivo: reprimere chi si ribella contro questo status-quo e –d’altra parte- mostrare a tutti gli altri quali rischi comporta qualsiasi tentativo di cospirare contro il sistema. La repressione è -ad un tempo- castigo ed esempio. Non è necessario soffermarsi ulteriormente a spiegare il ruolo della repressione e della violenza di Stato, la nostra storia il nostro tempo sono pieni di esempi al riguardo!

Quello che è e quello che non è la conquista del potere.

Fermo quanto detto sin’ora, che significa –dunque- conquistare il potere?

Cominciamo dallo scartare tre risposte insoddisfacenti.

La prima, che pretende equiparare la conquista del potere con la salita al Governo. Tale concezione deriva dalla caricatura degli insegnamenti di Lenin al riguardo: se si conquistano le posizioni più alte dello Stato, allora si è conquistato il potere. Lenin non disse mai questo, che è solo il frutto di una pessima interpretazione della sua opera teorica e pratica. Il rivoluzionario russo non sostenne mai una tesi del genere, ma ahimè!, morendo relativamente giovane non ha potuto difendersi dalle interpretazioni che ne deformarono il pensiero fino a renderlo irriconoscibile. Per Lenin conquistare il governo era solo una componente del percorso di conquista del potere; senza dubbio importante, ma certo non l’unica. La sua visione era molto più ampia e complessa.

Seconda risposta insoddisfacente, secondo errore ed altra caricatura, però in questo caso di Antonio Gramsci: conquistare il potere equivale a conquistare la società civile. Tale assunto è andato di moda in maniera straordinaria in America Latina alla fine degli anni ‘70 e durante gli anni ‘80. In Messico, per esempio (vivevo nel paese all’epoca), le indicazioni erano di mettere da parte l’idea di costruire un grande movimento sociale, o di creare un organizzazione politica nazionale, o di lottare per le elezioni, e concentrarsi invece nel conquistare i differenti gangli della società civile: conquistare la UNAM, conquistare il Politecnico, prendere un sindacato qui, un’associazione regionale lì, fondare un giornale, penetrare nelle strutture della chiesa, etc. etc…nella errata convinzione che a questo sarebbe conseguita la conquista del Potere, appunto. Quest’idea, grezza caricatura degli insegnamenti gramsciani, è stata impietosamente rifiutata dalla storia. Non solo in Messico, ma si dimostrò totalmente falsa anche nel paese dove germinò: in Italia. Il PCI, in un momento determinato della sua storia, verso la metà degli anni 70, riuscì a conseguire una straordinaria penetrazione nella società civile, e ciò nonostante fallì miseramente nella magia di trasformare questo esito nella conquista del Potere, e proprio a causa di una lettura molto deficitaria dell’opera di Gramsci.

La terza risposta insoddisfacente sostiene che conquistare il potere equivalga a controllare una regione, un territorio, una città. E mi riferisco a tutta questa nuova serie di fenomeni -di questi nuovi Sindaci- che in alcune città adottano una politica differente da quella che portano avanti i Governi nazionali, e che assomigliano alle caracoles zapatiste. Vorrei rispondere a questi signori che, nel mondo di oggi -e non per mia scelta- il potere esprime il proprio potenziale nella cornice di quello che si usa chiamare Stato-Nazione,  ben oltre qualsiasi discorso alla moda come quello di Negri ed Hardt -per esempio- i quali lo inseriscono nelle categorie dei morti. La mera somma dei Sindaci e dei Governi provinciali -pur importanti che siano!- non modifica nemmeno di un punto l’equazione nazionale – tanto meno globale – del Potere.

Per avere una visione chiara di quello che significa conquistare il Potere è necessario identificare le tre dimensioni cruciali che costituiscono lo Stato: 1) sintesi delle relazioni di forza esistenti in un determinato momento di sviluppo sociale e politico; 2)apparato amministrativo, politico, burocratico, legale, eccetera, che dispone, come caratteristica fondamentale, del monopolio dell’uso della forza; 3) luogo in cui si sviluppano i grandi conflitti sociali.

Perché insisto su questo?

Perché, se abbiamo appreso qualcosa dagli ultimi 100 anni della storia del capitalismo, è proprio il fatto che questo non si sostiene, né si riproduce, esclusivamente sulla base dei meccanismi di mercato; che l’esistenza di una struttura di sfruttamento richiede necessariamente l’esistenza di una struttura di dominazione; e che questa struttura deve essere nazionale, per lo meno per adesso. Non sto dicendo che nel futuro, entro i prossimi 100 anni, questa struttura di dominazione non potrebbe diventare mondiale. Dico solo che dobbiamo prenderne atto, data la nostra esperienza contemporanea sul fatto che il processo di riproduzione del capitalismo richiede un insieme di apparati militari, politici, legali, e burocratici che abbiano il fine di preservare lo status quo, e generare quello che Marx ed Angels chiamavano le condizioni esterne del processo di accumulazione del capitale.

Congelare o ridurre i salari, dettare una legislazione favorevole al capitale, adottare le politiche commerciali più favorevoli ai monopòli, neutralizzare il potere dei sindacati e mettere fuori legge le organizzazioni di sinistra, non sono cose che possono essere decise da Wall Street o dalla City londinese. Gli accordi che si fanno nella cupola del capitalismo mondiale esigono, per essere operativi, l’introduzione di modifiche negli apparati istituzionali nazionali. Diminuire il valore della forza del lavoro in Argentina o in Messico non è cosa che si può decidere a Davos senza un intervento delle autorità argentine e messicane. Privatizzare le imprese petroliere dell’America Latina suppone il concorso decisivo dei governi della regione, che dovranno licenziare leggi appropriate, smantellare agenzie governative, licenziare lavoratori, reprimere i manifestanti e proteggere i proprietari. Queste cose non può farle Bush dallo studio ovale. Certo! Lui può mettere pressione, sollecitare, esprimere influenza, esigere… ma l’intervento dello Stato continua ad essere decisivo. E lo sarà per ancora molto, molto tempo. Pertanto, mi pare che non si possa affrontare il tema del Potere, quantomeno dalla prospettiva del materialismo storico, eludendo la questione dello Stato-nazione.

Chi preferisce ignorare questo aspetto, si costringe nell’ interminabile cammino della fantasia e contribuirà poco o niente a cambiare il mondo in cui viviamo.

A partire da queste considerazioni, possiamo sostenere come la conquista del Potere da parte delle classi dominate significhi essenzialmente tre cose:

In primo luogo, è necessaria la costituzione di una nuova relazione di forza nella quale le classi dominate si convertano in classe dominanti, come spiegano Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista. Il che necessita della mobilitazione e organizzazione democratica di un vasto campo popolare che sia in grado di rovesciare la classe sfruttatrice e sfrattarla dalle posizioni di potere che occupa. Non mi soffermerò su questo, che considero un fatto arcinoto: nessuna conquista del potere è concepibile senza una densa e sistematica costruzione dal basso, basata sulla mobilizzazione e sulla lotta delle forze popolari di tutti i tipi e articolata in un’organizzazione politica capace di sintetizzare la complessità e il particolarismo dell’ampio conglomerato di ribelli.

In secondo luogo, che questo processo di costituzione di una nuova relazione di forze si rifletta nell’ ambito fondamentale dello Stato, non essendo sufficiente una mutazione nella relazione di forza in astratto, o esclusivamente nell’ambito delle lotte sociali.

Perché è necessario il fronte istituzionale? Perché solo in tale maniera è possibile costruire quel contesto istituzionale, legale, amministrativo ed anche repressivo, necessario per cristallizzare la nuova situazione e garantire la relativa irreversibilità del nuovo stato di cose. Al contrario, in assenza di ciò, tale nuova relazione di forze potrà essere facilmente rovesciata e riportata al precedente punto di equilibrio.

A questo proposito il caso dell’esperienza cubana è didascalico e rappresentativo: Voi avete dichiarato Cuba una società socialista, ed avete una Costituzione che lo dichiara e dei meccanismi istituzionali che servono a consolidare questa situazione, che cristallizzano quella relazione di forze maturata nella società cubana in un momento determinato del suo sviluppo storico. Quindi, la vostra rivoluzione, oltre a fondarsi sulla legittimità popolare esprime un determinato sistema di legalità e legittimità formale, che deriva dalla sua Costituzione.

Questo aspetto andrebbe sviluppato, perché uno dei seri difetti che hanno afflitto con frequenza il pensiero marxista, è proprio il fatto di aver sottostimato gli aspetti istituzionali e legali. Un nuovo ordine non si crea solo sulla base dei rapporti di forza che si stabilizzano dal punto di vista sociale, ma deve trasferire quella relazione di forza al livello della struttura istituzionale, che Gramsci definisce super struttura complessa, creando –in tal modo- un ordine legale che metta al sicuro la trasformazione rivoluzionaria, minimizzando il rischio di una regressione allo status quo ante.

Ricapitolando : se il primo elemento della conquista del potere è da ricercare nella costituzione di una nuova correlazione di forza, il secondo la sua cristallizzazione in un ambito statuale, il terzo elemento sarà la stabile instaurazione di un nuovo ordine economico e sociale, in grado di disarticolare le fondamenta della vecchia società capitalista mediante la socializzazione dell’economia, della politica e della cultura  che possa dare inizio a una effettiva  transizione verso l’autogoverno della produzione. Una società senza classi e senza Stato.

In Conclusione: prima bisogna aver costituito nuove relazioni di forza ed aver conquistato il potere statuale, e successivamente si dà inizio alla costruzione di una nuova società.

Democrazia e progetto socialista.

Nella costruzione di questa nuova società si stabilirà un ordine politico che -come tutti, del resto- si caratterizzerà per essere democratico e dittatoriale allo stesso tempo.

Democratico dal punto di vista di questo nuovo ordine politico, nato dall’ insorgenza delle classi popolari, il quale però -a sua volta- non potrà che acquisire i contorni di una dittatura per gli affiliati del vecchio regime. E questo mi sembra un tema sul quale non possono esserci equivoci.

Qualsiasi democrazia – e una democrazia socialista non fa eccezione- è democrazia per alcuni ma non per altri. Lo stesso che accade oggi con le democrazie capitaliste.

A questo proposito, nel mio libro Nel buco di Minerva, propongo di abbandonare espressioni come quella di democrazia capitalista o democrazia borghese perché alimentano il malinteso per cui questo tipo di regime politico sia caratterizzato principalmente dall’elemento democratico, con l’accessorio del capitalismo. La storia – invece – ci ha dimostrato inequivocabilmente il contrario: l’elemento fondamentale di tutte quelle che chiamiamo democrazia capitaliste – in Europa, negli Stati Uniti o in America Latina- è il capitalismo e le sue necessità; la democrazia è – al contrario – un mero rituale periodico che non ha grandi conseguenze pratiche. Usando la locuzione capitalismo democratico -come proposta nel mio libro – voglio sottolineare esattamente questa realtà storica.

Per cui – tornando al tema – il capitalismo democratico è caratterizzato dalla democrazia per le classi alleate della dominazione capitalista e dittatura per tutte le altre. Facciamo alcuni esempi:

Iniziamo con la Colombia. Quando in Colombia le forze popolari tentarono di organizzare una alternativa politica che rompesse il sistema arcaico, anacronistico ed ottocentesco del bipartitismo liberale/conservatore – vera e propria reliquia del secolo decimonono – e venne costituita la Uniòn Patriotica, in meno di un anno la tanto esaltata democrazia colombiana sterminò più di 3000 dirigenti del nuovo gruppo politico.

Cosa dimostra questo? Che qualsiasi capitalismo democratico applica alcune misure dittatoriali per gli avversari del regime, e che le libertà che garantisce sono solo quelle che si inscrivono nel perimetro del sistema stabilito.

Perchè non incontriamo mai – in qualsiasi tavola rotonda o dibattito negli Stati Uniti, compresi quelli della televisione pubblica nord americana, un pensatore marxista che dibatta con i pensatori liberali o conservatori? Perché per i marxisti quelle libertà democratiche garantite agli affiliati del sistema non esistono! Come mai – secondo voi- Chomsky non è ancora mai riuscito a pubblicare un sproprio scritto sul New York Times? [2] Proprio perché le sue riflessioni oltrepassano il confine come stabilito! DI conseguenza per lui avremo dittatura, censura, esclusione. Tutti gli altri possono esprimere opinioni, ma Chomsky no.

In uno dei suoi libri racconta un aneddoto, riferendosi ai dibattiti sulla situazione del Nicaragua che si svolgevano nei democratici Stati Uniti: un rampollo dell’establishment mediatico si vanagloria va perché nel suo giornale… “diamo grande libertà intellettuale su tema del sandinismo: liquidarlo con le armi o con l’asfissia economica”.

Altro esempio: Cile. Il dibattito si concentrava esclusivamente sul come terminare il governo di Allende: era preferibile lo strangolamento economico, inviar militari, inventare una guerra fittizia con i peruviani, etc etc… Sui modi di liquidare il Cile di Allende abbiamo avuto – certamente! – un ampio dibattito, ma non ha mai riguardato alternative sostanziali.

Conoscete i termini del dibattito su Cuba? Se rinforzare le misure del bloqueo oppure mettere in piedi qualche altra operazione di carattere militare. Al di fuori di tali termini, non esiste alcun dibattito.

Quindi, persino nei regimi suppostamente democratici – come questi del capitalismo democratico- abbiamo democrazia per alcuni e dittatura per altri!

Un sociologo portoghese molto importante, Boaventura de Sousa Santos, ha usato un’espressione molto felice per descrivere il funzionamento dei capitalismi democratici: per i poveri Hobbes: lo stato autoritario, terribile, repressivo. Per i ricchi Locke: tolleranza, consenso e governo amichevole. E’ esattamente così che funziona.

E dunque, in questo processo di conquista del Potere da parte delle classi popolari incontreremo la stessa situazione: democrazia per alcuni e dittatura per altri. Su questo punto, niente potrà essere peggio che seguire il consiglio dei zapatisti e tentare la strada di “una democrazia di tutti per tutti”.

In un certo senso è questa la dittatura del proletariato di cui parla Marx.

Il rafforzamento della democrazia non elimina la necessità di neutralizzare i tentativi di restaurare il vecchio sistema, e pertanto si rendono necessarie misure coercitive da applicarsi ai nemici del nuovo ordine – come accade in qualsiasi modello di produzione. Stando così le cose, cosa dovremmo aspettarci di incontrare sulla strada della conquista del potere da parte delle classi popolari?

Uno dei temi del di cui si discute è il seguente: se –dati questi nuovi tempi democratici- la destra e l’imperialismo si asterranno dall’ applicare metodologie violente per frustrare il progetto di trasformazione. Purtroppo la risposta è negativa. Convincersi del contrario significa fondare il proprio ragionamento su false premesse, la prima delle quali è che i cambi sociali e politici possano essere prodotti senza incontrare alcuna resistenza.  Inoltre, non abbiamo nessuna evidenza storica sul fatto che una classe dominante, o un’alleanza di classi dominanti, abbia mai rinunciato volontariamente al proprio potere, alle proprie ricchezze o ai propri privilegi in seguito ad un processo radicale di trasformazione sociale.

Non si è mai visto nella storia e mai si vedrà che una classe dominante sconfitta, esprimendo una nobiltà d’animo che non gli è mai stata propria, si presenti ai vincitori e dicendo loro: “Bene, molto bene. Abbiamo giocato questa partita e abbiamo perso. Riconosciamo la sconfitta e riconosciamo che ora tocchi a voi farvi carico della conduzione di questo paese”

Violenza e controrivoluzione

Emerge – a questo punto prepotente- il tema della violenza: la violenza reazionaria che si scatena davanti qualsiasi afflato di trasformazione sociale. Ed emerge indipendentemente da quanto democratica e pacifica sia stata la forma della lotta impiegata dalle classi subalterne per conquistare il potere.

In America Latina -come abbiamo ripetuto in numerose occasioni- non è necessaria una rivoluzione per scatenare una contro-rivoluzione. Basta anche una timida minaccia di riforma per dare inizio ad una contro-rivoluzione sanguinaria. Esempi? Allende in Cile.

Allende non aveva un programma comunista, il suo non era un programma radicale come quello della rivoluzione cubana. Era un timido esperimento –sincero ma moderato- di transizione al socialismo, come allo stesso Allende piaceva chiamarlo. Eppure il Cile fu affogato in un fiume di sangue.

Altro esempio: Guatemala 1954.

Quello che il Guatemala voleva portare avanti era una modesta riforma agraria che espropriasse i grandi latifondi (esattamente lo stesso che gli Stati Uniti stavano imponendo –in una maniera ben più radicale- ai coreani ed ai giapponesi alla fine della seconda guerra mondiale), eppure terminò con una occupazione organizzata dalla Cia che durò oltre trenta anni e pose fine all’esperienza riformista guatemalteca.

Lo stesso successe alla Repubblica Dominicana nel 1965: un governo democratico iniziò una serie di modeste riforme, 40.000 militari sbarcarono sull’isola e passarono tre mesi mettendo a ferro e fuoco la regione per abortire proprio quel -seppur modesto- programma di riforme sociali.

Il tema della violenza emerge in ogni discussione sul Potere, ed è ineludibile indipendentemente dalla volontà dei nuovi gruppi dominanti di origine popolare e democratica… Sin da Machiavelli ci si ragiona! Già il teorico fiorentino si domandava: come fare fronte alla violenza degli affiliati al vecchio regime? Come comportarsi di fronte a quella che noi oggi chiamiamo violenza reazionaria, e che non è solo violenza fisica ma include anche il ricatto economico, il terrorismo mediatico nonchè la persecuzione degli oppositori?

Davanti alla reazione violenta di coloro i quali si sentono offesi dallo spoglio dei loro privilegi, della loro ricchezza e del loro potere, cosa dovrebbe fare il nuovo Governo? Offrire cristianamente l’altra guancia? Pentirsi della sfacciataggine e mettere da parte le promesse fatte in nome di un supposto realismo, abbandonando così il progetto di una nuova società?

Questo è, da un certo punto di vista, quello che sta facendo Lula in Brasile. Cinquantadue milioni di voti hanno permesso a Lula di licenziare riforme tali da soddisfare le grandi aspettative che in lui riponevano enormi settori della popolazione brasiliana, eppure – di fronte ai ricatti reazionari che troppo pesavano sia sul PT che sul governo- ha deciso di rallentare la marcia. Così ha nominato come Segretario della Difesa un soggetto di provata fiducia della finanza internazionale. E, per lo stesso motivo, ha nominato come Presidente della Banca Centrale del Brasile uno dei maggiori squali del sistema finanziario internazionale.

Machiavelli direbbe che questa attitudine a pentirsi, ad offrire l’altra guancia nella speranza che in questo modo gli ex padroni abbiano pietà dei poveri riformisti, sia una strada sicura verso una sconfitta schiacciante.

Bisogna abbandonare l’illusoria speranza legata a questa specie di fraterno perdono dei potenti e reagire ingaggiando una battaglia su tutti i fronti: ideologico, economico, politico ed anche militare! Ben coscienti che l’altra alternativa, quella di offrire l’altra guancia, non servirà a risparmiarci un bagno di sangue. La rappresaglia reazionaria ci sarà lo stesso e pertanto non c’è alcuna alternativa: resa o rivoluzione!

Dopo aver costruito nuove relazioni di forza, e dopo averle cristallizzate nelle Istituzioni, queste nuove forze dovranno essere in grado di sottomettere gli affiliati del vecchio regime, i quali ricorreranno a tutte le strategie possibili per riportare le cose allo stato di fatto anteriore. Ed è questo il motivo per cui è necessario lo Stato! Rinunciare al potere, alla ricerca della conquista del potere, equivale a rinunciare al progetto di creare un nuovo ordine sociale, poiché in assenza del controllo istituzionale sarà impossibile fare fronte alla resistenza degli antichi gruppi dominanti.

Osserviamo, di nuovo, il caso di Cuba.

Questo paese era completamente carente di istituzioni destinate alla cura della salute della popolazione. Nel processo rivoluzionario portato avanti da Cuba –invece- il diritto alla salute viene assunto come diritto fondamentale della popolazione, e non si discute!!

IN America Latina questo del diritto alla salute era un contetto assente: la salute è sempre stata considerata una quesitone di fortuna. Bisognava confidare nel buon Dio, essere molto religiosi e pregare di conservare la propria buona salute. Posso raccontare aneddoti personali, di miei familiari con qualche infermità coronarica, gente che appartiene alla piccola borghesia, la cui vita dipende dalla possibilità di comprarsi –settimanalmente- 20.000 dollari di farmaci! Ed è così in Argentina, in Messico, e forse addirittura peggio in Brasile.

E allora, come fare a garantire questo diritto fondamentale a tutta la popolazione? Lo si fa a partire dalla costituzione di un apparato statuale in grado di rispondere alla necessità delle persone. Tutto quello che riguarda questo ambito -medici, infermieri, farmaci, biotecnologie- viene assunto sotto il controllo statale. Questo non rientra nell’immaginario dell’attivismo incessante della moltitudine di Hardt e Negri.

Dico questo per sottolineare la necessità di creare le condizioni affinchè i semi di questo nuovo ordine possano germogliare, e questo richiede nuove istituzioni e politiche nuove! Se la storia ci insegna qualcosa è che nessuna rivoluzione trionfa utilizzando solo le forme statali pregresse. Questo –in verità- lo disse già Marx, ma vale la pena di ripeterlo un’altra volta: nessuna rivoluzione trionfa se non costruisce un nuovo ordine statuale, una nuova istituzionalità pubblica. In assenza di questo, nessun cambiamento è possibile.

Queste sono alcuni delle tematiche che mi sembrano centrali in una discussione sul Potere, necessaria anche per evitare di cadere nel nihilismo, che finirebbe per ipotecare definitivamente il futuro dei nostri popoli dell’America Latina.

Grazie dell’attenzione.

[1] Conferenza tenuta al Centro de Investigatìon y Desarollo de la Cultura Cubana Juan Marinello in data 6/05/2004
[2] ndr: abbiamo fatto una ricerca sul sito del NYt e -ad oggi- nessun articolo a firma Chomsky su 69 risultati che : solo un paio di interviste, ed il suo nome citato da altri. https://www.nytimes.com/topic/person/noam-chomsky

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