La nuova marcia per il cambiamento politico ad Haiti

Federico Larsen, Internationalisti 360°,

Il governo di Jovenel Moïse sembra destinato a cadere presto. Ma ad Haiti, anche ciò che sembra inevitabile può prendere svolte inaspettate. Da sotto il telaio bruciato di una motocicletta si vedevano solo un paio di gambe, anch’esse carbonizzate, a pochi centimetri dal marciapiede del viale che segna l’inizio del quartiere Delmas, nel sud-ovest di Port-au-Prince.

Alcuni vicini dissero ai giornalisti delle agenzie internazionali che si avvicinavano che l’uomo fu ucciso da un proiettile, e poi il cadavere fu bruciato. Erano le bande di Moïse, aggiunsero. A pochi isolati di distanza, era ancora in corso l’ennesima manifestazione per chiedere le dimissioni del presidente. Un piccolo gruppo si era separato dalla marcia per attaccare con una pioggia di pietre una dozzina di poliziotti pronti a reprimerli. Gli agenti risposero sparando, ferendo molti dei protestanti. L’opposizione era riuscita a portare in piazza un numero inaspettato di persone. Una settimana prima, il 7 febbraio, il mandato del presidente conservatore Jovenel Moïse era scaduto senza nuove elezioni, e il giudice Joseph Mécène Jean Louis, primo nella successione secondo la costituzione, accettava la posizione di “presidente responsabile della transizione separata”. Nonostante morti e pallottole, la marcia per un nuovo cambio di rotta ad Haiti sembra avviata.

Il crimine è politico
“Haiti è un Paese che ha un livello molto basso di criminalità comune. La cultura contadina del è sempre stata molto resistente al crimine. Circa 25 anni fa non si potevano nemmeno avere armi. Ma ci sono livelli molto alti di violenza politica”, spiega Lautaro Rivara, sociologo e giornalista, membro della Brigata di Solidarietà con Haiti Dessalines. “Da alcuni decenni esistono gruppi criminali armati direttamente dal potere politico. È abbastanza comune che senatori, ex senatori, ministri, presidenti o ex presidenti armino i loro gruppi d’assalto, che negli anni sono cresciuti per armi, finanziamenti e potere con un obiettivo molto concreto che è terrorizzare il popolo”. Marie Yolène Gilles, del gruppo di difesa dei diritti umani Fondasyon Je Klere (FJKL), nella dichiarazione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel gennaio 2020 stimò che circa 150 bande criminali sono attive nel Paese. I più importanti hanno sede nei popolosi quartieri della capitale Port-au-Prince, quelli che, allo stesso tempo, costituiscono i distretti elettorali più importanti. Sono frequenti le incursioni di bande armate che in più di un’occasione sfociano in massacri. Ad agosto venti persone furono uccise nel quartiere popolare di Bel-Air e le case dei sopravvissuti furono incendiate, costringendo gli abitanti a allestire un campo di emergenza nella spianata che circonda il palazzo del governo. Il massacro più noto compiuto da bande legate al potere politico avvenne il 13 novembre 2018 nella roccaforte dell’opposizione La Saline. 71 persone furono uccise in quell’occasione, undici donne violentate e 400 case date alle fiamme. Un’inchiesta del governo degli Stati Uniti mesi dopo confermò la presenza di rappresentanti dipartimentali e stretti collaboratori del presidente Moise tra gli “artefici” del massacro. Infatti Fednel Monchery, ex-direttore generale del ministero dell’Interno, e Rigaud Duplan, ex-direttore dipartimentale di Occidente si dimisero per la responsabilità nel massacro. “È molto comune vedere cose difficili da caratterizzare criminalità comune”, spiega Rivara. “Un gruppo di criminali entra in un mercato popoloso, in pieno giorno, spara alla gente a bruciapelo, spara in aria, fa qualcosa di molto appariscente ma non ruba assolutamente nulla. E quindi cìè molto in questo senso”.

Le gang di Moïse
Uno degli uomini più noti in tale intreccio di criminalità organizzata, istituzioni e partiti ad Haiti è Jimmy Chérizier, alias “Barbecue”, ex-agente di polizia coinvolto nei massacri di Grand Ravine nel 2017, La Saline nel 2018 e un’altra a Bel Air nel 2019. Nel giugno 2020 Chérizier creò il “G9 an Fanmi” (G9 e famiglia), alleanza tra gang nella capitale che, secondo analisti e oppositori, di fatto co-governa Haiti. È al G9 che si riferivamo i testimoni che parlarono delle “bande di Moïse” davanti al cadavere carbonizzato a Delmas. I quartieri che parteciparono di più alle proteste antigovernative degli ultimi quattro anni furono generalmente i più colpiti dalle bande. Le azioni repressive e coordinate di tali gruppi illegali divennero più visibili dalla metà del 2018, quando scoppiò lo scandalo per la “sfida Petrocaribe”. Haiti fu inserita nel piano ideato dal governo di Hugo Chavez per facilitare l’accesso dei Paesi del bacino caraibico degli idrocarburi venezuelani. I Paesi membri di Petrocaribe ricevettero enormi quantità di petrolio a prezzi ridotti, condizione che la differenza che ciascun governo risparmiava sul prezzo di mercato fosse investita in programmi di sviluppo sociale. Haiti sottoscrisse l’accordo nel 2007, e in poco più di 10 anni risparmiò 3,8 miliardi di dollari (più di un terzo del PIL attuale) su carburante e prestiti, che però non furono utilizzati per gli scopi previsti dall’accordo. Migliaia di persone scesero in piazza. Le manifestazioni contro corruzione e malgoverno culminarono tra febbraio e giugno 2019 e si intensificarono tra settembre e dicembre per la carenza di carburante e la crisi economica che ne seguiva. Fu nella repressione di queste manifestazioni che si consolidò il connubio tra criminalità e potere politico: decine di persone furono uccise con machete e arma da fuoco in attacchi ai quartieri o nelle manifestazioni anti-corruzione. Un rapporto delle Nazioni Unite documentava 133 morti e 698 casi di violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia e dalle bande legate al governo nelle proteste tenutesi tra 6 luglio 2018 e 10 dicembre 2019. La crisi del 2019 per lo scandalo Petrocaribe si risolse con l’ennesimo cambio di premier e prestito del Fondo Monetario Internazionale per risanare temporaneamente le casse dello Stato. Ma dopo pochi mesi un altro scandalo riportò in piazza diversi quartieri della capitale. Nel gennaio 2020 Moise decise di chiudere il parlamento, poiché a causa dell’instabilità subita alla fine del 2019 le elezioni legislative previste per novembre di quell’anno non furono possibili. Da allora Moise governa per decreto e il parlamento resta chiuso. A seguito delle grandi mobilitazioni di protesta scoppiate nella prima metà del 2020, le bande tornarono in azione. Tra il 23 e il 27 maggio attaccarono i quartieri Font-Rouge, Chancerelles, La Saline, Tokyo e Fort-Dimanche col supporto di agenti di polizia, provocando la morte di 34 persone secondo il Réseau National de Défense des Droits de l’Homme (RNDDH) e la deputata statunitense Maxine Waters. Due settimane dopo, “Barbecue” annunciò la creazione del G9 con un video sui social network.

La fine del tiro alla corda?
La condotta di Moïse, noto come “Nèg banann”, “tizio delle banane” per la sua attività da bananiere, non ebbe ripercussioni sulla scena internazionale. Subito di riflesso ruppe le relazioni col Venezuela, pochi mesi dopo lo scandalo Petrocaribe, riconobbe Juan Guaidó come presidente ad interim allineandosi con la politica di Trump nei Caraibi, consentendogli una certa protezione nonostante gli evidenti crimini commessi contro la vita politica interna. A fine novembre 2020, Haiti fu il primo Paese americano ad aprire un’ambasciata nel Sahara occidentale [1], riconoscendo effettivamente la sovranità marocchina sul territorio come Trump impose pochi giorni prima. Ma il cambio di inquilino alla Casa Bianca, e soprattutto le rivendicazioni dell’opposizione, sempre più diffuse nelle istituzioni statali, costrinsero il presidente a modificare il piano d’azione. A metà 2020 annunciò l’intenzione di riformare la costituzione per dare al Paese una configurazione istituzionale che permetta di affrontare le continue crisi. L’attuale costituzione haitiana è il frutto della breve primavera democratica che il Paese visse dopo la lunga dittatura di François Duvalier, noto come Papa Doc, al potere dal 1956 e poi succeduto dal figlio Jean Claude, soprannominato Baby Doc, fino al 1986. Per contrastare la creazione di una nuova dittatura disastrosa come quelle dei Duvalier, i costituenti haitiani istituirono un complesso sistema istituzionale di pesi e contrappesi, che mescola il tipico presidenzialismo nordamericano con elementi tipici dei sistemi parlamentari europei. Il presidente, così, non è capo del governo ma capo di Stato, e il parlamento deve approvare il primo ministro nominato dal presidente. Un disegno complesso rivelatosi insano davanti gli alti e bassi politici di Haiti: dal ritorno alla democrazia, il Paese ebbe 19 presidenti, di cui solo due terminarono il mandato, e 34 primi ministri, oltre a otto colpi di Stato e tre interventi militari stranieri. La riforma proposta da Moise era giustificata proprio dalla necessità di affrontare tale instabilità da un punto di vista istituzionale. Tuttavia, a due mesi dalla data fissata per il referendum sulla nuova Magna Carta (meccanismo nemmeno previsto dall’attuale costituzione), ancora si lavora in segreto alla bozza della riforma. Il calendario elettorale presentato da Moise, inoltre, fu redatto da un Consiglio elettorale provvisorio nominato per decreto dal presidente, senza riconoscimento dall’opposizione, e prevede lo svolgimento delle elezioni generali il 19 settembre. Dopo aver annunciato la riforma costituzionale, Moise approvò il 26 novembre due decreti “per il rafforzamento della sicurezza pubblica”. La prima estese la definizione di reato di “terrorismo” ad atti di mero vandalismo, che sarebbero puniti con 50 anni di reclusione. L’altro istituì la National Intelligence Agency, un’agenzia di spionaggio e repressione i cui agenti non possono essere né perseguiti né processati, liberi di fatto di commettere ogni abuso con impunità garantita. Anche il Core Group, composto da ambasciatori di Brasile, Canada, Francia, Germania, Spagna, Stati Uniti, Unione Europea, Rappresentante Speciale dell’Organizzazione degli Stati Americani e Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, criticò queste misure. In un comunicato pubblicato a pochi giorni dall’approvazione dei regolamenti si affermava che questi “non sembrano essere in linea con alcuni principi fondamentali di democrazia, Stato di diritto e diritti civili e politici dei cittadini”. Un’altra decisione che generò reazioni internazionali fu la riduzione delle attribuzioni della Corte Superiore dei Conti, l’organo incaricato di vigilare sull’uso del denaro pubblico e di indagare casi di corruzione, a ruolo meramente consultivo. “Le sentenze della Corte superiore dei conti e delle controversie amministrative (…) non saranno vincolanti per la Commissione nazionale degli appalti pubblici, né per le autorità del ramo esecutivo”, recita il decreto firmato a novembre, e che generava ripudio internazionale. Le manifestazioni del mese scorso a Port-au-Prince gettarono ulteriori dubbi sulla tolleranza di cui gode il governo di Moise all’estero. Julie Chung, definiva “autoritarie” e “antidemocratiche” le azioni del governo di fronte alle proteste avviate a gennaio. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, preparò un rapporto da presentare al Consiglio di Sicurezza in cui, secondo i resoconti dei media internazionali, compila 66 punti critici che il Paese vive che potrebbero essere affrontati solo con nuove trasparenti elezioni democratiche.

L’esplosione del 2021
Il principale fattore scatenante della serie di massicce manifestazioni contro l’attuale governo, nonostante i rischi coinvolti, iniziata a gennaio, ruota sulla controversia sulla durata del mandato presidenziale di Moise. L’attuale costituzione prevede che il presidente rimanga in carica per un mandato di cinque anni. Moise fu eletto nel 2017, ma le elezioni in cui fu consacrato erano in realtà la ripetizione di quelle del 2016, annullate dopo che furono trovati brogli in diversi distretti. L’opposizione interpreta che il periodo presidenziale di Moise sia considerato dalle elezioni fallite del 2016, terminando il 7 febbraio 2021. Inoltre, secondo la Costituzione del 1987, in situazioni straordinarie, il parlamento potrà abbreviare il mandato presidenziale di un anno, cosa che l’opposizione assicura che il parlamento aveva intenzione di fare prima che il presidente lo chiudesse. Così, il 7 febbraio, migliaia di haitiani revocarono il mandato costituzionale di Moise e, con la chiusura del parlamento e l’azione del G9 in collusione con la polizia, ora lo considerano un dittatore. Quel giorno ci furono manifestazioni e dichiarazioni di vari attori politici del Paese. Tra questi, diversi magistrati erano a favore dell’interpretazione dell’opposizione secondo cui Moise usurpa una carica il cui mandato è già scaduto. Tre furono sostituiti e arrestati insieme ad altre 20 persone accusate di colpo di Stato, nonostante la costituzione vieti al presidente di revocare e nominare giudici. L’opposizione quindi nominò presidente ad interim il magistrato più anziano della Corte di cassazione, come previsto dalla costituzione. Joseph Mécène è impegnato nell’organizzazione di elezioni libere ed eque, ma di recente aggiunse che occorre prima compiere progressi nel consolidamento della conferenza nazionale sovrana, la riforma costituzionale, rafforzare magistratura e sistema elettorale, nonché ripristinare la sicurezza. Un’agenda piuttosto ambiziosa, che per ora ha il sostegno di un movimento eterogeneo e disorganizzato, il cui unico accordo sembra ridursi alla rimozione di Moise. “C’è un’opposizione molto forte da persone non organizzate”, osservava Rivara. “La relazione esistente ovunque tra mobilitazione organica e una inorganica è molto diversa da quella negli altri Paesi. Ci sono mobilitazioni di centinaia di migliaia di persone dove le struttur organizzate, con militanti, sindacati e movimenti, sono una minoranza. Poi c’erano partiti politici tradizionali, come quelli che si riuniscono al Settore Democratico e Popolare, la cosa più vicina a un’opposizione istituzionale, guidata dall’avvocato André Michel. E c’è il campo dei movimenti sociali e dei sindacati combattivi come quelli del Forum Patriottico. Si tratta di movimenti territoriali, femminili, contadini e religiosi che rappresentano l’opposizione radicale. Queste sono le tre grandi componenti delle mobilitazioni, quella inorganica è maggioritaria, quella normale e istituzionale e i movimenti sociali”.

Non succede niente qui
“Non drammatizziamo. Non abbiamo una situazione così grave come si credeva. È una situazione controllata. È sotto controllo. Oggi è meglio di ieri. Domani andrà meglio”, disse il cancelliere haitiano Claude Joseph, la notte del 14 febbraio, poche ore dopo che il cadavere carbonizzato venisse trovato per strada nel quartiere Dalmas e la polizia sparasse alla marcia, ferendo, tra gli altri, il terzo giornalista dall’inizio della crisi. Nonostante la situazione critica nel Paese, le forze che controllano il governo mantengono il piano di riforma costituzionale e le promesse di elezioni, respingendo ogni critica come piano golpista. Moise ha dalla sua parte l’inerzia che lascia la politica haitiana allo status quo, che verrebbe considerata un’eccezionalità, in ogni parte del mondo. viene assunta quasi come routine. La violenza politica, già all’ordine del giorno ai tempi dei temuti Tonton Macoutes, le milizie del regime Duvalier che per trent’anni terrorizzava la popolazione, corruzione e povertà. Il governo di Haiti, il Paese più povero delle Americhe, sembra giustificare quanto accade sulla base dell’inevitabilità di certi problemi storici. Qualsiasi studio su Haiti ruota sui temi: debito, corruzione, intervento straniero, cooperazione internazionale. Haiti ha una struttura economica profondamente dipendente sin dall’indipendenza punita dalla Francia dell’Illuminismo con una multa che poté pagare solo nel 1947. La costante necessità di finanziamenti portò tutti i governi haitiani ad essere ancora più indebitati nei confronti delle banche europee e del Nord America che, di fronte alla possibilità di un possibile default, non esitarono a rivolgersi ai propri governi. Così, nel 1915, gli Stati Uniti invasero Haiti dopo una delle tante rivolte terminata coll’assassinio dell’allora presidente Guillaume Sam, e ne misero sotto controllo la struttura economica. Quando lasciarono il Paese nel 1934, continuarono a influenzare le elezioni politiche e l’economia. Fu anche grazie alla benedizione di Washington che i Duvalier mantenmero il potere per quasi tre decenni. Dopo il rovesciamento (sempre il 7 febbraio), Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier portò con sé in esilio in Francia 900 milioni di dollari del tesoro pubblico. Nel 1996. Haiti doveva 22,8 miliardi di dollari e solo allora Fondo monetario internazionale e Banca mondiale la inclusero tra i Paesi poveri fortemente indebitati [2].
Nel frattempo, Haiti fu la principale destinataria di ONG e organizzazioni umanitarie nelle Americhe, caratteristica che a lungo andare si rivelò più negativa che utile. Data la lunga corruzione, i fondi, delle organizzazioni internazionali sono gestiti direttamente dai loro rappresentanti nel Paese e non dal governo, sostenendo infatti la povertà strutturale dello Stato e finanziando progetti secondo criteri discrezionali dei donatori privati e dei volontari sul posto. Un nuovo colpo di Stato nel 1991 interruppe uno degli esperimenti più interessanti del progressismo latinoamericano guidato dal sacerdote salesiano Jean-Bertrand Aristide, il primo presidente democraticamente eletto dal popolo haitiano. Tornato al potere nel 2001, fu nuovamente rovesciato da un colpo di Stato nel 2004 e l’instabilità politica scatenatasi da allora servì come giustificazione del nuovo intervento straniero. Questa volta nell’orbita delle Nazioni Unite attraverso la missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (Minustah). Un capitolo merita il ruolo di tali forze internazionali coinvolte in molteplici scandali. Parte dei 10000 soldati furono responsabili dell’introduzione del colera che colpì 780000 persone e causò più di 10000 morti. Nel 2016, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon se ne assunse la responsabilità e si scusò col popolo haitiano. I soldati della Minustah furono anche accusati di stupro e prostituire minori in cambio di cibo. Più di 2000 donne denunciarono gli abusi subiti e almeno 265 bambini nacquero da tale violenza [3] a cui le Nazioni Unite persino negarono i test del DNA per determinarne la paternità. Il terremoto del gennaio 2010 peggiorò la situazione. Quasi 300000 persone morirono e altre 1,5 milioni persero la casa, in una catastrofe che alla fine alimentò ulteriormente la dipendenza del Paese dal capitale straniero, sia dai prestiti multilaterali e privati che da donazioni di ONG. Il percorso di Haiti negli ultimi decenni è il contesto necessario per comprendere la parsimonia che l’attuale governo vuole dimostrare a livello internazionale di fronte la crisi attuale. Il suo piano è a lungo termine e offre una ragionevole soluzione a medio e lungo termine al pantano in cui il Paese si trova da 34 anni. E allo stesso tempo, come giustamente spiega Rivara [4], mira a raggiungere la normalizzazione istituzionale che rientri nel blocco conservatore e oligarchico che Moise rappresenta. Un’altra parte, un settore democratico estremamente eterogeneo e scarsamente organizzato guida la resistenza che ha sempre più eco a livello nazionale e internazionale. La sua forza, la strada, resta ferma nonostante la repressione, ma il progetto per il futuro istituzionale del Paese resta, ancora una volta, nebuloso.

Riferimenti
[1] El Pais
[2] FMI
[3] The Conversation
[4] Todos los Puentes

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

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