Cuba e il settore privato: ignoranza o malafede?

Negli ultimi giorni, la stampa mainstream occidentale ha pubblicato una serie di articoli fuorvianti sulla riforma del settore privato che verrà implementata a Cuba. Si tratta di mera ignoranza o della solita malafede?

Traduzioni raffazzonate e articoli scritti di fretta della lunghezza di poche righe sono quello che ci viene propinato dalla stampa italiana ed occidentale quando si tratta di riferire le riforme economiche applicate da Cuba. È accaduto numerose volte nella storia, di recente con la riforma del sistema monetario volta ad eliminare il peso convertibile; e lo schema si sta ripetendo in questi giorni con la riforma sulla regolamentazione del settore privato. Noi speriamo sempre che queste sviste avvengano per ignoranza dei giornalisti che firmano questi trafiletti, che magari trovano ostica la lingua spagnola; ma temiamo che si tratti solamente dell’ennesimo tentativo di vendere al pubblico occidentale la storia secondo la quale i Paesi socialisti oramai non sarebbero più socialisti, e che il mondo intero si sarebbe convertito al capitalismo: del resto è quello che tentano di fare da decenni non solo con Cuba, ma anche con altri paesi come Cina e Vietnam.

Prendiamo, a titolo di esempio, un breve articolo comparso su Repubblica il 7 febbraio, dal titolo eloquente: “La svolta di Cuba: via libera alle imprese private”. Nell’articolo, se così si può chiamare un pezzo lungo appena undici righe, si dice ben poco di concreto, ma quella che risalta è una frase attribuita al Lavoro, Marta Elena Feito, che secondo Repubblica avrebbe detto: “Solo una minoranza di industrie resta di Stato”. La testata italiana attribuisce al ministro anche un’altra affermazione, secondo la quale “l’elenco delle industrie autorizzate è passato da 127 a più di 2.000”.

Si tratta di traduzioni assai raffazzonate che sembrano volutamente rendere oscuro il significato di queste frasi, quasi a voler lasciare al lettore l’interpretazione che più gli aggrada, ed instillare il dubbio della conversione di Cuba al capitalismo. La realtà, ci dice invece che il Consiglio dei ministri di Cuba ha eliminato un elenco che in precedenza conteneva le 127 attività economiche approvate per l’esercizio dal settore privato, sostituendolo con un nuovo elenco di 124 attività nelle quali il settore privato non è consentito. La riforma, dunque, consente l’esistenza di un settore privato in oltre 2.000 attività economiche (2.110, per la precisione), ma ciò non significa che il ruolo dello Stato sarà meno preponderante.

Attualmente, per la precisione, sull’isola caraibica già più di 600.000 persone sono impiegate nel settore privato, che però rappresenta solo il 13% dell’occupazione lavorativa del territorio, mentre l’87% dell’occupazione è fornita dallo Stato. L’affermazione “solo una minoranza di industrie resta di Stato” è dunque erronea, ed andrebbe sostituita con “solo una minoranza di industrie (o meglio, di settori economici) resta esclusivamente di Stato”. Ma, ribadiamo ancora, il fatto che il settore privato venga legalizzato non significa che questo avrà la meglio su quello pubblico, visto che la riforma è volta soprattutto ad aumentare l’occupazione, e non a sostituire i posti di lavoro pubblici con quelli privati.

La stampa occidentale dimentica poi di riportare altre notizie che andrebbero a contraddire palesemente la propria versione. Ad esempio, viene omesso il fatto che il Consiglio dei ministri ha approvato dei provvedimenti per inasprire le multe contro coloro che non rispettano i limiti dei prezzi fissati dal governo e che non mettono in commercio mercanzie destinate alla vendita alla popolazione, tutti elementi che dimostrano come l’economia cubana resti ancora fortemente centralizzata, pianificata e sotto il controllo del governo.

Le altre omissioni riguardano i settori economici che invece resteranno unicamente prerogativa dello Stato, ovvero tutti quelli strategicamente più importanti. I provvedimenti del Consiglio dei ministri impediscono la privatizzazione delle principali risorse naturali e dei settori strategici dell’economia, come “l’estrazione di minerali allo stato solido (carbone e minerali), liquidi (petrolio) o gassosi (gas naturale)”; vietano la costituzione di banche, “fondi comuni di investimento e società ed enti finanziari assimilati (…), attività di gestione di fondi”, assicurazioni sulla vita, pensioni, “attività di pubblica amministrazione”, agenzie immobiliari e turistiche; impediscono la creazione di società di fornitura di acqua, elettricità, gas e vapore, nonché la produzione di “attività di decontaminazione (…) e altri servizi di gestione dei rifiuti”; viene inoltre impedita la produzione e la vendita di aerei, locomotive, automobili, motociclette, carri, carrelli dei supermercati, armi, munizioni, veicoli militari, batterie, compreso il carburante; non viene autorizzata la produzione di fertilizzanti, farmaci, prodotti chimici medicinali, polvere da sparo, prodotti pirotecnici, inclusi detonatori, razzi, fiammiferi e altri esplosivi; infine, non sarà possibile la produzione di “francobolli, marche da bollo, documenti di intestazione, assegni e altri documenti di garanzia, inclusi timbri, timbri in gomma e carta moneta“, nonché “qualsiasi forma che viola le disposizioni della Costituzione della Repubblica di Cuba e la legislazione vigente“.

A ciò, appunto, vanno aggiunte le limitazioni che vengono fornite dalla stessa Costituzione della Repubblica di Cuba, che impedisce, ad esempio, la privatizzazione di fiumi e spiagge. Allo stesso tempo, lo Stato mantiene il monopolio dei media stampati, radiofonici e televisivi, vietando il profitto dalla “stampa di giornali, riviste, tabloid, libri, mappe, atlanti“, nonché da teatri e cinema.

Dovrebbe ora essere chiaro a tutti che Cuba non sta procedendo verso una privatizzazione selvaggia di tutti i settori economici, come vorrebbe farci credere la stampa mainstream. Al contrario, lo Stato resterà l’attore principale dell’economia cubana, mentre il settore privato resterà minoritario e limitato dalle disposizioni del governo, concesso unicamente al fine di assorbire quella forza lavoro che non riesce a trovare spazio nel settore pubblico, garantendo in questo modo un tasso di disoccupazione ancora più basso rispetto all’1.64% registrato nel 2019.

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Giulio Chinappi – World Politics Blog

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